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Discussione: La Stregheria italiana

  1. #1
    Ghibellino
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    Predefinito La Stregheria italiana

    La Stregoneria Italiana anche chiamata Tradizione Italiana, Stregheria o Vecchia Religione (appellativo che condivide con la Wicca), è una pratica religiosa e spirituale neo-pagana, ricostruzionista e politeista, ritenuta nativa dell'Italia; essa fa parte della cosiddetta Stregoneria Tradizionale ed ha avuto il primo moto di rinascita principalmente per influsso dell'opera dell'antropologo Charles Godfrey Leland che intervistò gente dell'appennino tosco-romagnolo di fine '800, che si dichiarava strega e seguace di questo culto (come evidenziato nei suoi libri Etruscan Roman Remains in Popular Tradition e, specialmente, Aradia, o il Vangelo delle Streghe).
    In realtà gli studi di Leland sono stati messi piuttosto in dubbio dagli antropologi successivi, ma ciò non toglie che i suoi scritti (esattamente come in altri casi, ad esempio con Margaret Murray per la Wicca), siano stati presi come "mito di fondazione" per la rinascita di un culto italiano della Stregoneria, quest'ultima intesa come una sopravvivenza in Italia dei culti pagani, dopo l'avvento del Cristianesimo. Contrariamente che altrove però non si è formato in Italia un unico culto capace di elevarsi a livello nazionale, in quanto sono emerse piuttosto varie piccole forme locali, influenzate ed alimentate da studi e ricerche successive di altri autori, le quali sono legate soprattutto al folklore popolare. La pratica perciò può variare molto da regione a regione ed include la celebrazione di feste stagionali, rituali magici e di riverenza per gli Dei, gli Antenati e gli Spiriti della propria Tradizione.[1] A detta dei suoi praticanti avrebbe varie Tradizioni molto spesso conosciute solo da coloro che ne fanno parte.[2]
    Gli Dei

    Come già accennato la Vecchia Religione è politeista, e a seconda delle Tradizioni le Divinità possono cambiare anche considerevolmente. Tuttavia è quasi onnipresente in tutte la figura di Diana, a volte come unica deità ad essere adorata mentre più spesso accompagnata da altre Divinità come Lucifero[3], Apollo, Erodiade[3], Giano, Pan[1], Diano, Mefite, Ecate, Maimone, Dioniso, Bacco e molti altri.
    Gli Spiriti
    Molti praticanti credono e spesso venerano gli Spiriti della Natura e quelli dei propri Antenati, a volte chiamati Lari o Lasa.[4] Alcune Tradizioni inoltre adorano, per influenza del sincretismo cristiano, anche i Santi cattolici.[4]


    Vita oltre la morte[modifica | modifica sorgente]

    La concezione di vita dopo la morte è molto libera, può spaziare da un aldilà non ben definito alla reincarnazione[5], normale o solo nella propria famiglia, a quella di rinascere come praticante e/o di diventare uno Spirito della Natura.[4] Una tale leggerezza nella concezione di oltretomba si può facilmente comprendere con la pratica del viaggio sciamanico in cui il praticante fa una personale esperienza del Mondo degli Spiriti.
    Pratiche

    La Vecchia Religione celebra alcuni giorni, chiamati Sabba: otto Feste del Fuoco e le Feste dell'Acqua, le Lune Piene.[5] La maggioranza dei praticanti della Vecchia Religione crede che la magia possa avere effetti sulla realtà e molti la praticano. Oltre alla venerazione degli Dei vi è spesso quella degli Antenati, degli Spiriti e a volte dei Santi. Alcuni clan praticano la loro religione senza vestiti. In antichità veniva usato un unguento composto da piante stupefacenti, derivante dallo sciamanesimo, che consentiva un vero e proprio viaggio con lo spirito. Per evitare danni cerebrali dovuti all'assunzione di tali droghe alcuni praticanti usano al posto dell'unguento la meditazione o altre pratiche che permettano lo stato di trance.[6] Inoltre vengono eseguiti esercizi sui sogni, viaggi astrali e divinazioni e/o pratiche oracolari.[7]
    Tradizioni

    La Vecchia Religione, come già spiegato, ha diverse tradizioni, ma la più conosciuta è quella descritta in Aradia, o il Vangelo delle Streghe, dove il Culto delle Streghe si concentra sulla figura della Dea Diana e del suo figlio, fratello e consorte Lucifero, descritto come Divinità Solare. Il testo ci racconta che Diana, vedendo gli uomini poveri continuamente oppressi dai ricchi e dal clero cattolico, inviò la sua Figlia Divina Aradia (Erodiade) sulla Terra, per liberare la gente dalla schiavitù e far rifiorire la Vecchia Religione. Nel libro esso si presenta come un culto lunare, concentrato sulla Celebrazione delle Lune Piene, dove vengono fatte preghiere, canti, danze e banchetti con del pane e del vino a Diana.
    Con l'avvento della traduzione in italiano di Aradia o il vangelo delle streghe, la spinta alla ricerca delle tradizioni stregonesche italiane si è fatta via via sempre più forte. Sono stati fatti alcuni studi riguardo ad esse, da autori come "Andrea Romanazzi", "Luigi Boccia", "Antonio Daniele", "Donato Bosca" e molti altri. Oltre a studi, sono stati pubblicati altri titoli, dedicati questa volta ai praticanti, come la trilogia de La Vecchia Religione di "Dragon Rouge", e sempre dello stesso autore anche i libri L'Antica Stregoneria Italiana e Striaria, Grimorio di stregoneria rituale , inoltre famosi sono anche Il Sabba italiano di "Sheanan" e "ArdathLili" e Fronde dell'antico noce di "Ottavio Spinelli" e "Laura Vatta".
    La storia della Vecchia Religione

    Il primo rogo per stregoneria risale al 1340 e le due bolle papali che sono considerate l’avvio della caccia alle streghe sono del 1326 e del 1484, mentre è dal XIII secolo che la Chiesa, parlando di streghe e di raduni diabolici, li considera eventi reali. Precedentemente essa riteneva la stregoneria un'illusione e una superstizione, come ci conferma il Canon Episcopi, affermando che "certe donne depravate, le quali si sono volte a Satana e si sono lasciate sviare da illusioni e seduzioni diaboliche, credono e affermano di cavalcare la notte certune bestie al seguito di Diana, dea dei pagani (o di Erodiade), e di una innumerevole moltitudine di donne; di attraversare larghi spazi di terre grazie al silenzio della notte profonda e di ubbidire ai suoi ordini come a loro signora e di essere chiamate certe notti al suo servizio".
    Altra fonte della stregoneria del tempo ci viene da Ugo da San Vittore, abate italiano del XII secolo, che parla di donne che credono di uscire di notte, cavalcando animali, con Erodiade, che assimila a Minerva.
    Uno dei processi più famosi in cui è riportata la presenza di Divinità femminili nella stregoneria italiana è sicuramente quello di Milano nel 1390 contro Sibilla e Pierina, che affermarono di aver partecipato al “Gioco di Erodiade”. Secondo Ginzburg, storico e saggista italiano, “Erodiade” sarebbe la cristianizzazione di "Herodiana", a sua volta proveniente dalle due dee “Hera” e “Diana”.
    Grazie soprattutto al Malleus Maleficarum le figure prevalenti della stregoneria italiana ed europea divennero il diavolo e i suoi demoni, finché nella fine del XIX secolo, l'antropologo Charles Leland, facendo ricerche nel territorio tra la Toscana e la Romagna, pubblicò Sopravvivenze etrusco-romane nelle tradizioni popolari e Aradia, o il Vangelo delle Streghe, un testo magico-religioso in cui si tornava a parlare dopo secoli della correlazione tra il culto di Diana e di Erodiade (nel testo denominata Aradia) e la stregoneria. Il testo di Leland fu d'ispirazione alla nascita della Wicca, che a sua volta risvegliò l'interesse nella Stregoneria Italiana e nel suo ricostruzionismo.

    Stregoneria Italiana - Wikipedia
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

  2. #2
    Ghibellino
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    Predefinito Re: La Stregheria italiana

    Come Diana generò Aradia

    Questo e' il vangelo delle Streghe: Diana amava profondamente suo fratello Lucifero, Dio del Sole e della Luna, Dio della Luce (splendor), cosi' fiero e orgoglioso della propria bellezza che per questo fu cacciato dal Paradiso.
    Diana ebbe da suo fratello una figlia, a cui diedero il nome di Aradia (1).
    A quei tempi, c'erano molti ricchi e molti poveri sulla terra. I ricchi rendevano schiavi i piu' poveri.
    Allora c'erano molti schiavi che venivano trattati crudelmente: in ogni palazzo c'erano torture, in ogni castello c'erano prigionieri. Molti schiavi fuggivano. Si davano alla macchia nelle campagne: percio' divennero ladri e malfattori.
    Invece di dormire, di notte tramavano la fuga, rubavano ai loro padroni e poi li assassinavano.
    Cosi' abitavano sulle montagne o nelle foreste come rapinatori e assassini: e cio' per evitare la schiavitu'.

    Diana disse Un giorno a sua figlia Aradia:
    E' vero che tu sei uno spirito,
    ma tu sei nata per essere ancora
    mortale, e tu devi andare
    sulla Terra e fare da maestra
    a donne e uomini che avranno
    Volonta' di imparare la tua scuola
    che sara' composta di stregonerie.
    Non devi essere come figlia di Caino
    E della razza di quelli che son divenuti,
    scellerati e infami a causa dei maltrattamenti,
    come Giudei e Zingari,
    tutti ladri e briganti,
    tu non diventi...
    Tu sarai (sempre) la prima strega,
    la prima strega venuta al mondo.
    Tu insegnerai l'arte di avvelenare
    di avvelenare (tutti) i signori,
    di farli morti nei loro palazzi.
    Di legare lo spirito dell'oppressore;
    E dove si trova un contadino ricco e avaro
    insegnerai alle streghe tue alunne
    come rovinare il suo raccolto
    con tempesta, folgore e baleno,
    con grandine e vento.
    Quando un prete ti fara' del male
    del male colle sue benedizioni,
    tu gli farai (sempre) un doppio male
    col mio nome, il nome di Diana
    Regina delle streghe...
    Quando i nobili e i preti vi diranno:
    "Dovete credere nel Padre,
    nel Figlio e in Maria"
    rispondetegli sempre:
    "Il vostro Dio Padre, suo Figlio e Maria
    sono tre diavoli...
    Il vero Dio Padre non e' il vostro Dio
    io sono venuta
    per distruggere la gente cattiva
    e la distruggero'...
    <<Voi altri poveri soffrite anche la fame,
    e lavorate male e molto
    soffrite anche la prigione;
    ma pero' avete un'anima
    un'anima piu' buona
    e nell'altro mondo voi starete bene;
    e gli altri male >>
    Ora, quando Aradia ebbe imparato a compiere ogni sorta di stregoneria e a distruggere la razza infame degli oppressori, insegno' ai suoi discepoli quest'Arte e disse loro:

    Quando io saro' partita da questo mondo,
    qualunque cosa avrete bisogno,
    una volta al mese, quando la luna
    e' piena,
    Dovete venire in luogo deserto,
    in una selva tutte insieme,
    e adorate lo spirito potente della vostra regina
    di mia madre Diana, e chi vorra' imparare la stregoneria,
    Che ancora non conosce
    mia madre le insegnera' tutte le cose sconosciute.
    Sarete liberi dalla schiavitu'!
    E cosi' diverrete tutti liberi!
    E come segno della vostra vera liberta'
    uomini e donne nei vostri riti
    sarete tutti nudi.
    fino a che non sara' morto l'ultimo degli oppressori.
    Farete il giuoco del moccolo di Benevento,
    e farete poi una cena cosi'.

    (1) Nota dal testo:
    Secondo Leland, il nome Aradia deriva da Erodiade o Herodiad, non in riferimento alla figura del Nuovo Testamento, ma ad una versione precedente di Lilith recante lo stesso nome, nata dalla fusione delle <<regine del cielo ariane e semitiche>>.



    Luce di Strega - Aradia - il Vangelo delle Streghe
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

  3. #3
    Ghibellino
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    Predefinito Re: La Stregheria italiana

    Come Diana creò le stelle e la pioggia

    Diana fu creata prima di tutta la creazione. In lei c'erano tutte le cose. Fuori di lei, la prima oscurita', si divise. Fu separata in luce e oscurita'. Lucifero, suo fratello e figlio, se stessa e la sua altra meta', fu la luce.
    Quando Diana vide che la luce era cosi' bella, la stessa luce che era la sua altra meta', suo fratello Lucifero, la bramo' con ardente desiderio. E volendo ricevere ancora la luce nella sua oscurita', la inghiotti' in estasi, con passione e tremo' di volutta'. Questo desiderio divenne l'Alba.

    Ma Lucifero, la luce, scappo' da lei e non volle cedere alle sue brame: egli era la luce che volava fino ai punti piu' lontani del cielo, il topo che fugge d'inanzi al gatto.

    Allora Diana ando' dai Padri del Principio, dalle Madri e dagli spiriti che esistevano prima dei primi spiriti, e si lamento' con loro che non poteva vincere Lucifero. Essi l'apprezzarono per il suo coraggio e le dissero che per risorgere, avrebbe dovuto prima cadere; per porsi a capo delle Dee doveva diventare mortale.

    E nelle ere passate, nel tempo dei tempi, quando fu creato il mondo, Diana venne sulla Terra, e come pure fece Lucifero, che era caduto, e Diana insegno' la magia e la stregoneria da cui derivarono le streghe, le fate e i folletti, che sono come gli uomini, ma non sono mortali.

    Accadde che Diana assunse sembianze di un gatto. Suo fratello aveva un gatto che prediligeva fra tutte le altre creature, e che dormiva ogni notte sul suo letto. Un gatto piu' bello di ogni altra creatura; era una fata ma lui non lo sapeva.

    Diana convinse il gatto a scambiarsi con lei; cosicche' ella giacque con suo fratello, e nell'oscurita' assunse nuovamente il suo aspetto e cosi' per mezzo di Lucifero divento' madre di Aradia.
    Ma quando al mattino scopri' di essersi congiunto con sua sorella e che la luce era stata conquistata dall'oscurita', Lucifero divenne una furia. Ma Diana gli canto' un incantesimo, una potente canzone - ed egli rimase in silenzio - la canzone della notte che placa e che fa dormire; cosi' egli non pote'dire nulla.
    Diana con le sue arti magiche lo incanto', finche' egli cedette al suo amore.
    Questo fu il primo incantesimo. Canto' sottovoce la canzone; ed era come il ronzio delle api (o come un arcolaio che filava la vita). Diana filava la vita di tutti gli uomini. Tutte le cose erano filate dall'arcolaio di Diana. Lucifero lo faceva girare.

    Diana non era conosciuta alle streghe, agli spiriti, alle fate e agli elfi che abitano in posti deserti, ai folletti, come loro madre. Si nascose in umilta', e divenne mortale; ma per suo volere si innalzo' nuovamente su tutti. Aveva una tale passione per la stregoneria, e divenne cosi' potente, che la sua grandezza non poteva piu' restare nascosta.

    Una notte si incontro' con tutte le streghe e le fate, e disse loro di poter oscurare i cieli e cambiare le stelle in topi.
    Tutti coloro che erano presenti dissero: <<Se tu puoi fare una simile stranezza, se sei realmente assurta a tale potere, sarai la nostra regina.>>

    Diana ando' allora nella strada, prese la vescica di un bue e un "soldo di strega" che ha l'orlo tagliente come un coltello - con tali soldi le streghe tagliano nella terra le orme degli uomini - e taglio' la terra; con questa e con molti topi riempi' la vescica. Poi vi soffio' dentro finche' non scoppio'.
    Allora avvenne un grande prodigio, perche' la terra che era nella vescica si trasformo' in cielo, e per tre giorni piovve a dirotto: i topi divennero stelle o pioggia.

    Dopo aver fatto il cielo, le stelle e la pioggia, Diana divento' Regina delle Streghe, fu il gatto che governava le stelle-topi, i cieli e la pioggia.



    Luce di Strega - Aradia - il Vangelo delle Streghe
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  4. #4
    Ghibellino
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    Predefinito Re: La Stregheria italiana

    Diana e i bambini

    Tanto tempo fa, c'era a Firenze una famiglia nobile, diventata cosi' povera che per loro i giorni di festa erano pochi e rari. Tuttavia vivevano nel loro vecchio palazzo (che era nella strada detta la Via Cittadella), assai bello, mostrando alla gente un apparente benessere, mentre in realta' molti giorni non avevano addirittura di che sfamarsi.
    Attorno al palazzo c'era un grande giardino, con un'antica statua di marmo raffigurante Diana in corsa, con a fianco un cane, Aveva un arco in mano e sulla fronte una piccola Luna.
    Si diceva che di notte, quando tutto e' immoto, la statua prendesse vita e volasse via facendo ritorno al calar della Luna, con il sorgere del Sole.
    Questa famiglia aveva due bambini, buoni e intelligenti. Un giorno tornarono a casa con molti fiori e la bambina disse al fratello:
    "la bella signora con l'arco deve averne un po'!"
    Detto cio', misero dei fiori davanti alla statua e fecero una ghirlanda che il bimbo le pose sulla testa.
    Proprio allora il grande poeta e mago Virgilio, che tutto sapeva su Dei e fate, entro' nel giardino e disse:
    "Avete fatto l'offerta dei fiori alla Dea nel modo corretto, come facevano nei tempi antichi; cio' che rimane da fare e' pronunciare la preghiera nel modo giusto".

    Invocazione a Diana
    Bella Dea dell'arco!
    Bella Dea delle freccie!
    Della caccia e dei cani!
    Tu vegli colle stelle
    quando il Sole va a dormir,
    tu colla luna in fronte
    cacci di notte meglio del di'.
    Colle tue ninfe al suono
    di trombe -Sei la la regina
    dei cacciatori - regina della notte.
    Tu che sei la cacciatrice
    più potente di ogni
    cacciator - ti prego
    pensa un poco a noi!

    Quindi Virgilio insegno' loro anche la scongiurazione da pronunciare quando si vuole fortuna o il possesso di qualche cosa.

    Scongiurazione a Diana
    Bella Dea dell'arco nel cielo!
    Delle stelle e della luna!
    La regina piu' potente
    Dei cacciatori e della notte
    A te ricorriamo,
    E chiediamo il tuo aiuto
    Che tu possa darci
    Sempre la buona fortuna!
    Quindi aggiunse la conclusione
    Se la nostra scongiurazione
    Ascolterai,
    E buona fortuna ci darai,
    Un segnale a noi manderai!

    Dopo aver insegnato tutto cio', Virgilio se ne ando'.
    Allora i ragazzi corsero a raccontare ai genitori cio' che era accaduto e questi ingiunsero loro di mantenere il segreto, di non proferire parola a nessuno. Ma quale fu il loro sbalordimento la mattina successiva, quando trovarono davanti alla statua un cervo appena ammazzato che forni' loro un bel pasto per molti giorni! Da allora non vollero piu' giocare se prima non era stata devotamente recitata la preghiera.
    C'era un vicino, un prete, che odiava le manifestazioni e l'adorazione degli antichi Dei, e tutto cio' che non apparteneva alla sua religione. Un giorno, passando per il giardino, vide la statua di Diana incoronata di rose e fiori. Arrabbiato, vedendo nella strada un cavolo putrido, lo rotolo' nel fango e lo getto' tutto grondante in faccia alla Dea, dicendo:

    "Ecco mala bestia d'idolo!
    Questo Ë l'omaggio che io ti do,
    giacche' il diavolo ti aiuta!"

    Allora il prete senti' una voce dal profondo del fogliame che diceva:
    "Bene bene! Io t'avverto
    Tu mi hai fatto la tua offerta.
    Percio'ti portero'
    la tua porzione
    della mia caccia. Aspetta
    solo domattina e avrai la tua parte."
    Tutta la notte il prete ebbe sogni orribili e spaventosi. infine, poco prima delle tre, riusci' ad addormentarsi, ma si sveglio' di soprassalto da un incubo in cui qualcosa di pesante gravava sul suo petto.
    E qualche cosa che stava su di lui, cadde e rotolo' sul pavimento.
    Si alzo' per raccoglierla e alla luce della luna vide che si trattava di una testa umana mezzo putrefatta.
    Un altro prete che aveva sentito gli urli di terrore, entro' e guardando la testa disse: "Conosco quel viso! E' quello di un uomo che ho confessato e che' e' stato decapitato tre mesi fa a Siena!""

    Dopo tre giorni il prete che aveva offeso la Dea mori'.
    .....................
    Questa storia non e' parte integrante del Vangelo delle Streghe, ma uno dei molteplici aneddoti su Virgilio mago. Comunque ha un senso in questo libro, dato che contiene l'invocazione e la scongiurazione a Diana, molto belle e originali.


    Luce di Strega - Aradia - il Vangelo delle Streghe
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  5. #5
    Ghibellino
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    Predefinito Re: La Stregheria italiana

    Differenze tra la Wicca e la Vecchia Religione
    Quanto segue ha il puro e semplice scopo di voler illustrare alcune delle principali differenze tra la Vecchia Religione, di cui ho narrato nell’omonima trilogia, e la Wicca anglosassone che si è diffusa in Italia attraverso una letteratura dedicata, principalmente proveniente dagli Stati Uniti.
    Gli autori wiccan che ho preso in considerazione per fare questa coincisa analisi sono: Gerald Gardner (Wicca Gardneriana), Raymond Buckland (Seax Wicca), Phyllis Curott (Tempio di Ara), Starhawk (Reclaiming), Ed Fitch (Wicca Gardneriana) Scott Cunnigham, Silver RavenWolf.
    1) Gli Antichi Dei della Vecchia Religione sono Entità spirituali reali, non qualcos’altro. Ciò è verificabile sperimentando attivamente il Culto.
    2) La Vecchia Religione non ha subito influenza alcuna dalla Golden Dawn, dall’Ordo Templi Orientis, dalla Teosofia, dalla Massoneria e dalle spiritualità e filosofie orientali.
    3) La “Legge del Tre” non è contemplata nell’ambito della Vecchia Religione.
    4) La “Legge del Rede”, o regola d’oro, non è contemplata nell’ambito della Vecchia Religione che professa il libero arbitrio.
    5) La Vecchia Religione si caratterizza come pratica individuale e solitaria, la pratica di gruppo non è ritenuta così importante come invece avviene nella Wicca. Coloro che vogliono organizzarsi possono farlo liberamente, semplicemente riadattando i rituali.
    6) Nella Wicca viene data molta enfasi agli Elementi, nella Vecchia Religione invece viene data enfasi allo Spirito (che domina gli Elementi). Di conseguenza nella Vecchia Religione non si lavora con gli Elementi, non si chiamano i Guardiani dei 4 punti cardinali, che nella Vecchia Religione non esistono.
    7) Nella Vecchia Religione non ci sono le 4 torri o quarti o angoli o quadranti, nella Vecchia Religione c'è l'ovunque che va oltre le 4 direzioni. L’ovunque va oltre le 6 coordinate riscontrabili talvolta nello sciamanesimo (4 direzioni + Terra + Cielo). Gli Spiriti sono ovunque, non in qualche posto particolare piuttosto che un altro.
    8) Nella Wicca spesso viene data molta enfasi alla Magia, nella Vecchia Religione invece viene messo in primo piano il Culto e il suo percorso iniziatico volto allo sviluppo del potenziale spirituale e umano della persona, in ottemperanza alla massima: "solo i forti (di spirito) sopravviveranno". L’accesso all’Arte è un passo successivo, dunque secondario. Se vuoi edificare una casa non puoi pretendere di voler partire dal tetto, devi prima di tutto costruire delle solide fondamenta.
    9) Nella Vecchia Religione tutto ruota intorno alla medianità e alle capacità medianiche che la persona deve sviluppare per poter accedere al mondo degli spiriti o aldilà.
    10) Nella Vecchia Religione si pratica l'evocazione, nella Wicca non mi risulta, ma si parla spesso invece di invocazione, nonostante solo raramente si tratti (tecnicamente) di vere e proprie invocazioni.
    11) Nella Vecchia Religione viene contemplato prevalentemente un pantheon di Divinità originarie della nostra terra, legato alle tradizioni etrusche e romano-elleniche.
    12) La Vecchia Religione non utilizza pratiche di magia cerimoniale, non essendo stata minimamente influenzata dagli ordini esoterici citati nel punto numero 2.
    13) La Vecchia Religione non ha un rituale specifico per celebrare il plenilunio, la Wicca spesso invece si. Nella Vecchia Religione un plenilunio è un plenilunio, non vi è alcuna distinzione come può essere in alcune correnti (non in tutte) della Wicca in cui si parla di luna del lupo, luna della lepre, luna della neve, ecc.
    14) Le 8 Feste del Fuoco della Vecchia Religione e della Wicca coincidono ma solo come date. La Vecchia Religione non contempla la mitologia osservata dalla Wicca (la Dea partorisce un figlio al solstizio d’inverno, ecc, ecc). Inoltre i modi di celebrare ognuna di queste Feste non si assomigliano per niente, sono veramente molto diversi tra loro.
    15) La Vecchia Religione contempla la RE-incarnazione NON come un premio o un destino certo per tutti indistintamente e indiscriminatamente, MA come una possibilità che può essere data ad alcuni trapassati in funzione di determinati scopi. Il karma, l'evoluzione spirituale tramite cicliche reincarnazioni e tutti questi concetti e credenze che si sono sviluppati nell'ambito delle religioni orientali non li condividiamo e non fanno nemmeno parte della nostra cultura e del nostro trascorso storico.
    Annotazioni
    Oltre a questo approfondimento, puoi trovare un intero capitolo dedicato alla Wicca nel testo La Vecchia Religione.

    Differenze tra la Wicca e la Vecchia Religione
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

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    Predefinito Re: La Stregheria italiana

    Il risveglio della Vecchia Religione
    L'inizio di un lento e graduale risveglio della Vecchia Religione europea cominciò a manifestarsi verso la fine del 1800, grazie ai contributi letterari forniti dalle opere di Charles Godfrey Leland, in particolare da Aradia or the gospel of the witches, pubblicato a Londra nel 1899, testo che indubbiamente segnò l’inizio di un nuovo avvento che trovò il suo compimento solo poche decine d’anni dopo, quando, nei primi decenni del 1900, l’antropologa Margaret A. Murray riuscì a ricostruire parzialmente la storia della Vecchia Religione in Europa.
    Strappata così dall’oblio e dalla dimenticanza in cui la Vecchia Religione era stata relegata negli ultimi secoli, il suo definitivo risveglio non tardò a manifestarsi.

    Il risveglio della Vecchia Religione Anglosassone

    Nel 1939 infatti l’inglese Gerald Brosseau Gardner fu iniziato alla Vecchia Religione Anglosassone che successivamente, all’incirca verso la metà degli anni cinquanta, restaurò completamente, incorporando in essa numerosi elementi provenienti dal milieu esoterico dell’epoca, ma anche dal Neodruidismo e dalla Vecchia Religione Italiana, ripresi dalle opere di Charles Godfrey Leland.
    Era nata la Wicca (in origine si chiamava così) il nuovo volto della Vecchia Religione Anglosassone.

    Il risveglio della Vecchia Religione Italiana

    La Vecchia Religione è presente in Italia da tempo memorabile, tuttavia prima del 2004 essa sostanzialmente è rimasta circoscritta solo nell’ambito di poche decine di persone che non hanno mai amato rendere nota la loro presenza e che pertanto sono sempre rimaste radicate nell’ombra.
    È corretto dunque affermare che nell’ambito della Neostregoneria e della Wicca Italiana, prima del 2004, la Vecchia Religione altro non era che una “parola”, [senza fonte]ma nulla di più, mancando la possibilità, per coloro che non facevano parte di questi circoli sotterranei, di attingere ogni altra possibile informazione a riguardo.
    La Vecchia Religione Italiana oggi è presente probabilmente in tutte le regioni italiane, in particolar modo in Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Puglia e Sicilia, che contano la presenza di un numero significativo di persone ad essa dedite.[senza fonte]
    L’odierna Vecchia Religione Italiana descritta da Dragon Rouge non è una continuazione di quella del passato, ma una sua moderna reinterpretazione, completamente restaurata, per essere correttamente riadattata alla nostra epoca e ricollocata nella giusta dimensione spazio temporale,[senza fonte] all’interno della nostra società. Essa pertanto rappresenta il suo nuovo volto.


    Il Risveglio della Vecchia Religione...
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  7. #7
    Ghibellino
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    Predefinito Re: La Stregheria italiana

    Sciamanesimo Italiano: Donne che danzano alla Luna
    L’aria tersa a volte pungente di odori speziati, accompagna le sere in cui Miti e Magia si fanno spazio nelle case e nelle credenze.
    La tecnica e la civiltà hanno apportato benefici anche nel paese in cui io sono cresciuta Trebisacce (cs), ma sopravvivono, per fortuna, sebbene in forma ridotta, peccato, le pratiche magiche nei racconti dei Nonnni e nelle favole antiche.
    Vedete gli antichi credevano davvero in Dio in colui che disse: << chiedete ed otterrete, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto!>>
    Conoscevano la fede sapevano davvero in cuor proprio che le parole delle preghiere edegli incanti avrebbero dato il risultato richiesto...
    Il loro cuore era puro e il dubbio stava lontano!
    Certe credenze oggi tornano alla ribalta con le nuove teorie dell'autostima e del pensiero positivo, senza contare la Pnl e tutto il resto!
    Sotto forma moderna, spogliate dall'alone magico e misterico delle favole e delle pratiche magiche, oggi a fior fiori di centinaia di euro ci vendono gli antichi insegnamenti che gli anziani conoscono da sempre...le vendono come fossero loro invenzioni...nuove e moderne...mentre dietro vige coscienza infinita di secoli e secoli.
    Nel sud Italia queste millenarie tradizioni e credenze non si sradicano facilmente, perché favorite da precarie forme di assistenza sociale, dalla presenza di una economia agricola antiquata, da una prospettiva incerta del futuro, da una mentalità ancorata a vecchi sistemi.

    L’unica libertà che aveva il contadino o il pescatore consisteva nel desiderio inconscio di liberarsi dalla schiavitù, evadere da una realtà opprimente, senza la prospettiva di un avvenire migliore. Soltanto la magia gli avrebbe consentito di sanare le ataviche piaghe della miseria, di proteggersi dall’ignoto, dalle avverse forze astrali e terrestri, dalla paura. Per difendersi dalla potenza del negativo nella vita quotidiana, ha creato e tramandato formule e pratiche magiche: scongiuri per allontanare la grandine, la siccità, la tempesta; filtri per conquistare il cuore della persona amata; talismani contro il malocchio o l’invidia; malefici per soggiogare, con l’aiuto di potenze elementali evocate, la volontà altrui; far contrarre malattie; abbreviare la vita.

    Secondo la credenza contadina, l’universo era governato da forze arcane che non potevano essere spiegate con la ragione o con la scienza. Tutto era dominato da elementi contrapposti che si attraevano e si respingevano: Dio e il diavolo, il bene e il male, la vita e la morte, la vigoria fisica e la malattia. Soltanto il mago, mediante fluidi magnetici e poteri extrasensoriali, pratiche e formule misteriose, poteva debellare le forze ostili della natura; e l’uomo ricorreva a lui per ricevere un antidoto contro le sciagure, le paure dell’ignoto, le frustrazioni della vita.
    La guaritrice era al contempo medico e levatrice, custode e mediatrice, tutti le si rivolgevano per consigli guida e anche per ricevere semplici tisane calmanti e per riposizionare una slogatura.
    La magia popolare, arcaica e ricca di tradizione oggi è viva ancora in me nei miei allievi e in un ristretto numero di persone che fanno parte del grande popolo della luce!


    Sciamanesimo Italiano: Donne che danzano alla Luna
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  8. #8
    Ghibellino
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    Predefinito Re: La Stregheria italiana

    I popoli dell'Italia antica avevano rituali magici abbastanza semplici, fatti per il benessere del popolo, per ottenere buoni raccolti, far vivere a lungo in pace e prosperità i regnanti ed i loro sudditi. Come per i Greci la Tessaglia era terra di streghe, così era noto che l'Etruria era la terra degli indovini e la Marsica degli stregoni.

    Anche i Romani ebbero per secoli soprattutto una magia per lo stato, prima che arrivassero in contatto con la stregoneria orientale. Il termine latino magus derivava dalla parola greca e si trova, per la prima volta, attorno al I secolo avanti Cristo. Nel periodo antecedente sembra che la magia e la stregoneria come la intendiamo noi fossero ignote, ma si sa con certezza dell'uso di rituali malefici, perché ne parlava la cosiddetta "Legge dei Decemviri delle Dodici Tavole" fatta per separare il diritto civile da quello religioso. Di questa legge non abbiamo il testo completo, ma conosciamo ampi stralci da citazioni fatte da vari autori. Seneca, Plinio il Vecchio e Servio parlano delle pene per coloro che dicevano il "malum carmen" contro i raccolti, cioè incantesimi atti a distruggere il raccolto del vicino a favore del proprio. La legge non puniva la magia di per se stessa, ma il suo uso per ledere i diritti altrui.
    In particolare Plinio, che nel XXX libro della sua Storia Naturale mise una breve storia della magia, raccontò la disavventura di un certo G. Furio Crisimo, un liberto (cioè uno schiavo liberato) portato in giudizio dai vicini, perché di anno in anno i suoi raccolti si facevano sempre più abbondanti, mentre i loro diventavano sempre più miseri. I vicini, pensando che c'entrasse qualche formula magica, lo denunciarono. Al processo l'uomo si difese, spiegando che i suoi abbondanti raccolti erano dovuti a "tante notti di lavoro, veglie e sudori", non alla magia. Per sua fortuna gli credettero e fu assolto. Quindi, anche in questo caso, la legge si occupava di magie in qualche modo "pubbliche", che riguardavano i raccolti, non le persone.
    Solo nell'81 a. C. fu promulgata una legge specifica contro la magia: la "Lex Cornelia de sicariis et veneficiis", che prese il nome da Lucio Cornelio Silla. Si cercava così di porre rimedio ad una situazione molto problematica: le pratiche di bassa magia, portate a Roma dai popoli conquistati, avevano avuto un successo spropositato. Aveva destato un enorme scandalo un caso, appena avvenuto, di un gruppo di insospettabili matrone, alcune delle quali erano da poco rimaste vedove, scoperte a bollire alcuni misteriosi liquidi; essendosi rifiutate di rivelarne la natura e l'uso che stavano per farne, furono costrette a berli: morirono tutte avvelenate. La legge proibì le pratiche magiche in genere, l'avvelenamento, l'aborto e l'assassinio per stregoneria, condannando i colpevoli alla crocifissione o a finire nell'anfiteatro con i leoni a divertimento del popolino.

    Da allora abbiamo numerose testimonianze letterarie su riti magici; infatti quasi tutti gli scrittori parlano di magia o di stregoneria, alcuni dimostrando di conoscere fin troppo bene l'argomento. Cicerone definisce i maghi come "preti persiani", senza connetterli a pratiche occulte; ma cita anche non ben identificati "notturni riti di donne", lasciando intendere che non si tratta affatto di cose lecite, come quelle che i sacerdoti compiono davanti a tutti, alla luce del sole, secondo il decreto del popolo. Catullo spiega che le doti magiche innate derivano dal tipo di nascita: un incesto tra madre e figlio, teoria sostenuta anche da Euripide, Strabone e Diogene Laerzio. E' Virgilio, nella VIII delle Bucoliche, il primo a collegare la parola "mago" ad un vero e proprio rito di magia simpatica, in cui la donna innamorata ed abbandonata cerca di riportare a sé l'amante con tre bende strette da tre nodi. Tibullo e Properzio parlano di magia nera; Seneca, nella sua Medea, ci presenta la maga mentre "sminuzza le erbe micidiali, spreme la bava velenosa dei serpenti, vi mescola uccelli sinistri, il cuore di un tetro gufo, le viscere di stridula strige sventrata viva". Manipolando questi ingredienti, borbotta incantesimi che fanno tremare il mondo.

    Anche Ovidio, nei Fasti, parla delle striges, donne-uccello originarie della Marsica, che dissanguano i bambini, dopo averli aggrediti nelle culle. La sua Dipsade, una vecchiaccia maligna, orrida e imbrogliona, che evoca spiriti ed ama tramutarsi in corvo, è la figura più "stregonesca" tra quelle viste fino ad ora. Il più informato sulla magia nera è però Orazio, cui spetta il dubbio merito di aver creato, con Canidia, lo stereotipo letterario della strega che in seguito sarebbe diventata la preda preferita dell'Inquisizione: una vecchia brutta, malvagia, sessualmente assatanata, manipolatrice di veleni e di sostanze disgustose, assassina e perversa. Nella VIII delle sue Satire narra di un rituale fatto da due streghe, Canidia e Sagana, con due pupazzi, uno di lana e uno di cera. Per richiamare gli spiriti infernali, le due donne sbranano a morsi un'agnella bruna, versandone il sangue in una fossa. Il rituale si svolge sull'Esquilino, appena fatto ripulire e sistemare a giardino da Mecenate; il luogo è stato scelto in quanto ex-cimitero plebeo. Canidia e Sagana evocano Ecate e Tesifone, facendo comparire serpenti e cagne infernali, uno spettacolo tanto spaventoso che perfino la luna cerca di nascondersi dietro i grandi sepolcri per evitare di assistere a tali orrori.

    Canidia, in una precedente opera di Orazio, gli Epodi, veniva accusata di aver mescolato erbe magiche a sangue di vipera per offrire il cibo nefasto al poeta; raffigurata con un aspetto disgustoso, con le chiome attorte da viperette, con la sua amica Sagana ed altre streghe si appresta ad uccidere per fame un bambino, allo scopo di procurarsi parti del suo cadavere per farne potenti filtri d'amore. Apuleio, nelle Metamorfosi, descrive il laboratorio della strega Panfila, lugubre soffitta aperta ai quattro venti, dove fanno bella mostra di sé pezzi di corpi sottratti alla sepoltura, fiale contenenti il sangue di giustiziati, placche metalliche sulle quali sono incisi alfabeti sconosciuti, incensi, erbe, profumi ed unguenti che la trasformano in animale. Lucio, il protagonista, prova un unguento; ma invece di trasformarsi in un uccello e provare l'ebbrezza del volo, diventa un asino ed è costretto a subire mille traversie prima di essere liberato e diventare un iniziato al culto di Iside.

    Gli imperatori che si successero sul trono dell'Impero Romano passarono dall'amore sviscerato per la magia ad un cauto interesse, dall'aperta derisione allo scetticismo, fino ad un atteggiamento estremamente intollerante. Ma i veri problemi, per i maghi e gli stregoni, cominciarono quando il Cristianesimo fu imposto come unica religione ufficiale da Teodosio; insieme ai culti pagani, ai sacrifici agli dei, all'ingresso nei templi, furono proibite anche la divinazione, la necromanzia e la magia.

    Diffuso in tutto l'Impero a norma di legge, il Cristianesimo dovette fare i conti con le divinità, i riti e le usanze locali, in particolare nelle aree rurali, dove credenze popolari e tradizioni magiche esistevano da secoli. Nessuna legge, per quanto severa e restrittiva, può abolire di colpo tradizioni consolidate, per cui i contadini non trovavano affatto strano recarsi alla messa domenicale e, sul sagrato, girarsi e fare un inchino al dio Mithra; e contemporaneamente pregare Cristo ed erigere piccoli altari di legno con idoli di pietra nelle campagne, per favorire buoni raccolti, ed ai crocicchi, per proteggere dai pericoli i viandanti. La Chiesa, costretta a venire a patti con questa sgradita, ma innegabile realtà, corse ai ripari canonizzando molte divinità pagane, allungando a dismisura la lista dei santi. La gente del popolo considerava il Cristianesimo un miscuglio di religione e magia, cosa che si rivelava nelle festività, dove Dio, antichi dei e santi ricevevano democraticamente ciascuno il proprio culto.

    Nell'Europa del primo Medioevo, contrariamente all'opinione comune, il problema della stregoneria non era particolarmente sentito. C'erano da risolvere problemi più urgenti, tra i quali le eresie interne al Cristianesimo, i legami tra Chiesa, papato e governo secolare, l'eliminazione del paganesimo da tutte le aree dell'Europa. Sulle streghe si era espresso chiaramente sant'Agostino, che nel De vera religione aveva affermato che credere nella stregoneria era una forma di superstizione puerile; la superbia e la vana curiosità spingevano streghe e stregoni verso l'errore ed impedivano loro di vedere la veritˆà. Erano quindi dei poveri sciocchi, e come tali dovevano essere compatiti, in attesa del loro ravvedimento.

    In seguito, la sua opinione fu ratificata dal Canon Episcopi, che analizzava un'antica credenza, quella della "Compagnia di Diana", una congrega composta da donne che la notte volavano su demoni trasformati in bestie alate, per recarsi a riunioni con altre donne seguaci di Diana, Herodiana o Erodiade Il Canone le definì delle poverette, vittime di illusioni diaboliche; dar loro credito voleva dire cadere nello stesso errore, favorendo la sopravvivenza dei loro culti, per cui il compito dei sacerdoti doveva essere quello di aiutarle a pentirsi e ravvedersi. Il famoso vescovo Burcardo di Worms scrisse che nessuno poteva essere tanto sciocco da credere che le cose che le streghe immaginavano di fare e vedere durante le loro riunioni fossero autentiche; anzi, chi ci credeva doveva espiare le proprie colpe, perché commetteva un peccato anche solo nel pensare che ci fosse un potere diverso da quello di Dio. L'arcivescovo di Chartres, Giovanni di Salisbury, disse che "il miglior rimedio contro la stregoneria è il rifugiarsi nella fede, senza dare ascolto a queste menzogne e senza far caso a così lamentevoli follie".

    Ma i tempi, purtroppo, stavano cambiando. Il Canone ed altre leggi similari furono inseriti nel "Decreto di Graziano", un'importante raccolta di leggi ecclesiastiche compilata dal monaco Graziano di Camaldoli tra il 1140 ed il 1150; nella seconda parte dell'opera egli mise tutti i testi di condanna alla stregoneria e tutte le decisioni prese nei vari concili contro maghi e streghe, come il vietare la comunione sul letto di morte a coloro che avevano ucciso mediante magia nera, oltre alle varie penitenze riservate a streghe, stregoni e procuratrici di aborto; questi se l'erano spesso cavata con piccole multe o lunghi periodi di digiuno a pane e acqua. Graziano sostenne che le credenze e le pratiche magiche non erano innocue superstizioni, ma deviazioni dalla fede, che la Chiesa doveva impegnarsi ad estirpare assolutamente, in ogni modo. Pochi decenni dopo, l'estendersi dell'eresia albigese avrebbe portato alla cancellazione dell'atteggiamento moderato auspicato dal Canone e messo le basi per le stragi dell'Inquisizione.

    Facciamo un po' di chiarezza nei termini...
    La nostra parola "Strega" deriva dal latino strix, strige; indicava un uccello dall'aspetto orrendo, con artigli taglienti, becco affilato a forma di uncino e seni simili a quelli femminili, contenenti una sostanza velenosa che i mostri davano ai neonati per ucciderli. Una variante del loro comportamento, che abbiamo citato parlando di Ovidio, era di succhiare il sangue dei bambini.
    "Lamia" deriva invece dalla mitologia greca; si rifà al mito di Lamia, una bellissima fanciulla, la cui avvenenza destò l'interesse di Zeus, che le diede molti figli. Questo provocò in Hera, legittima consorte di Zeus, una gelosia furiosa: ella uccise tutti i figli di Lamia e la tramutò in un mostro con testa di donna e coda di serpente. La poveretta, folle di dolore, gir˜ò per il paese, uccidendo e divorando tutti i bambini che trovava da soli. Presero quindi il nome di Lamie le streghe che rapivano i bambini per cuocerli e mangiarseli.

    "Masca" viene dal longobardo "maska", che indicava uno spirito del regno dei morti, impegnato in una strenua lotta per tornare nel mondo dei vivi. Divenne poi sinonimo di strega. Per altri deriverebbe dalla maschera che copriva il volto degli officianti durante le cerimonie sacre. Per altri ancora dall'antico provenzale mascar, che significava biascicare, borbottare, nel senso di borbottare incantesimi.

    Il termine francese "Sorcier" derivava invece da sortilegus, leggere le sorti; si riferiva quindi a coloro che facevano divinazioni. Gli attuali termini inglesi "Wizard" e "Witch", mago e strega, derivano dal sassone "wicca", che indicava una persona saggia, sapiente; sono forse i termini più completi e più vicini a quello che dovrebbe essere un mago. Il tedesco "Hexer" ha, come in inglese, il significato di sapienza.
    Maga e mago dovrebbero essere usati solo per il livello più elevato, cioè per chi usa l'Alta Magia Cerimoniale.


    La strega veniva considerata come un essere in combutta con le forze del male, e nella migliore delle ipotesi una povera pazza visionaria; in realtà la strega è passata attraverso una trasformazione molto complessa, ed in questa evoluzione ha cristallizzato alcune forme esteriori e di comportamento che si sono mantenute nei secoli, e che sovrapponendosi le une alle altre hanno finito per creare una figure dalle mille sfaccettature.
    Così si ritrova in lei l’antica sacerdotessa di culti pagani pre-cristiani, legati all’adorazione della natura in tutte le sue forme; si ritrova l’esperta erborista le cui nozioni non avevano un fondamento teorico ma erano il risultato di centinaia di anni di esperimenti e prove tramandate per via orale (da cui la necessità del rito, che aiuta, tramite il gesto ed il suono delle parole, a meglio memorizzare le parole stesse); si ritrova la bàlia del villaggio che aiuta le donne nelle loro pene e sofferenze tipicamente femminili, ne diventa l’amica e confidente al punto da erigersi a loro difesa contro le prepotenze dei mariti; ma si ritrova anche la serva pasticciona che per compiacere la padrona si inventa filtri d’amore, il cui risultato, quando è positivo, è più dovuto agli intrighi della serva stessa che all’efficacia del filtro; ed anche la povera pazza, che odia il mondo intero, ne è ricambiata, e tenta di provocare sofferenze e morte di tutti quelli che odia mediante sortilegi, ed ancora la ragazza sveglia ed emancipata che utilizza le sue arti per il soddisfacimento dei propri capricci, o semplicemente per desiderio di protagonismo o di voglia di libertà.
    La strega aveva quindi in sè un po’ tutti questi aspetti, più o meno pronunciati; di volta in volta uno di questi aspetti era prevalente rispetto agli altri, ma fondamentalmente tutti erano sempre presenti perchè tutti erano espressione di una filosofia di vita ben precisa: innanzitutto il desiderio di vivere la vita secondo regole proprie, regole scelte secondo la propria logica ed esperienza e non secondo principi imposti, con autorità, da altri; in secondo luogo il desiderio di rendere partecipi di questa scelta anche altre persone.
    La volontà, il desiderio della conoscenza, il trascendere e passare al di là dei limiti usuali imposti dalla cultura del momento è il significato più profondo della figura della strega.
    Tornando alla strega medioevale ci rendiamo conto che la differenziazione dei ruoli maschile e femminile viene alimentata quindi anche dal fenomeno appena ricordato, ossia dall’affiorare alla memoria di un antico importante ruolo delle donne, soprattutto in quelle cultura, come quella celtica, dove il ricordo di questo ruolo non si era mai sopito.
    L’ultima ragione che alimenta la differenziazione dei ruoli dipende da un fatto più pratico ed umano. La necessità del sottoporsi a pratiche mediche spinge le donne che ne hanno bisogno a preferire guaritrici piuttosto che guaritori, soprattutto quando la necessità delle cure è dovuta a problemi legati alla natura femminile (problemi di parto, aborto, dolori mestruali).
    La differenziazione dei ruoli è tale che ad un certo punto la strega è solo donna.
    Non a caso quando la chiesa cercherà delle persone che portino aiuto a chi era rimasto vittima di malefici mediante la sottoposizione a riti che dovevano annullare i risultati delle arti malefiche, si rivolge solo a uomini. E questo non solo perchè la classe sacerdotale importante a quel punto è formata da soli uomini. Infatti usa i sacerdoti, come esorcisti, solo nelle città. Nelle campagne si rivolge ad uomini comuni, ad una sorta di “stregoni buoni” che, con il beneplacito della chiesa, girano la campagna con lo scopo di cui si è detto.
    In Italia questi personaggi sono noti come “benandanti”.
    Il quadro è ora abbastanza chiaro. In giro per l’Europa ci sono donne che, in mancanza di potere istituzionali, tentano di far sopravvivere il proprio gruppo sociale mediante nozioni che sono state loro tramandata da tempi ancestrali, e quindi utilizza il buon senso per risolvere liti, usa erbe e decotti per curare le malattie, ed il tutto alimentato e tenuto vivo dalla fede in antichi dei, molto spesso identificabili con la natura stessa, con il mondo delle piante e degli animali.
    Ma le guaritrici non si limitano ai consigli ed alle cure. A forza di dialogare con le proprie assistite cominciano a rendersi conto che la malattia della moglie del mugnaio non è dovuta al sangue che, a detta del medico ufficiale, è stato infettato dalla vicina palude, ma più probabilmente dai patimenti che la poveretta ha subito a causa dei quindici parti, e che la pazzia della moglie del contadino si deve forse alle botte che subisce dal marito quando questo torna ubriaco dalla taverna, dove è andato a spendere i pochi soldi lasciando senza mangiare la propria famiglia.
    Queste donne cominciano a rendersi conto di un disagio di tutta una classe sociale e ne diventano i difensori, le portatrici di una richiesta di cambiamento di uno stato sociale di inferiorità.
    Se esse non avevano sufficienti nemici oltre ai preti ed ai medici, che nel tentativo di recuperare il loro ruolo le osteggiavano ferocemente, con questa nuova funzione sociale vengono a scontrarsi con tutti gli uomini.
    Sarà proprio l’odio feroce degli uomini, che si vedevano derubati del loro potere di padroni nei confronti delle proprie mogli, a far sì che la lotta portata alle guaritrici dai preti e dai medici avesse successo, ed i risultati saranno l’inquisizione, i processi sommari, le torture ed i roghi.
    Da questo momento in poi non si contarono i notabili, fossero essi religiosi o laici, che si lanciarono in queste azioni con fervore da “santa crociata” creando una strategia e gli strumenti metodologici per combattere le streghe.

    E’ questo il periodo della demonizzazione generalizzata di tutto ciò che non era cristiano, già iniziata nei primi secoli dopo Cristo con la creazione della definizione teologica del demonio da parte degli scrittori patristi e continuata fino ai giorni nostri; questa operazione identificava con le pratiche demoniache tutto ciò che non ricadeva nei canoni della cristianità ufficiale, dagli scritti fino alle attività più comuni ed usuali, con degli eccessi tali che alla luce delle moderne conoscenze di psichiatria si potrebbe benissimo interpretare l’operazione come una patologia identificata con il nome di “pratica ossessiva”: così diventavano simboli demoniaci le lettere dall’alfabeto runico, o altri legati alle tradizioni ermetiche o numerologiche, come il pentacolo (anche oggi, nei filmetti “horror” di quart’ordine, gli appartenenti a sette sataniche vengono sempre mostrati nell’atto di utilizzare le rune per scrivere le formule magiche).
    E’ in questo stesso periodo che nasce una nuova interpretazione di un antico termine che tanto spesso verrà legato alla figura delle streghe: “paganesimo”.
    Il termine discende dal latino “pagus”, che significa molto semplicemente “villaggio”, e che pertanto veniva utilizzato per identificare gli abitanti dei villaggi in contrapposizione a quelli che vivevano nelle città (“civitas”); data la maggiore diffusione e persistenza di culti animisti (comunque non cristiani) nelle zone rurali e montane, quindi fuori dalle città, il termine cominciò ad essere usato per indicare tutti quelli che aderivano a tali culti, ed il suo significato si caricò pertanto di una connotazione negativa.
    Il termine venne utilizzato per indicare tanto le streghe che gli eretici (non bisogna dimenticare infatti che l’Inquisizione nasce innanzitutto come strumento per combattere gli eretici, catari ed albigesi in particolare) è si è portata dietro questa connotazione negativa fino ai nostri giorni (chi scrive ricorda una definizione dialettale romagnola per indicare una donna vecchia e brutta : “brota com una paghéna”, ed il termine sottointendeva che oltre ad essere brutta questa persona dovesse essere anche cattiva).
    Giunti a questo punto della nostra analisi se dovessimo giudicare le streghe da quanto abbiamo visto non possiamo fare altro di ammettere che si tratta perlomeno di persone che esprimono un desiderio legittimo: vivere la propria vita senza costrizioni.
    In realtà la loro filosofia è ancora più complessa e profonda; se si limitassero alla ricerca di una “vita senza costrizioni” questa non sarebbe diversa da quella ricerca edonistica di tanti gruppi sociali che si sono visti nel corso della storia; il loro modo di intendere la vita è anche più interiore, è una ricerca di unione profonda tra il vivere la propria vita ed il viverla secondo una coscienza che porti alla felicità; la felicità quindi come un bene da perseguire ad ogni costo, anche se ciò può apparire sconveniente a qualcuno, una felicità da perseguire purchè non crei danno ad altri.
    Le stesse streghe cercano, attraverso i loro scritti, di mostrarsi scevre da interessi che non siano nobili, cercano di far capire che dedicarsi alla stregoneria è dedicarsi alla ricerca della verità e della conoscenza, e cominciano sconsigliando questa scelta se deve essere considerata una moda o una “voglia” passeggera. Vogliono cioè far capire che questo modo di essere deve essere inteso come una ricerca spirituale.

    STREGA MORELLA.it
    Ultima modifica di Gianky; 30-08-13 alle 13:01
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    Predefinito Re: La Stregheria italiana

    Là su per le montagne tra boschi e valli d’or,
    tra l’aspre rupi echeggia un cantico d’amor.
    ‘La montanara, ohè’ si sente cantare;
    ‘Cantiam la montanara e chi non la sa?’
    Là su sui monti dai rivi d’argento,
    una capanna cosparsa di fior:
    era la piccola dolce dimora
    di Soreghina la figlia del Sol
    .” (1)

    Negli antichi borghi di montagna, dalla ruvida voce delle anziane, o dai canti di qualche vecchio alpigiano, si può talvolta sentir narrare la vicenda di Soreghina, la raggiante figlia del sole
    La sua storia, custodita nella preziosa tradizione dolomitica, racconta che un tempo, in una zona della Val di Fassa chiamata Locia Contrin, si trovava un piccolo lago, dove abitava una bellissima vivana. La fanciulla “indossava una veste stupenda con un corsetto ricamato in argento e ornato nella parte superiore in oro e un grembiule di seta lucente”, e amava trascorrere il suo tempo fra le acque limpide e trasparenti, mostrandosi solo quando più forte splendeva il sole.
    Avvenne che un giorno la bella vivana dovette sposare il figlio del re della Val de Mortic, e quando fu trascorso un anno diede alla luce una splendida bambina, che venne chiamata Soreghina “perché era bella come un raggio di sole.” La vivana emergeva dalle acque del lago con la sua bimba solamente alla luce del giorno, e sempre vi ritornava poco prima del tramonto. “Il piccolo esserino riluceva come oro in braccio alla madre e si diceva che potesse vivere solo al sole. S’era sparsa addirittura la voce che la bambina fosse figlia del sole.”
    In una giornata particolarmente serena e soleggiata, la madre volle spingersi con la figlioletta un po’ più lontano del solito, su per la montagna, verso Ciampac. Ma l’ombra della sera calò più rapidamente di quanto avesse creduto, e sebbene si affrettasse a tornare al lago, riuscì a raggiungere le sue rive soltanto molto tempo dopo il tramonto.
    La piccola Soreghina non resse all’avventura; si ammalò, iniziò a tremare e senza più riprendersi morì nel corso di quella stessa notte.” (2)

    Questa antica leggenda, dal finale apparentemente triste, descrive la vita solare della luminosa Soreghina e il profondo legame che unisce il suo destino a quello del sole. La parola soreghina, in lingua ladina, significa infatti “piccolo raggio di sole” o “filo di sole” e la bambina dalla pelle che brilla come oro e i capelli color del miele incarna proprio i lucenti raggi solari, che brillano intensamente durante il giorno e simbolicamente si addormentano, o muoiono, con il sopraggiungere della notte.
    Anche sua madre è una creatura magica, talvolta definita un’incantevole vivana – le bellissime semi-dée boschive o acquatiche della tradizione dolomitica (3) –, talaltra una figlia del sole, e la bimba nasce dunque dall’amoroso connubio fra una donna ultraterrena e l’astro d’oro, fra l’acqua e il fuoco; e dal rifrangersi dei raggi solari sulla superficie del lago d’argento.
    La sua natura è pertanto dolce e amabile, e al contempo solare, energica e vivace; delicata e aggraziata, ma anche giocosa e ridente. E lei riluce, splende, ovvero irradia tutt’intorno a sé il suo spirito fatto di luce e gioia, come fosse un piccolo sole vivente.

    In questa prima versione della storia, Soreghina è descritta come una bimba molto piccola e la sua vita è assai breve. Altri frammenti narrativi – fra cui alcuni canti tradizionali dolomitici – parlano invece di lei come di una bellissima e radiosa fanciulla, che abitava in una graziosa casina di pietra, o in una capanna, tutta piena di fiori. Qui viveva lietamente e trascorreva la maggior parte del tempo facendo lunghe passeggiate estive per le valli e i sentieri, raccogliendo erbe e mazzetti di fiori, correndo su per le montagne assolate e, soprattutto, inebriandosi della luce del sole.
    Dai suoi raggi traeva infatti la sua forza, la vivacità e una gioia esuberante, che la mantenevano in salute e la rendevano felice.

    Secondo una leggenda più complessa, nella quale sono stati raccolti, ricuciti, e in parte rielaborati, i diversi accenni alla sua storia, Soreghina era figlia di una fanciulla di nome Elba (4) che a causa della sua rara bellezza era stata desiderata e rapita dal re. Poiché lei rifiutava ardentemente di ricambiare il suo amore, il sovrano la fece rinchiudere in una vecchia e umida cella, dove sarebbe dovuta rimanere fino a quando non avesse acconsentito a sposarlo. In questa piccola ma quieta prigione, la giovane passava molto tempo a parlare con un piccolo raggio di sole che filtrava dalla stretta feritoia, e ogni giorno, quando il filo di luce compariva, Elba ne provava una gran gioia, lo chiamava soreghina, e lo seguiva fino al suo ritirarsi, quando il sole tramontava oltre le montagne. Dopo alcuni anni di prigionia, Elba fu comunque costretta a sposare il re, ma nonostante fosse stata liberata, la fanciulla tornava ogni giorno nella sua vecchia cella a parlare con il piccolo raggio di sole, poiché solo così facendo riusciva a provare un poco di gioia. Dopo alcuni mesi, diede alla luce una bellissima bambina, che venne chiamata proprio Soreghina, e pochi istanti dopo il parto, la madre morì.
    La piccola principessa, rimasta orfana nel castello del re, cresceva debole e gracile, ma recuperava forza e vivacità quando si immergeva nella luce del sole. Di notte o nelle giornate di brutto tempo, cadeva in un sonno profondissimo “e da un’indovina le fu predetto che se una volta si fosse lasciata cogliere ancor desta dalla mezzanotte, sarebbe morta all’istante.” (5)
    Durante i primi anni, la piccola soffriva talmente che non poteva mai alzarsi dal letto e si svegliava solo per poche ore durante il giorno, quando i raggi solari riempivano la sua stanza. Ciò nonostante, col passare del tempo, riuscì a recuperare la salute e divenne una splendida fanciulla.
    Una mattina, durante una delle sue luminose passeggiate, Soreghina trovò, disteso a terra e privo di sensi, un giovane guerriero dalla nobile fama. Il suo nome era Ey de Net, e per diverso tempo la fanciulla se ne prese cura, medicando le sue ferite e nutrendolo come meglio poteva. Dopo qualche tempo, i due giovani si innamorarono e di lì a poco, si sposarono. Dopo le nozze andarono a vivere in una casetta di legno costruita nel punto più luminoso e soleggiato del pendio, dove trascorsero molti mesi felici.
    Soreghina “non si sentiva mai così bene come nell’ora del mezzogiorno. Usciva allora volentieri all’aperto, parlava con brio ed era lieta e ridente. Saliva senza stancarsi per l’erto pendio, coglieva fiori, scherzava e correva, agile come un camoscio” (6). E quando Ey de Net le chiedeva dove trovasse tutto quel vigore e quella vivacità, lei rispondeva che li riceveva dal sole.
    Tuttavia l’estate passò e giunse l’autunno, con le prime nevicate sulle alte cime, le giornate piovose e il pallido sole nascosto fra le nuvole. Una sera, un guerriero straniero, amico di Ey de Net, giunse alla casa dei due giovani. Soreghina uscì a passeggiare per lasciare soli i due vecchi amici, ma nel grigiore della giornata, per la prima volta da tanto tempo, la fanciulla si sentì attraversare da un profondo brivido. Tornata a casa si mise a letto per riposare, eppure sentiva le forze venirle meno, e la pervadeva una strana inquietudine.
    Nel silenzio della sua stanza, udiva i due giovani parlare, e quando li sentì discutere sottovoce, mossa dalla curiosità e certa che parlassero di lei, si alzò per ascoltare meglio, scese la scaletta di legno e si nascose dietro la porticina. Ey de Net stava difatti elogiando le doti e la bellezza della sua sposa, ma si lasciò sfuggire che una parte del suo cuore apparteneva ancora al suo vecchio amore perduto, la principessa guerriera Dolasilla, della stirpe dei Fanes.
    Il tempo trascorse e a tarda notte l’amico straniero si accomiatò. Ey de Net fu preso dal rimorso per quanto aveva rivelato, e pensando alla sua bella Soreghina volle subito andare a vederla, così “come tante altre volte l’aveva veduta nel sonno, tranquilla e purissima, col bel viso illuminato dalla luce della luna” (7). Ma era da poco passata la mezzanotte, e non appena il giovane aprì la porta, Soreghina, che vi si era appoggiata contro, gli cadde fra le braccia priva di vita.
    Come la brina fredda e crudele uccide un fiore, così nelle tenebre era giunta silenziosa la cupa Mezzanotte, e aveva spento quell’anima luminosa.” (8)
    Ey de Net a lungo si disperò per la sua amata Soreghina, ma nulla poté fare per riaverla al suo fianco.

    La leggenda si svolge ora in modo diverso rispetto alla sua prima versione, pur mantenendo inalterato il significato e la triste fine – che però appare necessaria – della bella Soreghina. Anche qui, la fanciulla è ritratta come una luminosa figlia del sole, che vive soltanto grazie allo splendore dei suoi raggi e trae salute, vigore e gioia dalla sua luce calda e rassicurante. Ma sebbene in questo caso ad ucciderla sia la fatale mezzanotte, è pur vero che la fanciulla se ne lasci cogliere ancora sveglia per via del suo sposo, il quale rappresenta la causa indiretta della sua morte.
    Questo particolare non dovrebbe apparire strano se si considera il significato del suo nome. Ey de Net significa infatti “occhio della notte”, e il giovane potrebbe dunque essere considerato un figlio della notte, una creatura notturna, lunare, misteriosa; opposta ma allo stesso tempo complementare alla lucente Soreghina, così come lo sguardo della notte è opposto ma del tutto complementare al risplendere dei raggi di sole.
    La dorata fanciulla è quindi sposa della naturale oscurità, ma è anche la luce che ogni sera viene spenta dal suo incedere implacabile in una danza divina che vede l’eterno succedersi di giorno e notte, di sole e luna, di estate e inverno. Ed è proprio quando l’estate è ormai giunta al termine, sostituita dalle inquiete ombre rosse dell’autunno, dalle grigie nebbie e dall’impallidirsi del sole oltre il pesante velo delle nuvole, che Soreghina percepisce l’approssimarsi della sua fine.
    Allo scoccare dell’ora più buia, la vita le vien meno. E pur tuttavia la sua non dovrebbe essere considerata una morte definitiva. Sotto tutti gli aspetti, la bella fanciulla appare infatti come una reminiscenza di quelle antichissime divinità femminili stagionali che, presso i popoli pre-cristiani e matriarcali delle Dolomiti, presiedevano la parte più calda e luminosa dell’armonioso ciclo annuale, e che per il resto del tempo dormivano profondamente – o morivano temporaneamente – rimanendo ben celate alla notte e alla sua misteriosa oscurità.
    La loro morte è sempre ciclica, simbolica, ovvero solo apparente e temporanea; un sonno più lungo e profondo che corrisponde ai mesi più freddi e bui dell’anno, al quale però seguirà un sicuro risveglio, così come il sole risorge ogni mattina, e ad ogni gelido e cupo inverno segue sempre il tiepido rinascere della primavera. (9)

    Soreghina ritorna sempre, vivace e gioiosa, a illuminare la terra. Nasce e rinasce dal sole, e sempre danza, gioca e ride, nascondendosi tra le foglie e le ombre dei boschi, e correndo libera lungo i verdi pendii dei monti.
    È la splendida figlia del sole, la ridente bambina fatta d’oro luminoso, e la radiosa, bionda fanciulla che vive nei riverberi lucenti, nel brillare delle acque, nella pioggia di raggi dorati.
    La sua essenza può essere percepita in ogni luogo accarezzato dal sole, il suo sorriso può essere intravisto in ogni suo brillante e purissimo filamento.
    Giocare con un raggio di sole è come giocare con Soreghina, confidargli i propri segreti e i propri desideri, è come rivelarli ed affidarli a lei. I tiepidi baci del sole sono i suoi dolcissimi baci, e inebriarsi di luce solare è come farsi pervadere e riempire dall’abbagliante spirito di lei.
    Lei, che può ancora insegnare alle belle fanciulle il magico cammino che rende luminose, così che possano imparare a brillare, e a irradiare armonia, amore, gioia ed esuberante libertà. Come piccoli astri viventi, che portano l’oro nel mondo.

    ***

    Sa la costa de Fraghina i nes vejes i contea
    che 'na ota je stasea la lusenta Soreghina
    .” (10)

    (Sulla costa di Fraghina, i nostri vecchi raccontavano
    che una volta dimorava la raggiante Soreghina.)

    ***


    Note:

    1. La montanara, canto tradizionale alpino ispirato alla storia di Soreghina. Testo di Toni Ortelli, 1927

    2. Citazioni tratte da Ulrike Kindl, Le Dolomiti nella leggenda, pag. 33

    3. Le Vivane, di cui si narra in diverse leggende alpine, e in particolare dolomitiche, sono donne oltremondane o semi-divine che vivono nei boschi, nelle grotte e presso ruscelli, laghi e sorgenti. Sono descritte come bellissime fanciulle, tanto leggere e delicate da apparire quasi trasparenti, amiche di tutti gli animali, e in particolare dei camosci, delle civette e di tutti gli uccelli. A seconda del modo in cui vengono trattate dagli uomini possono portare fortuna, prosperità e benedizioni, oppure infliggere terribili punizioni, specialmente verso coloro che offendono la natura e le sue creature. Cfr. Kindl, op. cit., pp. 68, 75-81; Maria Savi-Lopez, Leggende delle Alpi, pp. 235 e seguenti; Alberta Dalbosco e Carla Brughi, Entità Fatate della Padania, pp. 227-230.

    4. Secondo la leggenda, anche Elba era una figlia del sole, che ogni giorno, durante la primavera e l’estate, trascorreva l’ora del mezzogiorno a navigare un solitario lago d’argento, avvolta in una veste bianchissima. Cfr. Elba, in Karl Felix Wolff, I monti pallidi, pag. 159 e seguenti.

    5. Citazione da Wolff, op. cit., pag. 165

    6. Ibidem, pag. 167

    7. Ibidem, pag. 169

    8. Ibidem

    9. Anche nella leggenda di Elba, la bella fanciulla vestita di bianco scompare in autunno per ricomparire soltanto quando il calore del sole ha sciolto la neve e i ghiacci, mentre nella leggenda di Cian Bolpin, la solare Donna Chenina si addormenta nel suo splendido palazzo al finire dell’estate, dorme profondamente per tutto l’inverno e si risveglia soltanto a primavera inoltrata. Per approfondire le loro storie vedi Wolff, op. cit., pp. 159-164 e 171-189. Durante il periodo invernale, le figlie del sole sono sostituite dalle leggendarie regine delle nevi. Per approfondire vedi Savi-Lopez, op. cit., pag. 246 e seguenti, e La Samblana, principessa del bianco inverno, ricerca di Violet per Il Tempio della Ninfa.

    10. Wolff, op. cit., pag. 165


    Fonti

    Leggende delle Dolomiti, Ulrike Kindl, Frasnelli-Keitsch Coop. a r.l., Bolzano, 1993
    I monti pallidi, Karl Felix Wolff, Cappelli Editore, Bologna, 1987
    Leggende delle Alpi, Maria Savi-Lopez, Editrice Il Punto – Piemonte in Bancarella, Torino, 2007
    Entità Fatate della Padania, Alberta Dalbosco e Carla Brughi, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 1993
    Il Canzoniere, Associazione Nazionale Alpini
    Soreghina, la Figlia del Sole :: Il Tempio della Ninfa :: antiche voci dal bosco...
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

  10. #10
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    Predefinito Re: La Stregheria italiana

    Sulla gelida vetta delle montagne più alte, fra le grotte azzurre ricamate di ghiaccio e il luminoso candore della neve, in un bianco reame nel quale governa l’eterno inverno, viveva un tempo una bellissima principessa, ricordata nelle tradizioni dolomitiche come la Samblana.
    La sua dimora prediletta era la cima del monte Antelao, ma si dice che in origine la fanciulla vivesse nel bosco Bayon, fra le fitte conifere che crescono sulla parte orientale della montagna.



    Secondo la leggenda, la Samblana era un’antica principessa indigena che governava sui Maòi – o Bedoyeres, il matriarcale “Popolo delle Betulle” che abitava nella Pusteria (1). Sebbene molto bella, la giovane era assai ambiziosa, e non accontentandosi del piccolo paesello sul quale regnava, aveva voluto sottomettere anche i popoli vicini. Ogni anno, all’approssimarsi del gelido inverno, si faceva cucire un abito di candido velo, e questo doveva essere ogni volta più sfarzoso e luminoso, più lungo e con i ricami più preziosi. L’ultima di queste incantevoli vesti “era intessuta di luce, d’argento e di albume d’uovo ed era talmente lunga che mille fanciulle dovevano sostenere lo strascico, quando la principessa la indossava” (2). Tuttavia lei non era ancora soddisfatta, perché la bellezza che desiderava portare superava quella che le più abili sarte sapevano riprodurre, e per ottenere altri vestiti adatti alla sua aspirazione obbligava il popolo a pagare imposte sempre più gravose. Così fece per diverso tempo, finché i sudditi, non potendo più sopportare i suoi mutevoli capricci, le si ribellarono e la fecero prigioniera, confinandola sulla cima dei monti di vetro, in una landa deserta, gelida e ghiacciata che ancora oggi viene chiamata Nöfes.
    Relegata in completa solitudine su quelle vette abbandonate, la Samblana venne dimenticata dagli uomini, e sul suo lunghissimo strascico bianco cadde la neve e si formò uno spesso strato di ghiaccio, così che la principessa non poté più spostarsi, né muoversi.
    Allora ebbe modo di ripensare al suo regno passato e si rese conto con grande amarezza dei molti torti fatti al popolo che l’aveva amata e onorata, pentendosi profondamente per la severità e la prepotenza che vi aveva rivolto.
    In tale dolorosa penitenza stette per lunghi anni, finché un giorno giunsero a lei due bambine molto piccole, le quali dissero di voler reggere la sua veste “affinché ella potesse liberarsi dei legami del ghiaccio” (3). La Samblana si rallegrò per la lieta compagnia che le due piccole ospiti le procuravano, e col passar del tempo altre bambine arrivarono dalla bella principessa, e poi ne vennero altre ancora, e tutte desideravano sorreggere il suo grande strascico per liberarla. Alla fine le piccole ancelle erano talmente tante che riuscirono a scrollare la neve e il ghiaccio dall’abito della Samblana e a sollevarlo, permettendole di muoversi di nuovo. Così, quando giunse il gelido inverno, la principessa cominciò a spostarsi di monte in monte, alla ricerca di un posto che le piacesse più degli altri nel quale stabilirsi. Dapprima visitò la Marmolada, poi si recò sulla Tofana di Mezzo, sulla Fradusta, e infine scelse la chiara vetta dell’Antelao, dove si dice che viva ancora adesso, circondata dai ghiacci, dalla neve e dalle sue bambine.
    Sebbene passassero gli anni, infatti, molte giovinette continuarono a recarsi dalla candida fanciulla per offrirle il loro servizio, e ogni qualvolta divenivano più numerose di quanto fosse necessario per sorreggerne il pesante strascico, lei ne congedava alcune, donando loro un pezzetto del suo lucente vestito. E non appena le piccole damigelle lo indossavano, subito diventavano bianche come la neve, avvolte in un etereo biancore luminoso. Allora, e solo allora, se ne volavano via, verso i mondi incantati nei quali vivono tutte le anime luminose. (4)

    La bella principessa della neve e dei ghiacciai di cui narrano i racconti dolomitici, altri non sarebbe se non un’antichissima divinità dell’inverno, che con l’avvento della nuova religione patriarcale venne dapprima dipinta come dispotica, ambiziosa e vanitosa, “in base al processo denigratorio delle divinità pagane” (5), e in un secondo momento venne punita ed esiliata fra i ghiacci eterni dei monti di vetro, dove si pensava che nessuno avrebbe più potuto udire la sua voce.
    Tuttavia vi fu un tempo remoto in cui la Samblana viveva più vicina al suo popolo, e si aggirava nei boschi e vicino alle sorgenti, mostrandosi sempre benevola, generosa, e amorevole nei confronti degli uomini. Lei era la signora che portava la neve ad imbiancare le valli, ma proteggeva anche i boschi e gli animali dalle gelate. A lei si diceva appartenesse un maestoso e rigoglioso faggio che cresceva nel bosco Bayon, considerato sacro dagli antichi popoli, e sua era anche la piccola sorgente che vi scorreva poco distante, le cui acque erano ritenute magiche e terapeutiche. Si credeva infatti che guarissero da certe malattie, e accrescessero la fertilità nelle donne, che forse la raccoglievano per bagnare il ventre, invocando la dolce protezione della Dea. (6)
    Quando ancora viveva fra la florida vegetazione montana, la Samblana aveva creato la prima stella alpina, fiore magico che sboccia solo ai margini dei crepacci e fra le alte rocce di montagna, ovvero nei luoghi più pericolosi e difficili da raggiungere (7), e inoltre aveva donato agli uomini le sue cipolle incantate, che crescevano attorno al laghetto Thigolye – letteralmente “lago delle cipolle”.
    Questi magici tuberi, che si potevano cogliere fra i fitti larici e gli abeti rossi che circondavano il piccolo specchio d’acqua, proteggevano dal Barba Gol, un malefico stregone il cui unico intento era quello di gettare le sue infide bategoi – “stregonerie” – sugli uomini per stordirli e ingannarli, ovvero per confonderli e far perdere loro il senso della realtà. Bastava però tener con sé una delle cipolle della principessa per mettere in fuga il mago con i suoi infidi inganni, ed era inoltre sufficiente mangiarne una per guarire da alcune malattie rare e incurabili con le normali medicine dei dottori. (8)
    Anche nel gruppo dolomitico di Brenta, a ovest del fiume Adige, si narrava un tempo di certe cipolle incantate, che erano state portate in quelle terre da una misteriosa regina straniera. Questo frammento di leggenda, insieme ad altri disseminati sino a sud delle Alpi, dimostrano che le storie sulla Samblana si diffusero anche in altri luoghi, spostandosi di monte in monte come il suo candido abito.
    Con l’avvento del patriarcato, come accennato, la principessa venne dunque confinata sulle alte cime innevate, e nessuno sentì più parlare di lei. Ciò nonostante, una moltitudine di bambine si misero in viaggio per raggiungerla, esprimendo l’unico desiderio di starle accanto e di liberarla dai ghiacci che l’avevano rapita. Chi potevano essere nella realtà queste piccole damigelle dallo spirito antico?

    Le figlie bianche della Samblana

    Secondo alcune storie, le piccole ancelle della Samblana provenivano dalla terra degli uomini ed erano le anime delle bambine indesiderate, le quali venivano sacrificate dalle madri – o da una donna di conoscenza che svolgeva per loro l’arduo compito – e affidate simbolicamente alle amorevoli cure della principessa. Si credeva infatti che la fanciulla accogliesse con gioia le bimbe nel suo regno incantato, e che le piccole vivessero con lei nella più gaia armonia, fino al momento in cui sarebbero state pronte per volare oltre i ghiacciai.
    A tal proposito, un tempo si diceva che la Samblana avesse adottato le molte bambine del paesello di Dobbiaco, nate in considerevole eccedenza rispetto ai maschietti. Le piccole avevano raggiunto il bianco reame accompagnate dalla Luna, che dopo averle dolcemente raccolte come una culla le aveva posate in cima al monte, e lì avevano vissuto a lungo accanto alla loro bianca signora.
    In questa storia, come in molti altri frammenti leggendari, gli attributi di vanità e prepotenza della Samblana sono del tutto assenti, e l’origine del suo splendido vestito risulta essere molto diversa da quella più comune. Si dice, infatti, che per onorare la loro madrina, le bambine avevano voluto tessere e cucire per lei l’immenso velo immacolato, brillante più di mille stelle, e questo era talmente grande che la Samblana dovette tagliarlo in pezzetti, donandone uno a ciascuna di loro. Con questi magici lembi, le piccole damigelle si diressero poi sui monti e sulle valli, sui prati coperti di brina, nei boschi e sulle rive dei laghi, e ovunque andassero con il candido velo, lì si posava un soffice manto di neve.
    La splendida e lunghissima veste della Samblana, infatti, altro non sarebbe se non l’immensa distesa innevata che ricopre la terra ogni inverno, che si ritrae con l’arrivo della primavera, e che dalla cima del monte Antelao si protende giù nelle vallate, fino ai villaggi abitati.



    Da questo mito si deduce che alle bambine della principessa spettasse il gioioso compito di aiutarla a portar la neve sulla terra, proteggendo dal gelo la rigogliosa vegetazione montana.
    Tuttavia, secondo un’altra versione della storia, le piccole ancelle, il cui sacrificio venne ricambiato con la nascita nei villaggi di molti maschi, non si fermarono a lungo nel regno d’inverno della Samblana, ma rinacquero sulla terra in forma di tanti dolcissimi colchici, “tutti rosa, tutti uguali”. Questi magici fiorellini erano chiamati Mirandoles della Samblana: “in essi abitavano le anime delle bambine che erano state mandate incontro alla Luna”. (9)

    Osservando queste leggende da un punto di vista simbolico, si potrebbe pensare che il sacrificio delle moltissime bambine, che vennero letteralmente sostituite dai maschi, rappresenti l’eco del passaggio dal matriarcato, nel quale regnavano donne e divine sovrane, al patriarcato, in cui i maschi presero a governare al loro posto, relegando le antiche divinità sulla vetta delle montagne, nel profondo delle grotte o nel folto di boschi fitti e inaccessibili. La cultura degli arcaici popoli dolomitici, infatti, era sempre stata matriarcale, e questo è dimostrato anche dalla moltitudine di regine che popolano le leggende più antiche, e dall’assenza di figure maschili di uguale rilevanza. (10)
    Se fosse possibile credere a questa interpretazione del sacrificio femminile, allora le bambine potrebbero essere considerate le piccole eredi dell’antica religione delle donne, che vennero simbolicamente esiliate sulla cima della montagna – come già era successo alla loro amata principessa – per permettere ai maschi di prenderne il potere. Lontane dal mondo che non le comprendeva più, restarono fedeli a loro stesse e alla loro tradizione, diventando portatrici di neve e dolci fiori rosa, e formando il gioioso e fanciullesco corteo della Samblana.
    A tal proposito, sarebbe bello immaginare, o forse sognare, che le bimbe non fossero state realmente sacrificate, ma che invece avessero raggiunto certe grotte profonde e segrete, fra le nevi e i ghiacci, dove regnava una misteriosa principessa vestita di bianco, o colei che sulla terra rappresentava l’amorevole spirito della Samblana. Raggiunto il suo regno incantato, le fanciulle sarebbero divenute le sue ancelle, e avrebbero imparato giorno per giorno a rendersi sempre più bianche, ovvero a rendere la propria anima sempre più chiara, lucente e leggera, fino a librarsi nei reami sottili come tanti fiocchini di neve, ricongiungendosi alla sorgente armoniosa da cui tutto ciò che è puro e naturale prende vita. (11)

    Le Yméles, messaggere della Samblana

    Fra le molte damigelle che raggiungevano il regno nevoso della Samblana, arrivarono un giorno due gemelline, tanto belle e simili che sarebbe stato difficile distinguerle. Le bambine chiesero alla principessa di poterla servire, e lei ne fu molto felice, ma dato che di servitrici per reggere il suo strascico ne aveva a sufficienza, disse che avrebbe dato loro un compito diverso ma molto importante, quello di essere sue messaggere sulla terra e di aiutare in sua vece la buona gente in pericolo.
    Da allora molte leggende nacquero sulle piccole Yméles – letteralmente “gemelle” – che erano tanto care al cuore dei montanari. Si diceva che fosse possibile vederle specialmente alle prime luci del mattino, sotto ai riverberi del sole novello, mentre camminavano tenendosi per mano sugli alti pascoli, fra l’erba umida di rugiada, e fra le rocce e la ghiaia franosa dei ripidi costoni. Se si aveva la fortuna di vederle da lontano, bisognava fermarsi e salutarle con molta gentilezza, calando il cappello e offrendo loro un sorriso, perchè erano messaggere della principessa dell’inverno e il loro aiuto era prezioso.
    Le gemelline si premuravano infatti di avvertire gli alpigiani in caso di gravi pericoli, così frequenti sui ripidi e franosi pendii. (12) All’occorrenza, lanciavano grida acute e inquietanti, che riecheggiavano fra le grigie montagne, per segnalare frane imminenti o violenti temporali, e mettevano anche in guardia dall’arrivo della terribile “ombra”, temuta specialmente dai pastori di pecore. Il passaggio rapido dell’ombra sui prati, sui boschi e sulle pendici dei monti, rivelava infatti la presenza dell’enorme avvoltoio degli agnelli, un rapace dagli occhi di fuoco che sorvolava le greggi, basso e minaccioso, per scegliersi la preda più ambita, mentre le pecore terrorizzate si lanciavano in corse folli, finendo spesso col precipitare dai burroni. (13) Le Yméles, però, conoscevano bene tutti i luoghi in cui i grandi volatili avevano nidificato, e non appena li vedevano spiccare il volo correvano ad avvertire i pastori, i quali raggruppavano subito gli animali e poi, con l’aiuto di piccoli specchietti di ottone, rifrangevano i raggi del sole verso l’avvoltoio, abbagliandolo e spingendolo a cercar cibo altrove.
    Oltre a proteggere uomini e animali dall’avvoltoio degli agnelli, le buone gemelline avvisavano anche del nefasto comparire del Barba Gol, ovvero mettevano in guardia coloro che lo meritavano dell’avvicinarsi di illusioni e inganni. (14)

    Per ringraziare le piccole Yméles della loro benevolenza e del loro soccorso, i montanari solevano indicar loro i boschetti in cui crescevano le fragoline di bosco più dolci, i lamponi più succosi e i mirtilli più deliziosi, poiché si sapeva, ne erano assai golose…
    In una delle storie sulle buone gemelline si narra che il primo giorno in cui esse si presentarono alla Samblana, le portarono una bellissima pietra azzurra, che brillava come un piccolo sole e rifletteva tutto il turchese del cielo sereno e dei laghi immoti. Con questa pietra, chiamata Ray – “raggio” – la principessa si fece costruire un piccolo specchio magico, con il quale poteva catturare i raggi del sole invernale e rifletterli fin negli angoli più nascosti, gelidi e ombrosi delle vallate, portando luce e calore laddove ce ne fosse stato bisogno.
    Si dice che vicino a Cortina, sulle alture di Pocol, si possa ancora intravedere, nel crepuscolo delle limpide sere d’inverno, il riflesso azzurro del magico Ray, che luccica lontano, sulla cima del monte Antelao… E forse, osservando quel fugace brillio, si può immaginare la bella Samblana che tiene alto il suo specchio lucente, raccogliendo gli ultimi riverberi di sole per offrirli al mondo.

    La leggenda della bella principessa e delle sue messaggere, si diffuse in un tempo molto lontano anche a sud delle Alpi e vicino al Lago di Garda. Qui si dice che le due bambine, chiamate les egueles (15), emergessero dalle acque del lago e portassero alle genti i messaggi della loro bellissima regina, che indossava una splendida veste intessuta d’argento e trascorreva ogni inverno sotto lo specchio d’acqua, nel suo regno incantato. (16)

    ***

    Sebbene esiliata fra i ghiacci, in un reame selvaggio fatto di picchi innevati e nude rocce, ma anche di caverne nascoste agli occhi dei mortali, la principessa Samblana non venne dimenticata da tutti, ma sopravvisse grazie al prezioso lavoro di rari raccoglitori di leggende. Così è ancora possibile conoscerla, e intuire la sua natura originaria di grande Dea del bianco inverno, dalla pelle chiara come la luna e le vesti ricamate di neve, ghiaccio e brina.
    La Samblana fu una divinità delle donne, protettrice della fertilità femminile, madrina delle giovani fanciulle che con devozione si votavano a lei. Signora notturna, lunare, incarnava lo spirito della neve e degli aspetti più dolci dell’inverno, proteggendo e mettendo in guardia gli uomini da quelli più violenti. Nel ciclo stagionale presiedeva alla parte buia e fredda – ma al contempo segreta e ovattata – dell’anno, ed era armoniosamente contrapposta alle lucenti Figlie del Sole, che governavano nel tempo primaverile ed estivo. (17)
    Ma la buona principessa era anche maestra di antichi misteri femminili, in quanto insegnava alle bambine a farsi bianche come la neve e le stelle alpine. Per giungere al suo regno bisognava percorrere il sentiero della Luna, ovvero essere condotte dai suoi raggi d’argento, e porsi al suo servizio voleva forse dire ricercare la purezza e il candore dell’anima, fino a quel sacro stato d’essere simbolizzato dal dono del velo bianco, che avrebbe permesso di volare nei regni d’armonia, tutte ricolme di candida luce.
    La leggenda più conosciuta sulla Samblana si conclude dicendo che verrà un tempo in cui il suo lungo e pesante abito si sarà talmente accorciato che non toccherà più terra, e quello sarà il giorno in cui anche lei, ormai completamente libera, volerà via, recandosi finalmente “dove camminano le anime beate nello splendore eterno oltre i nevai”. (18)
    Allora la signora dell’inverno si ricongiungerà a tutte le sue piccole figlie, e a coloro che da sempre e per sempre l’amarono e le furono fedeli.
    Solo le due gemelline resteranno nel mondo, e si aggireranno liete nei boschi e nelle valli, per continuare a offrire buoni consigli e protezione a quegli uomini meritevoli che sapranno, con affettuoso rispetto, porgere loro un gentile saluto.
    Ma fino a quel lontano momento, la bella principessa vivrà sulla vetta della montagna, e il suo spirito d’amore potrà essere percepito ovunque si posi una soffice coltre di neve.
    E se qualche giovane fanciulla, sfuggita ad un mondo che non la comprende più, vorrà raggiungere il suo regno immacolato, non avrà che da invocar la luna, seguendo il suo sentiero riflesso sulla neve, in una serena notte d’inverno.
    Sulla gelida vetta delle montagne più alte, fra le grotte azzurre ricamate di ghiaccio e il luminoso candore della neve, in un bianco reame nel quale governa l’eterno inverno, viveva un tempo una bellissima principessa, ricordata nelle tradizioni dolomitiche come la Samblana.
    La sua dimora prediletta era la cima del monte Antelao, ma si dice che in origine la fanciulla vivesse nel bosco Bayon, fra le fitte conifere che crescono sulla parte orientale della montagna.



    Note

    1. I Bedoyeres erano uno dei popoli di carattere matriarcale che abitavano la valle Pusteria. La parola ladina bedoyeres deriva da bedoia, ovvero betulla, e ha il significato di “Popolo delle Betulle”, e sebbene i boschi che queste genti abitavano siano ora essenzialmente popolati da conifere, è possibile ipotizzare che in un tempo antico vi crescessero molte betulle.
    In queste rigogliose foreste i Bedoyeres onoravano regine e principesse, divine e probabilmente mortali, ed è facile dedurre che uno dei loro culti femminili fosse rivolto proprio alla Samblana, signora delle nevi che governava durante il tempo invernale.

    2. Citazione da Karl Felix Wolff, Rododendri bianchi delle Dolomiti, pag. 23

    3. Ibidem

    4. Wolff, op. cit., pagg. 17-25

    5. Vedi Leggendiario – La Samblana

    6. Quando sopravvenne il cristianesimo la sorgente che era appartenuta alla Samblana venne dedicata alla Madonna e le sue acque vennero ritenute miracolose per sua intercessione. Tuttavia col tempo il suo scorrere rallentò, fino ad esaurirsi. Per quanto riguarda invece il grande faggio, esso era ancora presente nel bosco sacro agli inizi del 1900, quando Karl Felix Wolff andò a visitarlo. Egli affermò che nonostante l’albero fosse morto, “quel luogo non aveva perso nulla della sua particolare bellezza e suggestione.” (Wolff, op. cit., pag. 21)

    7. Per approfondire la simbologia e le leggende della stella alpina, vedi Stella alpina, ricerca di Violet per Il Tempio della Ninfa

    8. Questo particolare è narrato in una breve fiaba, raccolta da Wolff nel suo prezioso testo:
    Un ricco signore aveva un figlio. Questo giovane si ammalò e suo padre fece venire molti medici per curarlo. Il padre credeva nell’arte dei medici, e pensava che essi ne sapessero di più delle vecchie raccoglitrici di erbe. Ma tutto ciò che fecero i medici fu vano. Il figlio allora disse: ‘Datemi da mangiare una cipolla del laghetto del bosco’. I medici non lo permisero e il povero ragazzo morì. Dopo la sua morte, i medici gli aprirono lo stomaco e vi trovarono una massa dura come un sasso. Il padre la prese per avere un ricordo di suo figlio e si fece fare con questa un manico per coltello. Una volta, mentre tagliuzzava una cipolla come quella desiderata dal figlio, all’improvviso il manico del coltello sparì. Allora l’uomo comprese che con la cipolla egli avrebbe potuto salvare il figlio.” (Wolff, op. cit., pag. 19)
    Questa storia, oltre a mettere in luce il passaggio che dalle antiche tradizioni medicinali, affidate alle sagge “raccoglitrici di erbe”, portò alla moderna scienza medica – la quale soprattutto all’inizio si rivelò non solo inutile, ma insensata ed estremamente dannosa per coloro che così spesso ne furono vittime – rivela il benefico potere delle cipolle magiche, che fanno “scomparire” certi mali, altrimenti incurabili con qualsivoglia medicina.
    Considerando il significato simbolico della fiaba, si potrebbe ipotizzare che le malattie su cui agiscono i doni della principessa non siano quelle comuni, ma quelle che affliggono lo spirito, simbolicamente rappresentate come masse scure, pesanti e soffocanti, che però svaniscono come nebbia al sole se solo vengono toccate dalle influenze benefiche della Natura.

    9. Citazione da Claudio Cima, Sui sentieri delle leggende, pag. 153. La leggenda narra che ci fu un tempo in cui nell’antico popolo delle betulle nascevano moltissime bambine, e nessun maschio. La regina era molto preoccupata, e avrebbe voluto dare alla luce un erede per suo marito, ma quando partorì una principessa decise che era arrivato il momento di tener consiglio con tutte le altre donne del popolo, per decidere cosa avrebbero potuto fare per assicurare la sopravvivenza della tribù. All’assemblea femminile venne invitata una maga, la quale decretò che tutte le madri con troppe figlie avrebbero dovuto portarle all’ombra del monte Serla in una notte di luna, e avrebbero dovuto lasciarle nel grande prato dove scorreva il gorgogliante ruscello Bruckele.
    Così fu fatto, le bambine furono lasciate nel punto predetto, e non appena sorse la Luna la maga le raccolse e le portò via con sé.
    Al suo ritorno, le madri vollero sapere che cosa ne era stato delle loro figliolette, e lei rispose che erano state tutte affidate alla buona Samblana, e che avrebbero ben dovuto rallegrarsi, perché da quel giorno al loro popolo era destinata la nascita di molti maschi.
    Quella notte la regina e la maga si fermarono a dormire poco distante dal grande prato, nel rudere di un castello abbandonato i cui proprietari si erano estinti per mancanza di eredi. Quando sorse il mattino, le due donne uscirono dalle vecchie mura, e guardando avanti a sé rimasero senza parole… Sul prato erano sbocciati migliaia di bellissimi colchici rosa. La maga, allora, disse che quei magici fiorellini erano le Mirandoles della Samblana, e che in essi vivevano le anime delle figlie del popolo delle betulle.



    10. Vedi Adriano Vanin, I popoli delle Dolomiti

    11. Queste capacità magiche erano appartenute sin dai tempi più remoti alle sacerdotesse e alle sciamane di tutto il mondo, come dimostrano diversi studi sull’argomento.

    12. L’Antelao è un monte ben noto per i suoi tremendi temporali, le sue violente bufere di neve e le molte frane, che più di una volta precipitarono a valle sotterrando un paese intero. Per questo, nella leggenda, l’aiuto delle Yméles è fondamentale per salvaguardare la vita degli uomini e delle greggi.

    13. Il grandissimo avvoltoio che compare come “l’ombra” nella leggenda delle Yméles, è il Gypaetus barbatus, ovvero il Gipeto, chiamato anche Avvoltoio barbuto o, appunto, Avvoltoio degli agnelli.
    Questo uccello vanta un’apertura alare di quasi tre metri, ha gli occhi rossi e una sorta di barba sotto al becco. La femmina è addirittura più grande e temibile del maschio.
    Il suo aspetto è alquanto inquietante, e tenendo in considerazione la sua grandezza non stupisce il fatto che fosse molto temuto. Nonostante questo, la sua alimentazione consiste quasi esclusivamente di animali già morti e soprattutto di ossa. Il suo stomaco produce infatti succhi gastrici talmente potenti da poterle digerire. Non riuscendo però a spezzarle col becco, il gipeto le getta sulle rocce, lasciandole cadere da grandi altezze, così da frantumarle e poterle poi consumare facilmente.



    Giunto quasi alla completa estinzione nell’Ottocento, quando moltissimi esemplari vennero uccisi, negli ultimi tempi si sta per fortuna reintegrando, e per la sua protezione i luoghi in cui nidifica vengono tenuti rigorosamente segreti.
    Nelle Dolomiti il gipeto rappresentava l’animale totemico dei popoli predatori e aggressivi, e veniva invocato prima di compiere assalti, saccheggi e battaglie. Anche il popolo dei Fanes, in origine pacifico e rappresentato totemicamente dalla mite marmotta, lo assunse come nuovo totem quando divenne più battagliero e violento. (Vedi Adriano Vanin, Il regno dei Fanes- Avvoltoio)

    14. Questa particolare cura che le messaggere offrivano a nome della Samblana, nonché il potere magico delle cipolle della principessa, potrebbero suggerire una sua particolare apprensione nei confronti di coloro che venivano minacciati dalle illusioni, ovvero la sua premura di risvegliarli dai malvagi sortilegi che annebbiano i pensieri e fanno perdere la limpida e profonda consapevolezza della realtà.

    15. A tal proposito dice Wolff: “Dell’origine antica del racconto è testimone già la “s” finale del plurale ladino che non s’incontra più già da tempo nei dialetti intorno al lago di Garda.” (Wolff, op. cit., pag. 25)

    16. Questa breve variazione del mito ricorda la figura della Dama del Lago e quella delle antiche Fate che abitavano sotto le acque di laghi e pozzi, emergendo per offrire i loro consigli agli uomini che li meritavano. Anche Frau Holle, l’antica Dea dell’inverno germanica, che portava la neve sulla terra sbattendo vigorosamente il suo soffice piumone, abitava in un bellissimo regno celato oltre le acque di un pozzo o di un lago.

    17. Le Figlie del Sole erano la Soreghina, il cui nome significa “raggino di Sole”, Elba e Donna Chenina. Le loro leggende sono raccolte in Karl Felix Wolff, I monti pallidi, Cappelli Editore.
    Nella storia della Soreghina si trova un riferimento alla Samblana molto bello: “Il grande Vernel era avvolto in un così pesante mantello di neve, che avresti potuto crederlo il trono della Samblana, la maestosa regina dell’inverno che abita sulle alte montagne ghiacciate, ogni anno sopra una cima diversa.” (I monti pallidi, op. cit., pag. 167)

    18. Wolff, op. cit., pag. 24


    Fonti

    Rododendri bianchi delle Dolomiti, Karl Felix Wolff, Cappelli Editore, Bologna, 1993
    I monti pallidi, Karl Felix Wolff, Cappelli Editore, Bologna
    Sui sentieri delle leggende. Itinerari scelti nei luoghi delle leggende dolomitiche, Claudio Cima, Edizioni Mediterranee, Roma, 1992
    Leggende delle Alpi, Maria Savi-Lopez, Editrice Il Punto, Torino, 2007
    Entità fatate della Padania, Alberta Dal Bosco e Carla Brughi, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano
    Fiabe d’Inverno. Fiabe e leggende delle Alpi, dell’Europa centrale e orientale e del grande Nord. Tradotte, narrate e illustrate da Maria Paola Asson, Edizioni Cierre, Sommacampagna, 2011

    Il regno dei Fanes, di Adriano Vanin
    L’albero della fiaba, di Maria Paola Asson
    Leggendiario

    Immagine 1: Snow Queen, di Mairin-Taj Caya
    Le foto appartengono ai rispettivi autori.


    La Samblana, principessa del bianco inverno :: Il Tempio della Ninfa :: antiche voci dal bosco...
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

 

 
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