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Discussione: Fascismo d' acciaio

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    Predefinito Fascismo d' acciaio

    Italia Sociale


    INTRODUZIONE

    Quelle qui raccontate sono pagine di storia, del fascismo e dell’antifascismo, che ci aiutano a far luce su una parte del nostro passato, caratterizzato, come ogni epoca, da sogni, illusioni, progetti solo in parte realizzati da una generazione la quale in molti casi pagò in modo ingiusto per responsabilità altrui.

    Se sul sindacalismo tra le due guerre disponiamo di valide opere, frutto di un’indagine seria e di una volontà di analisi obiettiva, qui la nostra attenzione si incentra sul sindacalismo fascista di una realtà locale limitata, tuttavia di rilievo non solo a livello regionale ma anche nazionale in quanto Terni è stata, ed è ancora, uno dei maggiori centri industriali italiani.

    Oggetto d’indagine in questa sede è l’opera svolta da alcuni suoi protagonisti come Tullio Cianetti, per quanto riguarda gli anni Venti e quella fase della lotta contro le organizzazioni sindacali di sinistra e l’amministrazione socialista, che si concluse con la conquista di gran parte della massa operaia, e come Maceo Carloni, la cui attività si sviluppò per un periodo di maggiore durata, in pratica fino quasi al termine della Seconda guerra mondiale.

    Nei primi capitoli concentreremo la nostra attenzione sulla storia della città, della sua economia e delle attività politico-sindacali qui sviluppatesi, tenendo conto che queste costituiscono una parte importante sia della più vasta storia del fascismo e delle scelte operate in pace e in guerra dal regime, sia della storia dell’industria di Stato e del processo di modernizzazione allora in corso.

    Durante il regime Terni, dove il fascismo si consolidò nella seconda parte degli anni Venti, e quindi dopo l’instaurazione della dittatura, fu una città di provincia per molti aspetti diversa dalle altre, essendo priva di una sua tradizione culturale e di una società civile borghese: si caratterizzò come «la città dell’acciaio e delle armi», con una grande massa operaia afflitta da problemi di lavoro, di salario, di alloggi, e in conseguenza di ciò scarsamente politicizzata e molto sindacalizzata. Quella ternana fu una provincia ad alta concentrazione industriale, in cui lo Stato fu presente non solo come istituzione politica ma anche come imprenditore.

    In una città che percepiva se stessa come una grande fabbrica, il regime mussoliniano mise sotto l’ala protettrice del capitalismo di Stato l’industria, soprattutto nei periodi di crisi strutturale, offrendo al contempo ai lavoratori occupazione e assistenza attraverso l’inquadramento nell’organizzazione sindacale-corporativa.

    Nel corso degli anni Trenta, dall’intima associazione di elementi tra loro differenti, ebbe origine la grande esperienza della «fabbrica totale»: l’azienda controllava il tempo libero dei suoi dipendenti attraverso la creazione di attività dopolavoristiche e di assistenza. Attorno alla «fabbrica totale » nel secondo decennio fascista ruotarono tutte le istituzioni, dal Comune alla provincia, dalla prefettura alla questura, oltre ovviamente al partito e al sindacato che, finita la
    propria funzione propulsiva rivoluzionaria, negli «anni del consenso» si fecero sempre più carico, talvolta anche in competizione tra loro, dei compiti assistenziali verso tutti i cittadini di ogni età e di ogni ceto sociale.

    In un periodo in cui il regime dedicò la propria attenzione a ogni aspetto della vita, dall’istruzione al tempo libero, dalla maternità e dall’infanzia alla vecchiaia, ricorrendo anche all’utilizzo delle corporazioni sindacali, la città dell’acciaio e delle armi costituì un piccolo laboratorio, un microcosmo dove si rifletteva la politica sociale del fascismo, con i suoi difetti e i suoi pregi, dove la comunità celebrava i suoi riti nelle adunate, nelle feste, nelle manifestazioni sportive, facendo dissolvere quasi completamente i confini tra ciò che era pubblico e ciò che era privato, riducendo il dissenso senza ricorrere a provvedimenti polizieschi e repressivi. Questo sia perché vennero a mancare le cause di scontento e opposizione, sia in virtù di un conformismo che accomunò i ternani agli altri italiani, anche dopo l’entrata nella Seconda guerra mondiale che peraltro costituì per la città una fonte di benefici economici e sociali. Furono le sconfitte, prima ancora dei bombardamenti dell’estate del 1943, a far cambiare del tutto il clima politico in un centro industriale che dopo l’armistizio diventò l’ombra di se stesso a causa delle distruzioni, degli sfollamenti e dello stato di paralisi in cui erano costrette le fabbriche.

    Ciononostante, durante la Repubblica sociale il rinato fascismo riuscì ad assicurare l’amministrazione ordinaria, facendo funzionare, seppur con esiti alterni, tutte le istituzioni sociali e assistenziali realizzate dal regime (sulle quali si inseriranno poi quelle postfasciste, comprese le sindacali), a contenere l’arroganza dei tedeschi, alleati traditi, e a bloccare la guerra civile in città, relegando le attività delle forze della Resistenza ai territori periferici, soprattutto montani. Quando il 13 giugno 1944 gli Alleati entrarono a Terni trovarono una città in gran parte distrutta dai bombardamenti e deserta.

    Le origini del fascismo a Terni, la svolta dittatoriale dopo il 3 gennaio 1925, il consolidamento della dittatura, la crisi economica del 1929, la politica corporativa del decennio successivo e la guerra costituiranno le tappe cronologiche di un percorso che affronteremo focalizzando sia gli aspetti legati alle organizzazioni sindacali – dai contratti collettivi di lavoro all’assistenza sanitaria, previdenziale e dopolavoristica, dalla mutualità al collocamento – sia l’attenzione della stampa verso i grandi temi del sindacato dell’industria, le discussioni sul sindacalismo e il corporativismo, che riecheggiavano i dibattiti nazionali contemporanei, sia, per quanto riguarda il periodo della RSI, l’elezione, anche a Terni, delle commissioni di fabbrica, da cui nel dopoguerra sorgeranno i consigli di gestione, presi a modello dal più importante e rappresentativo sindacato italiano, la CGIL.

    La figura, tra quelle sopra citate, su cui concentreremo maggiormente il nostro interesse, sarà quella di Maceo Carloni, non soltanto perché la famiglia ci ha permesso di studiare la documentazione raccolta nel suo archivio, ma anche perché fu un sindacalista che per quindici anni si trovò a capo dei metallurgici ternani, ricoprì vari incarichi e svolse missioni importanti a livello sia locale sia nazionale, senza contare la sua grande passione morale e civile e il suo apporto di idee ai temi del lavoro e dell’assistenza con articoli su fogli sindacali come «Acciaio» e «Il Lavoro Metallurgico».

    Grazie alle vicende di questo protagonista e testimone di un momento tra i più drammatici della nostra storia nazionale, abbiamo oggi la possibilità di studiare e interpretare con una prospettiva nuova e con un atteggiamento privo di pregiudizi, quel fenomeno originale e complesso che fu il sindacalismo fascista, la cui comprensione non è possibile se non ci si libera dalle camicie di forza che sono le tradizionali categorie di destra e di sinistra. Cercheremo inoltre di far emergere un’immagine diversa e non convenzionale del lavoratore italiano durante il regime fascista, quella di un uomo che dall’esperienza della Prima guerra mondiale imparò a pensare e a progettare la vita secondo un’ottica nazionale, attribuendo anche al lavoro un senso etico e pedagogico.

    01/06/2013
    Ultima modifica di Avanguardia; 02-06-13 alle 10:03
    FASCISMO MESSIANICO E DISTRUTTORE. PER UN MONDIALISMO FASCISTA.

    "NELLA MIA TOMBA NON OCCORRE SCRIVERE ALCUN NOME! SE DOVRO' MORIRE, LO FARO' NEL DESERTO, IN MEZZO ALLE BATTAGLIE." Ken il Guerriero, cap. 27. fumetto.

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    Predefinito Re: Fascismo d' acciaio

    L?Italia d?acciaio. Terni | Storia | Rinascita.eu - Quotidiano di Sinistra Nazionale
    L’Italia d’acciaio. Terni

    di: Andrea Perrone
    dafne@rinascita.eu
    Modernizzare l’Italia secondo i principi che animavano il fascismo, favorire l’industrializzazione del Paese potenziando la produzione, istituire il sindacalismo nazionale in grado di garantire la giustizia sociale e la collaborazione fra impresa e maestranze per il bene superiore della nazione, infine applicare la socializzazione e la cogestione delle imprese con l’apporto dei lavoratori: tutto questo avvenne nella città di Terni, capoluogo umbro, che rappresentò un laboratorio politico-sociale e industriale dove operò il sindacalista di formazione mazziniana Maceo Carloni e dove si svilupparono le famose acciaierie che rappresentarono per molti anni il fiore all’occhiello dell’Italia.
    Un successo tanto grande quello del sindacalismo nazionale, promosso dal Duce, che in piena RSI garantì una collaborazione strettissima nella gestione dell’azienda tra sindacalisti fascisti e comunisti per controllare la produzione delle acciaierie in linea con la politica socializzatrice del fascismo repubblicano. Ma partiamo dall’inizio.
    Per conoscere compiutamente gli eventi suddetti e la storia del movimento fascista nella città umbra, dove lo Stato fu istituzione politica e imprenditore con un sindacalismo nazionale ben organizzato abbiamo ora a disposizione uno studio del prof. Stefano Fabei, uscito da pochi giorni per le Edizioni Mursia, dal titolo magniloquente ma quanto mai appropriato Fascismo D’acciaio, Maceo Carloni e il sindacalismo a Terni (1920-1944).
    È bene innanzitutto sottolineare che Fabei è uno studioso prolifico e dotato di acume, particolarmente preparato nelle ricerche d’Archivio avendo dato alle stampe una serie di pubblicazioni sul movimento fascista e sulla Seconda guerra mondiale, per i tipi della Mursia e non solo, con la finalità di far luce su alcuni avvenimenti ancora poco conosciuti. E proprio l’archivio del sindacalista Carloni ha rappresentato una delle fonti principali su cui Fabei ha lavorato e in cui ricorda con pagine commoventi l’assassinio nel 1945, a opera di commissari politici comunisti, rimasto vergognosamente impunito.
    Iniziamo dalle origini e soprattutto dalla nascita del laboratorio politico-sociale e industriale sorto nel capoluogo umbro, quello rappresentato in particolare dallo sviluppo delle acciaierie. Crescita questa favorita dall’invio di armamento pesante per affrontare la Prima guerra mondiale, quando la Società degli Alti Fondi e Fonderie di Terni aumentò in modo considerevole la produzione, non solo delle corazze delle navi da battaglia della marina ma degli stessi componenti di cannoni e proiettili. La guerra aveva dato un grande impulso all’industria siderurgica ternana e a tutto il suo indotto, per questo la città raggiunse i 45.000 abitanti, grazie alla forte spinta economico-produttiva. Il regime mussoliniano avrebbe poi confermato e sviluppato la vocazione industriale di Terni, definita dal Duce stesso “città dinamica” ed elevata dallo stesso al rango di capoluogo di provincia nel 1927.
    Quello in cui mosse i primi passi il sindacalismo fascista nella città umbra fu, quindi, un contesto segnato in modo significativo dalla presenza della grande industria e della classe operaia. All’inizio del terzo decennio del Novecento, infatti, almeno sette erano gli insediamenti industriali importanti, a capitale pubblico e privato. Il mito della cosiddetta “Manchester italiana” iniziò progressivamente a realizzarsi e questo avvenne proprio nella città umbra, dopo la piena sconfitta delle forze socialcomuniste e la svolta autoritaria del capo del fascismo avvenuta dopo il delitto Matteotti.
    Con la fine della Grande Guerra si era avuta una battuta d’arresto e allo stesso tempo avvenne una caduta dei prezzi e della domanda. Se a ciò si aggiungono l’incertezza della politica economica governativa e le pendenze relative alle forniture statali, non meraviglia la crisi che raggiunse l’apice con la chiusura degli stabilimenti. Contemporaneamente alla crescita industriale si erano intanto sviluppate le organizzazioni operaie. All’inizio del 1920 la Camera sindacale, che aderiva all’Unione Sindacale Italiana (USI), di orientamento anarco-sindacalista, organizzava 3.549 lavoratori in 29 leghe; la Camera del lavoro, emanazione locale della Confederazione generale del lavoro (CGdL), su posizioni socialriformiste, organizzava 3.302 soci suddivisi in 14 leghe. La massa operaia che durante il conflitto, essendo impegnata nella produzione, era stata in parte esonerata dal servizio militare e preservata dal parteciparvi in prima linea, tornata la pace, si trovava adesso in qualche modo avvantaggiata rispetto ai reduci e individuava nel sindacalismo uno degli strumenti per difendere i propri interessi economici sia contro i padroni sia contro quanti, avendo combattuto al fronte, erano alla ricerca di un riconoscimento nel mercato del lavoro. Le elezioni amministrative che si svolsero a Terni nel 1920, in un clima di estraneità da parte dei più allo scontro in atto, videro – insieme a un’astensione attestatasi al 67 per cento degli aventi diritto al voto – l’ampia affermazione dei socialisti massimalisti con una lista che conquistò il 73 per cento dei voti e 32 consiglieri su 40. I socialisti, il cui ampio consenso rilevava le contraddizioni economiche e sociali postbelliche, e ai quali si contrapponeva una minoranza liberaldemocratica, espressero una maggioranza in seno al consiglio, insieme al sindaco e alla giunta che si trovarono subito impegnati a fare i conti con i difficili problemi del dopoguerra con un aumento dei prezzi dei generi di prima necessità e della disoccupazione.
    Nel corso dei due anni di gestione del governo cittadino, i socialisti, pur godendo dell’appoggio del proletariato urbano e dei sindacati operai, resero sempre più profondo il solco che li divideva da una serie di categorie diverse tra loro ma accomunate dal malcontento generalizzato: dagli impiegati pubblici colpiti dall’inflazione e dalla scarsità di generi alimentari e di case, agli ex combattenti e alle famiglie dei caduti in guerra, offesi dall’atteggiamento antipatriottico e pacifista caratterizzanti l’amministrazione; dai coltivatori diretti ai contadini medi, vessati dalle imposte sui terreni e sul bestiame; dagli insegnanti elementari, esclusi dai miglioramenti economici per le ristrettezze del bilancio comunale; ai commercianti, decisi a opporsi in ogni modo alle cooperative di consumo creati dal Comune sotto il controllo dei socialisti.
    In questo contesto sociale ricco di contraddizioni il fascismo cominciò con fatica a reclutare aderenti fra i reduci, fra i giovani della piccola e media borghesia e fra gli scontenti presenti un po’ in tutte le categorie. Fu proprio un piccolo nucleo di scontenti che diede vita alla sezione del Fascio di combattimento di Terni, il 7 ottobre 1920.
    Per quanto riguarda, invece, i sindacati fascisti in Umbria videro la luce tra il 1921 e il 1922, nello stesso momento dello sviluppo dello squadrismo e, solo con la conquista del potere, cominciarono ad assumere un certo ruolo inserendosi nei vari ambiti del tessuto economico, con una marcata impronta antisocialista.
    Guido Pighetti, il capo del sindacalismo fascista in Umbria, in considerazione del temperamento battagliero, inviò per questo Cianetti a Terni nell’agosto del 1922, dopo averlo edotto sulla difficile situazione politica in cui versava la città sia a causa dell’amministrazione comunale socialista, ridotta a uno stato di paralisi e isolamento, sia per la recessione economica che, finita la guerra, aveva colpito le acciaierie e le altre industrie. Il celebre sindacalista era nato ad Assisi nel 1899, primogenito di un coltivatore diretto, Cianetti fino all’adolescenza, a causa delle modestissime condizioni economiche della famiglia, aveva alternato al lavoro periodi di studio in istituti religiosi. Un vero e proprio autodidatta che nel 1916 era stato assunto quale istitutore in un collegio prima di essere chiamato alle armi. Prestato servizio al fronte come ufficiale d’artiglieria, il 23 marzo 1921 si era congedato con il grado di capitano. Tornato al lavoro dopo la fine del conflitto, il 10 aprile aveva fondato insieme ad altri il Fascio di Assisi di cui nel 1922 sarebbe diventato segretario politico. Dopo il congresso regionale del 29 agosto 1921, si era dedicato soprattutto all’attività sindacale iniziando un percorso che lo avrebbe portato a ricoprire, dall’ottobre del 1924, il ruolo di segretario regionale delle Corporazioni sindacali.
    Il capoluogo umbro divenne a partire dagli anni Trenta all’avanguardia, dotato com’era di modernissimi stabilimenti che facevano di Terni uno dei centri più importanti dell’economia nazionale, dove avevano sede importanti stabilimenti siderurgici presenti ancora oggi e laddove il fascismo trasformò la città in un gigantesco conglomerato anche elettrominerario, chimico e meccanico, attuando una efficace politica di tutela dei diritti del lavoratore. Lo sviluppo industriale è seguito, sin dal 1922, dal gerarca Cianetti e poi dal sindacalista Carloni, un operaio che, attraverso lo studio e la buona fede, si era fatto strada fino ai vertici del Sindacato Fascista.
    La realtà ternana sotto il profilo politico e sindacale verso la fine degli anni Trenta fu caratterizzata da una certa stabilità. Se a Terni esisteva un certo disagio tra gli operai a causa delle cicliche crisi produttive, della riduzione salariale e del caro viveri, il malcontento non si traduceva in dissenso politico o in forme di opposizione organizzata, pur non mancando qualche spontanea e isolata protesta. A confermare ciò contribuiva la crescita del consenso attorno al regime testimoniata dall’aumento delle iscrizioni alle organizzazioni di massa create dal regime e al Partito Nazionale Fascista.
    Anche l’esperienza bellica fu intensamente vissuta a Terni, come nel resto d’Italia, dal sindacato, che fin dall’inizio del secondo conflitto mondiale condivise le scelte politiche del fascismo.
    Nella visione di Carloni e di altri suoi fedelissimi - ricorda con acume Fabei - quella in corso era una guerra di popolo, sviluppo logico di una rivoluzione che andava completata, oltre che sul piano interno, anche a livello internazionale contro i nemici del fascismo, prima di tutto contro le demoplutocrazie parassitarie e sfruttatrici del lavoro, era la guerra del sangue e dell’acciaio contro l’oro.

    Quando la fabbrica era un bene di tutti

    In questa logica guerra proletaria e rivoluzione erano una cosa sola, un binomio inscindibile: il conflitto contro Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti rappresentava non solo la capacità di mostrare coraggio e volontà d'acciaio ma soprattutto l’occasione per rilanciare la politica sociale del fascismo primigenio che la guerra avrebbe rinvigorito e riportato alle origini, sollecitandone il ritorno ai programmi rivoluzionari del 1919. Carloni definì la guerra, in uno dei suoi contributi pubblicati sui periodici sindacali come la marcia vittoriosa delle legioni proletarie, che stavano lottando contro i nemici della civiltà e della giustizia. Quella in corso era una battaglia, interna e planetaria, contro i privilegi di classe e di casta, contro la biasimevole e pestilenziale società dei ricchi.
    La nuova situazione determinatasi con l’entrata in guerra dell’Italia il sindacato si trovò a operare in un contesto del tutto diverso dal passato; sua preoccupazione principale diventò adesso la possibilità di garantire il potere d’acquisto degli stipendi con il rigido controllo del blocco dei prezzi. La paura che l’inflazione potesse assorbire i vantaggi raggiunti in campo salariale si evidenziò anche e soprattutto a livello di dirigenti sindacali. Le misure previdenziali, in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, nell’ottobre del 1942, raggiunsero l’apice con il premio del Ventennale che serviva ad aumentare le pensioni di invalidità e vecchiaia del 25 per cento, accompagnate da un raddoppio degli assegni familiari per i richiamati alle armi, ad aumenti salariali per le maestranze femminili delle industrie metalmeccaniche e così via.
    Alla fine però prevalse il caos più assoluto, frutto di una guerra ormai perduta. E fu con l’8 settembre 1943 che il Paese costituì l’evento fondamentale di un processo storico che vide sciogliersi i legami della società politica con la società civile, dello Stato con la nazione, determinando non solo la successiva divisione dell’Italia in due parti, ma anche l’esplosione della guerra civile.
    Nella visione di Carloni e di altri sindacalisti quella in corso era una guerra di popolo, sviluppo logico di una rivoluzione che andava completata, oltre che sul piano interno, anche a livello internazionale contro i nemici del fascismo, prima di tutto contro le demoplutocrazie parassitarie e sfruttatrici del lavoro, era la guerra del sangue e dell’acciaio contro l’oro.
    Terminata all’improvviso l’attività delle organizzazioni sindacali fasciste, le masse operaie vissero una situazione di disorientamento della quale approfittarono gli antifascisti e in particolare i comunisti. Da quanto emerge dallo studio di Fabei si desume che la cellula comunista alle acciaierie avesse nel settembre del 1943 una consistenza di circa 100 iscritti e compisse azioni di sabotaggio in quella realtà che avrebbe costituito – confermando il legame tra antifascismo militante, fabbrica e attività combattente – il bacino di reclutamento della brigata "Gramsci", l’unità resistenziale più attiva e persistente nella lotta di tutta l’Italia centrale, anche se con poco seguito alle spalle.
    Il 18 agosto del 1943, la situazione cominciò a diventare drammatica proprio a causa del primo bombardamento dagli esiti assolutamente distruttivi.
    Ancora peggiori furono gli effetti del bombardamento del 28 agosto che provocò danni ingentissimi alle acciaierie e distruggendo molti edifici pubblici, e la stazione ferroviaria. La paura delle incursioni aeree determinò l’esodo della popolazione dalla città verso le aree periferiche e i Paesi circostanti. In questo drammatico momento in cui le organizzazioni sindacali avrebbero potuto svolgere un’opera a favore della classe lavoratrice, queste avevano cessato ogni attività e l’assistenza mutualistica era precipitata nel caos. Il 26 ottobre Carloni informò Pietro Faustini, nominato il giorno prima prefetto reggente di Terni, sui fenomeni di arrembaggio, disonestà, letti in chiave morale e pedagogica; amara constatazione del fallimento di quell’educazione politica ed economica che il fascismo aveva cercato di impartire al popolo con una ventennale opera di assistenza e propaganda. Ai fenomeni di anarchia, alle manifestazioni di opportunismo e alla perdita di centinaia di giornate lavorative sottratte alla produzione bellica denunciati anche in precedenza da Carloni, si unì la campagna antifascista svolta da alcuni operai negli stabilimenti, che colpiva senza distinzioni quanti tra i compagni di lavoro li avevano rappresentati nei sindacati e negli enti assistenziali, o erano ritenuti molto vicini ai padroni.
    Durante la RSI, Carloni mantenne la carica di amministratore delegato della Mutua siderurgici e i sindacati ripresero a funzionare, senza tuttavia beneficiare di quel consenso di cui avevano goduto, anche se all’interno delle aziende industriali si costituirono commissioni di operai che reclamavano il funzionamento di quelle istituzioni che il regime fascista aveva creato per garantirne l’assistenza. Il sindacalista, pur senza entusiasmo, riprese il suo posto, oltre che di dirigente della mutua aziendale dell’Acciaieria, di capo dei metallurgici. I suoi vecchi sentimenti mazziniani, di solidarietà e di dedizione per il popolo, riemersero nel momento in cui quest’ultimo era stato lasciato a se stesso da chi aveva il compito di aiutarlo. nella sua città egli dovette constatare, con l'assenza di ordine e disciplina, anche il dissenso o pur tuttavia il distacco del popolo dalle istituzioni e il riemergere di quegli atteggiamenti anarchici e individualistici che venti anni di fascismo non erano riusciti a debellare.
    Nel marzo del 1944 Carloni decise di tornare sulla scena sindacale, come membro delle commissioni interne di cui si fece portavoce. Era il momento adatto per tornare sulla scena politico-sindacale il fascismo repubblicano aveva emanato la socializzazione delle imprese
    Quando a Verona il 14 novembre 1943 si era riunito il congresso del Partito fascista repubblicano, fu approvato un manifesto in diciotto punti in cui, tra l’altro, si affermava che base della RSI era il lavoro, ed erano sanciti i principi della statizzazione delle aziende d’interesse collettivo e della cooperazione di rappresentanti dei tecnici e degli operai alla fissazione dei salari e alla ripartizione degli utili attraverso la conoscenza diretta della gestione. I punti relativi alla politica sociale furono ripresi e sviluppati dal Consiglio dei Ministri riunitosi il 13 gennaio 1944 per esaminare il documento elaborato da Angelo Tarchi, ministro dell’Economia corporativa; la deliberazione approvata si configurò come "Premessa fondamentale per la Creazione della nuova struttura dell’economia italiana" e dettò le direttive per la regolamentazione economica del nuovo Stato fascista. Questa premessa prevedeva il controllo delle imprese d’interesse vitale per l’indipendenza economica e politica del Paese, delle imprese fornitrici di materie prime e di energia, di tutti quei servizi indispensabili al regolare svolgimento della vita economica. Il capitale di tali aziende sarebbe stato amministrato dallo Stato grazie all’Istituto di gestione e finanziamento, un Ente pubblico autonomo.
    Nella premessa era decretata la socializzazione di tutte le imprese a capitale pubblico e a capitale privato, ovvero la partecipazione del lavoro alla loro gestione. Ad amministrare le prime avrebbe provveduto un consiglio di gestione eletto da tutte le categorie di lavoratori (operai, impiegati e tecnici) e incaricato di deliberare sulle questioni collegate alla produzione, compilare il bilancio, ripartire gli utili, stipulare i contratti di lavoro e decidere sulle questioni inerenti la disciplina e la tutela del lavoro. Nelle aziende private gli organi collegiali di amministrazione sarebbero stati integrati da rappresentanti dei dipendenti in numero pari a quello dei rappresentanti eletti dagli azionisti. Nelle aziende individuali o ad amministratore unico, con almeno cinquanta dipendenti, sarebbe stato formato un consiglio di operai, impiegati e tecnici di almeno tre membri. Nella premessa erano inoltre fissate le norme riguardanti il capo dell’azienda, responsabile dal punto di vista sia politico sia giuridico, della produzione di fronte allo Stato; il consiglio di fabbrica, eletto da tutti i dipendenti e incaricato di deliberare sui regolamenti interni, la ripartizione degli utili tra il capitale, il lavoro e, in caso di eccedenza, lo Stato. Quest’ultimo avrebbe provveduto quindi, tramite l’Istituto gestione e finanziamento, a impiegarli per scopi di carattere sociale. Fra la riluttanza dell’alleato germanico, preoccupato per l’efficienza della produzione bellica, l’applicazione di questi principi si concretizzò con il decreto legislativo n. 375 del 12 febbraio 1944, integrato poi dal n. 861 del 12 ottobre 1944, che emanava le norme sulla socializzazione. La sua attuazione fu decisa con un successivo decreto il 24 giugno 1944, n. 382, che ne fissò l’inizio per il 30 dello stesso mese.
    Nelle società private, con almeno un 1.000.000 di capitale o 100 dipendenti, la legislazione prevedeva che l’assemblea degli azionisti fosse integrata da rappresentanti eletti da tutti quanti i lavoratori (operai, impiegati, tecnici) con un numero di voti pari a quello del capitale. L’assemblea avrebbe provveduto quindi alla nomina del consiglio di gestione – formato per metà da membri scelti tra i soci e per metà da membri scelti tra le maestranze – e del collegio sindacale, composto da elementi designati dai soci e dai lavoratori. Nelle aziende individuali era prevista la costituzione di un consiglio di gestione, con un minimo di tre membri eletti dalle varie categorie di lavoratori, coadiuvante l’imprenditore unico. Nelle imprese statali il consiglio di gestione, presieduto dal capo dell’azienda di nomina governativa, doveva essere formato dai rappresentanti eletti da operai, impiegati e tecnici, e da almeno un rappresentante proposto dall’istituto di gestione e finanziamento. Le funzioni dei consigli riguardavano la direzione delle imprese e l’indirizzo della produzione in base alle disposizioni del piano nazionale fissato dagli organi dello Stato, la regolamentazione sia della disciplina sia della tutela del lavoro, la redazione del bilancio e la ripartizione degli utili. I rappresentanti del personale sarebbero stati eletti con voto segreto su una lista formulata dall’Unione sindacale provinciale, con un sistema di selezione ed elezione capace non solo di garantire l’esclusione di eventuali candidati comunisti, ma anche di dare ai dipendenti la sensazione di partecipare alla gestione dell’azienda. Il decreto stabiliva la ripartizione degli utili netti, dopo l’assegnazione alla riserva, tra il capitale, in misura non superiore al massimo fissato annualmente dal Comitato dei ministri per il risparmio e il credito, il lavoro, in rapporto all’entità delle remunerazioni nette percepite annualmente e, comunque, non superiore al 30 per cento del complesso delle retribuzioni corrisposte nel corso dell’esercizio, e una cassa di compensazione da devolvere a scopi di natura sociale e produttiva. Era anche previsto lo scioglimento dei consigli di gestione da parte del ministro dell’Economia corporativa qualora questi non avessero dimostrato la capacità di dirigere la produzione e di adeguare l’attività dell’impresa alle esigenze dei piani economici e sociali del governo. Al progetto si opposero sia le autorità tedesche, sia gli industriali, sia i comitati di liberazione decisi a sabotarla e si dovette attendere il 30 giugno 1944 per fissare l’entrata in vigore del provvedimento; il ministero dell’Economia corporativa avrebbe stabilito con propri decreti i termini entro cui le diverse categorie di aziende avrebbero dovuto presentare i nuovi statuti per l’approvazione ministeriale. Le prime imprese a essere socializzate furono quelle della stampa, quindi, tra la fine del 1944 e il febbraio del 1945, quelle di rilevante importanza come l’Alfa Romeo, la Dalmine, la Fiat e la Montecatini. All’inizio di aprile del 1945, quando ormai la RSI aveva i giorni contati, il Consiglio dei Ministri decretò per il 26 dello stesso mese l’attuazione del provvedimento per tutte le industrie, ma la decisione rimase per forza di cose sulla carta. Ciononostante il progetto sulla socializzazione elaborato dal fascismo della RSI non sarebbe andato del tutto perduto, passando parzialmente in eredità ai partiti antifascisti. Preoccupato di fare salvo il principio della partecipazione operaia alla gestione delle aziende, pur abrogando la regolamentazione sociale fascista, il Comitato di liberazione nazionale per l’alta Italia fin dal 17 aprile 1945 predispose un decreto che utilizzava lo schema tecnico dei consigli di gestione creati dalla nazionalizzazione di Mussolini. Il CLNAI, abrogando la legislazione della RSI in materia di socializzazione delle imprese, dichiarò decaduti gli organi da questa creati, sancendo il principio della partecipazione agli utili e alla gestione delle aziende attraverso «nuovi e democratici» consigli di gestione; condannò gli "obiettivi antinazionali" della socializzazione con cui il fascismo aveva tentato di "aggiogare le masse lavoratrici dell’Italia occupata al servizio e alla collaborazione con l’invasore tedesco"; riconobbe "l’alta sensibilità politica e nazionale delle maestranze dell’Italia occupata che, astenendosi in massa da ogni partecipazione alle elezioni dei rappresentanti nei consigli di gestione, hanno manifestato la loro chiara comprensione del carattere antinazionale e demagogico della pretesa 'socializzazione' fascista". Intenzione del CLNAI era "assicurare, all’atto della liberazione dei territori ancora occupati dal nemico, la continuità e il potenziamento dell’attività produttiva, nello spirito di un’effettiva solidarietà nazionale". Il decreto abrogò la socializzazione affidando a nuovi consigli di gestione, con poteri identici ai precedenti, l’amministrazione delle aziende, rimandando al governo nazionale il compito di regolamentare la materia; dichiarò decaduti i membri dei consigli di gestione fascisti, fissando il termine di tre mesi dalla data della liberazione per le elezioni dei nuovi organismi, affidando la temporanea rappresentanza delle maestranze ai comitati di liberazione aziendali; attribuì le prerogative del capo dell’azienda al responsabile tecnico della produzione o al commissario di gestione per le imprese sottoposte a epurazione, ribadendo la ripartizione degli utili fra capitale e lavoro, destinando questi ultimi a un fondo unico di solidarietà nazionale per scopi di assistenza e di previdenza sociale (mense popolari, assistenza all’infanzia, orfani di guerra, eccetera). Il decreto del CLNAI, accettato non senza contrasti dagli operai, non ricevette tuttavia l’approvazione degli angloamericani. Se il più importante sindacato, la CGIL, il 23 settembre 1945 approvò un documento in cui si parlava di "diretta partecipazione delle maestranze alla gestione dell’azienda, realizzabile ad opera dei consigli di gestione", l’atteggiamento ostile degli imprenditori non permise di andare oltre le buone intenzioni e un progetto di legge Morandi-D’Aragona sui consigli di gestione non fu mai approvato, e la materia continuò a essere disciplinata attraverso accordi aziendali da cui la gestione vera e propria era esclusa. Nel novembre del 1947 fu decisa l’istituzione di una commissione speciale con il compito di elaborare la "Carta" dei consigli di gestione, ma la commissione non fu nemmeno eletta. Laddove istituiti, i consigli di gestione sopravvissero fino all’inizio degli anni Cinquanta, soltanto come semplici organismi fiancheggiatori dei sindacati. Fu questo il caso delle acciaierie ternane dove già alla fine del 1944 era stato stipulato un patto per la partecipazione diretta di operai,
    tecnici e impiegati alla gestione dell’impresa. Il 29 gennaio 1945, Di Vittorio, parlando di questo patto al congresso della CGIL, affermò che esso apriva ai lavoratori nuovi orizzonti, dal momento che affermava "il principio che il progresso produttivo non si svolge come qualcosa di estraneo ai lavoratori, non è qualcosa che interessa esclusivamente il capitalista ed è in funzione soltanto del profitto, ma è qualche cosa cui è legato l’interesse della società, l’interesse del Paese, per cui i lavoratori stessi debbono partecipare alla gestione delle aziende". Il patto di Terni diventò, per il sindacato confederale del dopoguerra, il modello da imitare e da applicare alle altre imprese italiane. Era tuttavia destinato a esaurire la propria carica innovativa per il sopraggiungere di circostanze sfavorevoli legate alla crisi della produzione, alla disoccupazione, alla ricostruzione del secondo dopoguerra.
    Nell’Assemblea costituente Tito Oro Nobili, il deputato socialista di Terni, ricordò l’esperienza dei consigli di gestione nella sua città, proponendo un emendamento al 43° articolo della Costituzione e chiedendo di inserire, laddove si parlava del diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle aziende, «per mezzo dei propri rappresentanti in un comitato paritetico con i rappresentanti dell’impresa». Poi però lo ritirò dichiarando di votare il testo della Commissione per non causare maggiore divisione in seno all’Assemblea. Tornando al fascismo repubblicano, la nascita della Confederazione generale del lavoro, della tecnica e delle arti fu progettata come la base del sistema corporativo della RSI e il suo scopo era quello di fungere da contenitore organizzativo di tutte le singole corporazioni, rifondate sulla base delle nuove regole stabilite nel Congresso di Verona. La CGLTA fu la conseguenza del ritorno del fascismo alle origini rivoluzionarie sancito dal Manifesto di Verona il cui articolo 16 affermava che il lavoratore era iscritto d’autorità nel sindacato di categoria e che i sindacati convergevano in un’unica confederazione comprendente tutti i lavoratori,
    i tecnici, i professionisti, esclusi i proprietari non dirigenti o tecnici. Il suddetto articolo costituì la linea guida della struttura sindacale sancita il 20 dicembre 1943 con il decreto legislativo n. 853 sulla costituzione della confederazione, in cui si dichiarava che il sindacato confederale assumeva la rappresentanza giuridica dei lavoratori e degli industriali sempre che partecipassero direttamente all’attività aziendale come tecnici e come effettivi dirigenti, e si negava la rappresentanza sindacale al capitale e alla proprietà in quanto tali. La mancata realizzazione della confederazione unica fu dovuta all’opposizione degli interessi burocratico-ministeriali e di quelli economico-finanziari, oltre che alla contrarietà interessata degli alleati tedeschi. Cominciò un’alternanza tra tempi di studio della normativa e rinvii nelle pubblicazioni tale da far sì che l’ultima stesura dell’ordinamento sindacale fosse pubblicata solo il 26 gennaio 1945. Con la vittoria alleata e l’ingresso dell’Italia nell’area posta sotto l’egemonia statunitense ci fu il prevalere di una politica neoliberista con cui si tornò alla situazione che il ventennio non era riuscito a modificare, alla divisione tra capitale e lavoro, tra economia ed etica. Il sindacato fu ricondotto nell’ambito dell’associazionismo libero e volontario, con funzioni di rivendicazione e contestazione nei confronti sia della classe imprenditoriale sia dello Stato. L’esigenza di una confederazione unitaria del sindacalismo italiano non si sarebbe mai concretizzata.
    Con l'accelerarsi della crisi e l'avvicinarsi della sconfitta, Mussolini volle giocare la carta delle commissioni interne abolite con il patto di Palazzo Vidoni e a questo punto entrarono in gioco anche i partiti di estrema sinistra. In principio la posizione ufficiale del PCI e del PSIUP fu quella di avversare in tutte le loro forme i sindacati fascisti e le loro organizzazioni come pure ogni attività di collaborazione con il fascismo in questo campo, facendo dimettere dalle commissioni interne legali i propri iscritti che esercitassero ancora tali funzioni. In realtà non sempre questo fu possibile, per varie ragioni che Fabei descrive magistralmente negli ultimi capitoli del suo libro.

    Quando la sintesi sposa l’antitesi: la collaborazione tra lavoratori dichiaratamente fascisti e socialcomunisti
    Socializzare le imprese e cogestirle

    L’attività dei comunisti si era poi intensificata, tenendo conto dell’esigenza di creare squadre e di operare in un momento in cui c’era l’opportunità di inserirsi nelle commissioni interne. Per quanto non vista con simpatia dagli operai, i vertici comunisti avevano chiesto la collaborazione delle altre forze antifasciste, per non essere ancora accusati di settarismo e di opporsi all’unità della classe operaia, riuscendo ad avere due riunioni con i soli socialisti e non essendo possibile, a loro dire, trovare rappresentanti degli altri partiti. I comunisti, che pure li sospettavano di voler tenere lontani da loro gli esponenti delle altre forze di opposizione, avevano dovuto accettare dai socialisti, in nome dell’unità del fronte di opposizione, non solo che nessun elemento locale era all’altezza di dirigere le organizzazioni sindacali, ma anche «che le liste delle commissioni interne fossero bloccate e a forma paritetica». Giunto il periodo dell’armistizio, la pressione dei comunisti per la costituzione del CLN si fece più insistente, come la richiesta ai socialisti di una collaborazione per creare e sovvenzionare formazioni di montagna, tanto più che erano venuti a sapere sia che una corrente socialista o sedicente tale, chiamata dal federale fascista, trattava con lui per un non chiaro accordo di collaborazione o di pacificazione, sia che i socialisti, a loro insaputa, sostenevano una formazione partigiana speciale composta da elementi eterogenei, comandata da un tenente poi rastrellato, mentre le formazioni comuniste si trovavano in difficoltà.
    Di fronte all’atteggiamento equivoco delle altre forze antifasciste, e in attesa degli sviluppi, i comunisti – pur essendo riusciti a conoscere i rappresentanti degli altri partiti e a ottenere contributi per le loro unità – avevano provveduto a creare proprie formazioni militari in base alle precise direttive del partito e approfittando del fatto che i giovani fuggivano in montagna per evitare i bandi e le rappresaglie. In attesa di creare un comitato e di farlo funzionare, i comunisti non persero tempo, cominciando a passare ai fatti, creando un gruppo di 15 uomini, tra i quali il giovane capitano Pietro Albanese. Pietro era stato durante il regime confinato ad Ischia. Dopo qualche giorno il responsabile della zona lo nominò comandante della banda prendendo il nostro compagno la parte politica. Le bande aumentavano mano a mano fino a raggiungere i 60 uomini. Con il passare delle settimane, tuttavia, l’organizzazione militare del PCI stentava a rafforzarsi dovendo far fronte agli attacchi germanici che avevano determinato lo sbandamento di due unità partigiane su quattro.
    Tuttavia la debolezza dei comunisti a Terni era determinata anche da ragioni interne, ovvero dalla scarsa affidabilità di alcuni dei loro membri. Nel frattempo cominciarono a verificarsi i primi screzi con i tedeschi in particolare sulla gestione delle aziende e sulla volontà dell'esercito tedesco di accaparrarsi il materiale delle fabbriche. Infatti, per quanto riguarda la nomina della commissione interna che avrebbe dovuto protestare con i tedeschi per il prelevamento di materiali, eccessivo rispetto a quanto inizialmente stabilito, i quindici operai componenti la cellula comunista, sia pure spinti da considerazioni opportunistiche vi si opposero per primi e non se ne fece niente. Tuttavia in seguito le forze di sinistra assunsero una diversa posizione a riguardo: ai compagni occupati negli stabilimenti e nei cantieri arrivò la direttiva di "nominare e far riconoscere dalla direzione le commissioni elette dagli operai, di cui qualche nostro compagno deve far parte", per "tentare accordi con le direzioni degli stabilimenti su un terreno antitedesco", e collegarle al "comitato di partito dell’officina".
    Pertanto, quando il 1° marzo 1944 a Terni si svolsero le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nella lista furono inclusi, con l’assenso dei sindacati fascisti, elementi di estrema sinistra.
    Negli stabilimenti siderurgici, furono eletti, tra gli impiegati, il socialista Scalzone; tra gli operai: Secci, già socialista, poi sindacalista fascista, quindi comunista, l’ex confinato socialista Bisci, l’anarchico Orientali e Luigi Campagna, futuro assessore comunista al Comune di Terni: tutti noti per il loro passato di sovversivi. Fascisti repubblicani dichiarati erano l’operaio Marini l’impiegato Garzuglia; Filippetti e Carloni provenivano dal sindacato fascista; Faliero Rocchiccioli era stato nel 1940 uno dei firmatari, con Carloni, del contratto dei metalmeccanici. L’esperimento ternano fu attuato nonostante le disposizioni impartite, il 7 marzo, dal commissario nazionale del lavoro, per impedire che fossero chiamati a rappresentare le maestranze lavoratori non iscritti. Il decreto proibiva a chiunque di assumere per qualsiasi motivo la rappresentanza di maestranze industriali, la cui tutela, è, a norma delle leggi del tempo, di esclusiva competenza delle organizzazioni sindacali legalmente riconosciute. Le commissioni interne potevano pertanto essere costituite e continuare a funzionare solo e in quanto intendevano rappresentare, e rappresentassero effettivamente, nella fabbrica l’organo diretto di collegamento con la rispettiva organizzazione sindacale, di modo che, quando esse fossero venute a contatto con gli industriali e i dirigenti di azienda, non fossero niente altro che il sindacato stesso, che agiva in loco, cioè nella fabbrica.
    Per quanto riguarda la politica sociale fascista, anche a Terni, dove la RSI governa legittimamente fino al 13 giugno 1944, vengono elette le commissioni di fabbrica, organi di cogestione della politica degli stabilimenti, che saranno presi a modello dalla CGIL nel dopoguerra per costituire i consigli di gestione. In una lettera di Longo a Togliatti del 31 marzo 1945, la politica del PCI viene chiaramente esposta: “Non siamo contro in principio alle varie istituzioni in questione (vale a dire delle mense popolari, delle cooperative aziendali e della socializzazione), ma solo perché sono fasciste”. Quindi aggiunge: “Boicotteremo con tutti i mezzi le elezioni delle commissioni interne fasciste, ma è evidente che a liberazione avvenuta procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie”. In realtà, come dimostra Fabei, il PCI, almeno a Terni, accettò che nelle commissioni della RSI venissero eletti elementi comunisti e socialisti, un fatto minimizzato (quando non ignorato) dalla storiografia ufficiale, che sorvola anche sulla politica nazionale perseguita dagli operai – fascisti e antifascisti insieme – contro le pretese dell’alleato germanico.
    Al termine del conflitto, il CLNAI avrebbe voluto salvare, defascistizzandolo, il principio della partecipazione operaia alla gestione delle aziende, ma i vincitori, ossia gli Alleati, non tollerarono nulla che avesse anche soltanto un vago sentore di socialismo; così, tra le primissime iniziative del neonato governo antifascista ci fu l’abrogazione della legge sulla socializzazione che dava evidentemente molto fastidio.
    Come documenta Fabei nel libro, a Terni il PCI non era riuscito ad organizzarsi e ad essere attivo come nelle altre città del nord; probabile quindi che, in questo caso, non potesse essere percorsa altra strada, parallelamente a quella della lotta armata, dell’inserimento di elementi comunisti, o comunque non lontani dalle posizioni comuniste, nelle liste dei candidati alle elezioni delle commissioni interne. Ciò anche in vista di un passaggio di potere. Nonostante tutto però la vulgata ufficiale sugli avvenimenti riguardanti la socializzazione e la gestione da parte delle maestranze anche socialcomuniste venne tenuta nascosta prima della fine della RSI e anche dopo quando la maggior parte degli storici hanno fatto di tutto per non tornare analiticamente sull’argomento, facendo in modo di aggirare l’evento realmente accaduto.
    Se il periodico “La turbina”, organo legato strettamente al Partito Comunista della federazione di Terni, nel numero del 28 ottobre 1945 riportò che i fascisti repubblicani ternani avevano proceduto nelle acciaierie a eleggere una commissione di fabbrica ma che la partecipazione degli operai era stata minima, il fatto non è riportato da Alessandro Portelli in Biografia di una città, storia e racconto: Terni, 1830-1985. Ne parlano, invece, gli autori de La Storia rovesciata: la guerra partigiana della brigata garibaldina Antonio Gramsci nella primavera del 1944, in particolare Marco Venanzi, che elenca i nomi degli eletti della commissione operai e impiegati, ma non ne specifica però la provenienza politica. A distanza di tanti anni dagli eventi raccontati – sottolinea a ragione l’autore – certi silenzi e omissioni da parte degli storici risultano veramente incomprensibili. Il timore è che emerga una verità scomoda per loro: quella in cui viene dimostrato che i comunisti attivi anche e soprattutto nel dopoguerra avevano collaborato con i fascisti repubblicani nella gestione e socializzazione delle fabbriche. E dopo finito il secondo conflitto mondiale e tornata la pace ai comunisti non resta altro che adeguarsi: la rivoluzione è rimandata a tempi migliori e ci si accontenta di cancellare, almeno dalla storia, se non dalla memoria, le imbarazzanti tracce del sindacalismo e della sinistra fascista.




    Articolo letto: 602 volte (15 Luglio 2013)
    Ultima modifica di Avanguardia; 19-07-13 alle 14:08
    FASCISMO MESSIANICO E DISTRUTTORE. PER UN MONDIALISMO FASCISTA.

    "NELLA MIA TOMBA NON OCCORRE SCRIVERE ALCUN NOME! SE DOVRO' MORIRE, LO FARO' NEL DESERTO, IN MEZZO ALLE BATTAGLIE." Ken il Guerriero, cap. 27. fumetto.

 

 

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