Originariamente Scritto da
Silvia
Nei primi anni Settanta, Leonardo Sciascia riprende i documenti relativi alla scomparsa di Majorana e costruisce un appassionante racconto-verità: "La scomparsa di Majorana". Le indagini di Sciascia, che si improvvisa scrittore-detective, sono guidate da un'ipotesi: che Majorana, il quale si occupava della teoria del nucleo e faceva parte di un gruppo che si era imbattuto nella scissione dell'atomo, avesse intuito le possibilità distruttive dell'atomica, fosse entrato in crisi e avesse deciso di scomparire. Sciascia preferiva, all'ipotesi del suicidio, quella secondo cui Majorana si fosse ritirato in un convento siciliano sotto falso nome. Nel saggio di Sciascia, Majorana diventa una figura simbolica dei rapporti tra scienza e storia, un anti-eroe della responsabilità dello scienziato. Ma anche un ennesimo personaggio nella galleria dei siciliani raccontati dalla letteratura, un esempio di quella nera "voluttà di scomparire" comune a certi caratteri pirandelliani e al Principe di Salina, e che qui Sciascia vede come una paradossale, estrema prospettiva critica sul male del proprio tempo.
Scrive Sciascia:
Crediamo che Majorana di questo tenesse conto, pur nell'assoluto e totale desiderio di essere "uomo solo" o di non esserci piú; che insomma nella sua scomparsa prefigurasse, avesse coscienza di prefigurare un mito: il mito del rifiuto della scienza. Il "portare" poi la scienza come parte di sé, come funzione vitale, come misura di vita, doveva essergli di angoscioso peso; e ancor piú nell'intravedere quel peso di morte che sentiva di portare oggettivarsi nella particolare ricerca e scoperta di un segreto della natura: depositarsi, crescere, diffondersi nella vita umana come polvere mortale. "In una manciata di polvere ti mostrerò lo spavento", dice il poeta. E questo spavento crediamo abbia visto Majorana in una manciata di atomi. E ancora:
Secondo gli accertamenti della polizia, la sera dello stesso giorno, alle sette, Majorana si imbarcò sul postale per Napoli; e a Napoli sbarcò l'indomani, alle 5.45. Ma noi abbiamo qualche dubbio: e non nell'ipotesi che si sia gettato in mare nel viaggio di ritorno, ma nell'ipotesi che non sia salito sul piroscafo la sera del 26, a Palermo.
Sciascia sostiene che le indagini furono molto approssimative (se non addirittura inesistenti), ma non so se basi questa affermazione su documenti e prove o se si tratti semplicemente della sua opinione. Riporto le parole dello scrittore:
"E senz'altro riconosciamo di essere anche noi ingiusti nei riguardi della polizia italiana, del modo - che ci appare svogliato e senza acutezza — in cui la polizia italiana condusse le indagini per la scomparsa di Ettore Majorana. Non le condusse affatto, anzi: lasciò che le conducessero i familiari, limitandosi a « collaborare » (e ad un certo punto, è facile immaginarlo, a fingere di collaborare). E lo siamo anche noi, ingiusti, perché anche noi, dopo trentasette anni, vogliamo « ritrovare » Majorana — e per « ritrovarlo » non abbiamo che poche carte, e pochissime nel fascicolo della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza a lui intestato.
Su questi pochissimi fogli riviviamo l'ansietà, l'impazienza, la delusione, il giudizio sulla inintelligenza e inefficienza della polizia che certamente allora, e più dolorosamente, e più drammaticamente, vissero i familiari di Ettore Majorana.
Ma ci sono anche le ragioni degli altri, le ragioni della polizia. Il caso era, per come definito burocraticamente «in oggetto», e dunque oggettivamente, quello di una « scomparsa con proposito di suicidio ». C'erano due lettere - una alla famiglia, l'altra ad un amico — che dichiaravano nettamente il proposito; e in quella all'amico anche il modo e l'ora in cui sarebbe stato attuato. Che poi il proposito non fosse stato attuato la sera del 25 marzo, alle undici, nel golfo di Napoli, alla polizia diceva soltanto - per esperienza, per statistica — che era stato attuato dopo e altrove. Impegnarsi a scoprire dove e quando, sarebbe stata una pura perdita di tempo. Non c'era da prevenire né da punire: il problema era solo quello di trovare un cadavere. Ora la soluzione di un tale problema era importante per la famiglia — e veniva pirandellianamente a consistere nella dolorosa e rassegnata (sempre più rassegnata negli anni) certezza, nei funerali, nei necrologi, negli abiti da lutto da indossare, nella tomba da elevare e visitare; non era importante per la polizia né, americanamente parlando, per la totalità dei contribuenti. E anche ad ammettere che Ettore Majorana non si fosse suicidato, che si fosse nascosto: il problema diventava quello di trovare un folle. Insomma: non valeva la pena « distrarre » uomini per cercare un cadavere che solo per caso poteva esser trovato o un folle che presto o tardi sarebbe stato notato e segnalato (ancora l'esperienza, ancora la statistica).
<…> Peraltro, nessuna polizia in quel momento, e tantomeno quella italiana, poteva essere in grado di sospettare un razionale e lucido movente nella scomparsa di Majorana; e nessuna polizia sarebbe stata in grado di far qualcosa « contro » di lui. Perché di questo si trattava: di una partita da giocare contro un uomo intelligentissimo che aveva deciso di scomparire, che aveva calcolato con esattezza matematica il modo di scomparire. <…>
Che Mussolini, informato e sollecitato da una « supplica » della madre di Ettore e da una lettera di Fermi, abbia chiesto a Bocchini (il capo della polizia - nota mia) il fascicolo dell'inchiesta e vi abbia sciabolato sulla copertina un « voglio che si trovi » così poi postillato, con grafia più dimessa, da Bocchini: « I morti si trovano, sono i vivi che possono scomparire»; che sia stato sospettato il rapimento o la fuga all'estero; che del caso si sia interessato il servizio segreto; che le ricerche siano state particolarmente alacri e persino febbrili - di tutto questo altri documenti non restano, presso la famiglia, che copie della « supplica » della signora Majorana e della lettera di Fermi".
Le parti in corsivo sono tratte da "La scomparsa di Majorana", Leonardo Sciascia - Adelphi (pag. 20 e seguenti)