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  1. #3871
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    Predefinito re: Il Paese do sole che non può essere chiamato di menta

    Che fine ha fatto il “Patto delle Alpi piemontesi”?
    26 GENNAIO 202226 GENNAIO 2022 PIEMONTE LETTURA 9 MIN

    di Roberto Gremmo – Nell’ormai lontano 12 febbraio 2006 un gruppo di amministratori locali, abitanti delle valli e appassionati difensori della civiltà montanara siglavano a Prazzo in val Maira un “Patto delle Alpi piemontesi”, un documento che si richiamava alle migliori tradizioni democratiche della Resistenza per rivendicare una nuova politica federalista, in difesa delle popolazioni che tenacemente tengono vive le comunità valligiane.

    Sono passati gli anni e le richieste di decentramento, sostegno effettivo all’economia tradizionale e maggior rappresentanza sono state sempre arrogantemente disattese da una classe politica estranea ed ostile al mondo montanaro.

    Un centralismo sfacciato si è manifestato con la nascita delle cosiddette “Città metropolitana” che hanno sancito l’egemonia cittadina a scapito delle periferie; ugualmente umiliate dalla corporativa decisione di escludere i cittadini dal voto per le amministrazioni provinciali.

    Il “Patto delle Alpi piemontesi” resta ad oggi lettera morta ma la richiesta di un diverso e più equilibrato rapporto fra città e montagna resta valida e condivisibile. Almeno da chi si proclama e vuol essere autonomista.

    Ecco di seguito il testo del documento.

    ***

    “Patto delle Alpi piemontesi”

    Considerato che sessant’anni dopo la firma della Carta di Chivasso per le popolazioni delle vallate alpine del Piemonte è peggiorata la situazione di emarginazione politica, economica e culturale e questa tendenza non è stata modificata neppure con l’entrata in vigore della “Convenzione delle Alpi” che, dopo la ratifica da parte di tutti i paesi alpini, ivi compresa l’Italia, resta in attesa della sua attuazione e in particolare di un protocollo specifico relativo alla popolazione alpina.

    noi, cittadini delle valli alpine del Piemonte, affermiamo quanto segue:

    Premessa

    In Piemonte ci troviamo di fronte ad una situazione paradossale: una pianura quasi completamente antropizzata è circondata da un territorio che si sta sempre più desertificando e la linea di demarcazione tra queste due realtà corre poche centinaia di metri a monte della fascia pedemontana, zona tra le più densamente abitate, quasi una città diffusa che traccia il confine tra la Grande Pianura e le Alte Terre ed in questo contesto vanno comprese alcune “porzioni di valli” che, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, hanno subito un “percorso di sviluppo” legato ad un modello di turismo non sostenibile e nelle quali si sono riprodotte dinamiche tipiche dello sviluppo urbano.

    Tale modello pur avendo “arginato”, in queste aree, il fenomeno dello spopolamento favorendo l’inserimento di persone attratte dalle nuove opportunità economice, ha lasciato impatti pesanti sul territorio compromettendone per sempre le qualità ambientali, naturalistiche e paesaggistiche.

    La montagna era stata, se non fiorente, sicuramente forte quando le persone che la abitano facevano riferimento anche a una seconda scala di valori, oltre a quella personale e una scala di valori comuni è ancora condivisa dalle comunità che vivono la montagna.

    In questo contesto comunitario per le popolazioni delle vallate alpine non è possibile accettare un approccio contrattuale alla vita, perchè ci sono cose che sono sentite come patrimonio collettivo e che costituiscono l’essenza stessa e il motivo d’essere della comunità, ci sono cose che non sono in vendita e perciò è impossibile quanto inutile immporne il prezzo.

    Se l’approccio liberal ha funzionato in pianura, bene o male che sia, in montagna ha dimostrato tutti i suoi limiti e ad esso va in buona parte imputato lo spopolamento delle valli alpine ed il modello di sviluppo turistico non sostenibile che caratterizza alcune alte valli.

    Le valli alpine e la pianura negli ultimi tre secoli si sono allontanate, ma questa frattura va superata nell’interesse di tutta la regione.

    La regione non può che essere un insieme composto da tasselli ai quali va riconosciuta pari dignità su tutti i piani, dando visibilità, peso e voce a tutte le differenze, che sono il grande patrimonio del Piemonte.

    Questo è il modo di realizzare il “Sistema Piemonte”.

    Temi essenziali

    1° la struttura di potere:

    gli interessi delle popolazioni alpine non sono rappresentati nella struttura di potere ed esse sono in posizione subalterna rispetto al potere centrale;

    è lo Statuto Regionale che deve porre fine a questa situazione, facendo proprio in modo chiaro che il concetto di sussidiarietò, recependolo come valore fondante nel “corpus legis” regionale.

    2° la gestione del territorio:

    essa è di competenza delle popolazioni alpine, le quali devono essere rappresentate nelle istituzioni in modo proporzionale alla propria consistenza numerica che all’estensione del territorio montano che vivono.

    3° il livello minimo dei servizi:

    – ai giovani si debbono garantire pari opportunità nell’accesso ai servizi.

    – la arrività preposte ad essere offerta ad un livello di qualità.

    Le richieste delle valli alpine

    – le popolazioni delle vallate alpine devono partecipare alla struttura di potere regionale perciò chiediamo innanzitutto la ridefinizione dei collegi elettorali in modo da garantire la presenza di rappresentanze alpine a tutti i livelli;

    – ogni decisione relativa a interventi strutturali e ogni tipo di utilizzo delle risorse del terriitorio, deve passare attraverso il consenso degli abitanti delle valli, consenso che si può esprimere sia attraverso consultazioni popolari, sia con delibere dei consigli comunali, sia con iniziative previste dagli statuti comunali;

    – in ogni atto degli enti componenti, U. E., stato, regione e provincia, deve essere prevista una normativa spcifica per la montagna;

    – l’erogazione dei servizi deve affrancarsi da considerazioni prettamente economiche ed efficienziali, la qualità dei servizi deve diventare lo strumento per promuovere insediamenti produttivi e per creare un clima di vivibilità;

    – il razionale e corretto utilizzo delle risorse naturali deve trovare una collocazione funzionale alla possibiità di vivere la montagna, l’approccio del “laissez faire” deve essere rivisto, cominciando dall’utilizzo dell’acqua e dalla gestione dei parchi naturali per poi essere comunque estesa a tutto il territorio;

    – i giovani delle valli devono essere messi in condizione di avere pari responsabilità rispetto a quelli della pianura, a livello formativo e professionale, con particolare riguardo alla possibilità di formazioni miate alle attività e alle eccellenze tipiche del vivere il monte;

    – si deve ridurre la “distanza territoriale” tra montagna e pianura attuando una politica di prezzi nell’erogazione dei servizi e una gestione adeguata per i trasporti, utilizzando in modo efficace le nuove tecnologie e utilizzando la leva fiscale come strumento perequativo;

    – la manutenzione del patrimonio alpino, il suo presidio e la tutela ambientale, naturalistica e paesaggista del territorio devono essere considerati servizi erogati dalle popolazioni delle vallate a vantaggio di tutta la regione;

    – la pluriattività, sia iindividuale che famigliare, è storicamente alla base dell’impianto dell’economia alpina, perciò va riconosciuta, normata e tutelata a tutti i livelli.

    https://www.lanuovapadania.it/piemon...pi-piemontesi/
    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
    Tacito, Agricola, 30/32.

  2. #3872
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    Predefinito re: Il Paese do sole che non può essere chiamato di menta

    Telefonata "cordiale" di Draghi a Berlusconi.
    Vedo problemi a breve per Mediaset.
    A meno che...

  3. #3873
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    Predefinito re: Il Paese do sole che non può essere chiamato di menta

    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
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  4. #3874
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    Predefinito re: Il Paese do sole che non può essere chiamato di menta

    E così la destra ha straperso.
    Che per Salvini è una gioia, ma l'amarezza della vittoria ancora una volta della sinistra cancella anche quella gioia.
    Ora ci possiamo aspettare di tutto e di più.

  5. #3875
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    Predefinito re: Il Paese do sole che non può essere chiamato di menta

    Salvini aveva mille strade per fare eleggere qualcun altro.
    Questo impone molte riflessioni su quest'uomo vergognoso.
    Ma per fortuna sua la gente del Nord dorme perennemente.

  6. #3876
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    Predefinito re: Il Paese do sole che non può essere chiamato di menta

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  7. #3877
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  8. #3878
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    Predefinito re: Il Paese do sole che non può essere chiamato di menta

    Genova la Superba, vittima dell’avventurismo patriottico e non solo
    6 FEBBRAIO 2022

    5 FEBBRAIO 2022 CULTURA LETTURA 7 MIN

    di Roberto Gremmo – Nel 1849 il generale italianissimo La Marmora cannoneggiava Genova ribelle Genova “la Superba”, fiera del suo passato, fu vittima dell’avventurismo “patriottico” e del terrorismo di Stato. Quando la restaurazione post-napoleonica permise ai Savoia di annettere al Regno Sardo anche la Liguria, a differenza di quanto accadeva negli altri dominii di Terraferma, si dovette consentire la creazione nei vari distretti di organi consiliari di rappresentanza che avevano l’ultima decisiva parola sull’imposizione delle tasse ed a Genova vennero riconosciuti ampi privilegi municipali.

    Come sottolinea Maria Rosa Di Simone nel suo prezioso studio su “Istituzioni e finti normative dall’antico regime all’Unita’”, questa larga autonomia venne garantita “sia per ottemperare alle conduzioni imposte dal congresso di Vienna per l’annessione, sua per contenere il malcontento dei nuovi sudditi tradizionalmente avversi ai piemontesi”.

    Se il profondo sentimento dei genovesi era dunque avverso ad una subalterna passività al governo di Torino, non v’è da stupirsi se alla prima occasione l’avversione agli ordini che essi emanava trovo’ subito terreno fertile a Genova. E infatti il “momento buono” si presentava dopo la sconfitta dell’Esercito Sardo nel 1849, quando alla testa della “Guardia nazionale” genovese veniva incautamente messo il chierese Giuseppe Avezzana, dal passato turbolento e tumultuoso.

    Ufficiale dell’Esercito Sardo, s’era compromesso col tentativo golpista del 1821, condannato a morte in contumacia, era stato costretto a fuggire prima in Spagna e poi in Messico dove s’era fatto notare come capintesta di numerosi, velleitari, spericolati e destinati inesorabilmente al fallimento tentativi di avventure militari. Era subito tornato in Italia dopo l’armistizio di Salasco, iniziando a pescare nel torbido, spingendo gli ingenui patrioti genovesi a proclamarlo il 2 aprile a capo di un effimero “Governo Provvisorio della Liguria” con Costantino Rea e David Morchio, contrapponendosi al legittimo governo del Re.

    Come chiarisce la “Relazione sugli ultimi fatti di Genova” della tipografia Arnaldi, il focoso Avezzana raccoglieva i frutti dei lunghi “maneggi di una fazione sedicente repubblicana, ambulante per l’Italia” e soprattutto facendo circolare per la città l’infondata diceria che Carlo Alberto avesse accettato di consegnare agli austriaci i forti che cingono la città ligure.

    Mentre l’imbelle comandante del presidio generale De Asarta abbandonava vergognosamente e vigliaccamente la città, da Torino partiva una “spedizione punitiva” agli ordini del fanatico sabaudista generale La Marmora che, con mezzi sbrigativi e spregevoli, costringeva il sindaco Antonio Profumo a trattare la capitolazione con la mediazione del commodoro inglese lord Hardwich. T

    utte le cronache dell’epoca concordano nel considerare “una pagina infame” la violenta repressione ordinata da La Marmora contro Genova, cannoneggiando soprattutto il quartiere du Portoria, “e mentre una sola bomba non cadde sovra i signorili palati, le povere case ed i tuguri de’ popolani ebbero forate le mura da que’ micidiali tormenti”.

    Il crimine più orrendo fu colpire con sedici bombe l’ospedale di Pammatone, uccidendo e ferendo decine di poveri malati, costretti nei letti. Come documenta l’obiettiva relazione della commissione d’inchiesta capeggiata da Emanuele Agenore, i bersaglieri di La Marmora si macchiarono dei peggiori crimini, che Genova non ha mai perdonato. L’11 aprile i bersaglieri si abbandonarono ai peggiori eccessi nei quartieri popolari di San Teodoro e San Benigno, saccheggiando le case al grido “Denari o la vita”, uccidendo senza motivo diverse persone, minacciando anche i conventi e depredando persino gli arredi sacri del santuario di Nostra Signora di Belvedere.

    Addirittura “fu sparato contro un contadino e fu mortalmente ferito perché oso’ raccomandarsi non rovinassero la poca verdura che non potevano consumare” e contro un povero ragazzo che assisteva da una finestra ai loro eccessi. Persino una bambina di due anni che piangeva e gridava al collo della madre fu strappata dalle braccia della donna è gettata a terra senza pietà. Si scrisse che “nel palazzo del Principe Doria si fecero ingollare ad alcune gallette inzuppate di sangue”.

    Una cronaca della violenza militarista, pubblicata nel 1851 dall’editore Claudio Perrin, ricordava però che accanto alle pesanti responsabilità dirette del feroce generale biellese non andavano dimenticate quelle dei maneggioni cittadini e che “le loro arti subdole, i loro inganni, non il valor piemontese, spianarono al Lamarmora l’ingresso in città”.

    Poi, mentre veniva proclamato lo stato d’assedio, c’era chi riusciva a farla franca ed era proprio Avezzana. Benché il 24 luglio il Magistrato d’Appello lo avesse condannato per la rivolta con altri dieci coimputati, grazie alle occulte ed efficaci complicità massoniche, riusciva a fuggire da Genova martoriata, raggiungendo Roma dove s’era insediata un’effimera “Repubblica” capeggiata da Mazzini e malamente difesa da Garibaldi.

    Successivamente, l’avventuriero di Chieri tornava in America, rimpatriava in tempo per unirsi ai Mille nell’aggressione al Regno delle Due Sicilie per poi finire i suoi giorni come deputato del Parlamenti italiano, eletto prima a Napoli e poi ad Isernia. Il suo fanatismo nazionalista trovava ancora modi d’emergere nel 1877 quando, ormai anziano, Avezzana diventava primo presidente della “Associazione Pro Italia Irredenta” che, apripista del peggior militarismo guerrafondaio, auspicava l’unione al Regno d’Italia del Tirolo di lingua italiana e del fiorente porto dell’Impero Trieste. Mentre Genova martire e dolorante, piangeva ancora i suoi morti e contava i danni. Maledendo i Savoia?

    https://www.lanuovapadania.it/cultur...co-e-non-solo/
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  9. #3879
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    Predefinito re: Il Paese do sole che non può essere chiamato di menta

    Lamorgese.
    Aggressioni di Capodanno non legate a problemi di immigrazione.
    La sua affermazione non legata a problemi di servilismo né di salute.

  10. #3880
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    Predefinito re: Il Paese do sole che non può essere chiamato di menta

    Fermati due giovani. EGIZIANI. Nemmeno itagliani di seconda generazione.
    Ma per lei "nessun problema di immigrazione, però dobbiamo lavorare per una migliore integrazione".
    Si metta d'accordo con se stessa
    Una volta si diceva: collegare il cervello con la bocca 😂😂😂

 

 
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