La ricetta geniale di Letta. Più spesa e più tasse | L'intraprendente
La ricetta geniale di Letta. Più spesa e più tasse
Mentre la recessione morde il Nord, a Roma si progetta di assumere 150mila nuovi dipendenti pubblici, si aumenta l'Iva e si pensa di mantenere l'Imu. Se questo è il governo che doveva farci uscire dalla crisi...
di Matteo Borghi
Quando Enrico Letta ha giurato di fronte al capo dello Stato, gli obiettivi del governo di larghe intese sembravano chiari: riduzione di una tassazione, che ha raggiunto livelli tragicomici, e di una spesa pubblica ormai folle. Si trattava di priorità che avevano – come sottotesto non dichiarato – l’idea di dare un po’ di fiato a quel Nord produttivo che, fra pur fra le mille difficoltà, è ancora l’unico motore trainante dell’Italia in declino. Del resto nessuno, ormai, neppure gli ex veterocomunisti più incalliti – non solo Stefano Fassina che ha giustificato l’«evasione di sopravvivenza» o all’ex no global Luca Casarini che oggi lavora a partita Iva e dice «noi imprenditori siamo i veri sfruttati» – dice che, dalla crisi, si può uscire con più Stato di quanto c’è già. Nel Paese più socialista d’Occidente anche gli statalisti più incalliti sono costretti, di tanto in tanto, a dirsi un po’ liberali. Questo a parole. Peccato che poi, all’atto pratico, le ricette messe in campo siano sempre le stesse: più contributi improduttivi (come quel miliardo e mezzo dato pochi mesi fa come sempre al Mezzogiorno), spesa pubblica e dunque – ovviamente – nuove tasse per finanziarla. L’ultimo esempio di questo cortocircuito suicida è arrivato ieri quando sul tavolo del Consiglio dei ministri è arrivato il decreto del ministro della Pa Giampiero D’Alia sulla razionalizzazione e la stabilizzazione del precariato nella pubblica amministrazione. Un provvedimento – la cui approvazione è rimandata a lunedì ma su cui si è già raggiunto un accordo tecnico e politico sul contenuto – che contiene le stesse ricette stataliste che ci hanno portato nel baratro in cui ci troviamo: nuove assunzioni nel pubblico per controbilanciare la diminuzione di offerta nel privato. Parliamo di un esercito di 150mila persone (fra burocrati, insegnanti, vigili del fuoco, ausiliari del traffico etc) che, a breve, entrerà a sotto l’ala protettiva di mamma Stato. Tutta gente idonea, per carità, che è titolata per entravi, in quanto vincitrice di un concorso. Peccato che nessuno abbia il coraggio di dire una verità palese, sotto gli occhi di tutti: in Italia i dipendenti pubblici sono troppi e, soprattutto, costano troppo. Basti pensare che, fra il 2001 e il 2009, pur diminuendo del 3% (attestandosi così a 3,5 milioni, sempre tanti) la spesa per il loro mantenimento è aumentata di 39,4 miliardi di euro (+29,9%). Un onere ricaduto, come sempre, sugli imprenditori, le partite Iva e i dipendenti privati che – al contrario di loro – non hanno potuto beneficiare di aumenti maggiori introiti o aumenti salariali, anzi semmai hanno dovuto subire una contrazione generalizzata dei guadagni. In tutto gli statali ci costano oltre 172 miliardi di euro, l’11,2% del Pil, ovvero il 25% del bilancio statale. Secondo i dati del ministero delle Finanze dal 1980 al 2010 gli stipendi sono cresciuti mediamente del 7% l’anno (vedi rapporto Mef p.98). Eppure si sceglie di assumerne altri, sperando che ciò risolva la crisi (almeno quella di sfiducia nei confronti della politica), con un doppio costo per i contribuenti: lo stipendio dei nuovi e il prepensionamento dei vecchi che devono lasciare il posto. I nostri politici, insomma, si comportano come il matto, quello che, secondo una definizione dell’economista Arthur Laffer, «fa sempre le stesse cose sperando che esse producano risultati differenti». Creare nuova spesa pubblica produrrà sempre gli stessi effetti: nuove tasse come l’aumento dell’Iva, confermato ad ottobre, e l’Imu che continueranno a pagarla, maggiorata, ben il 30% degli italiani più “ricchi” (tutti ovviamente miliardari). Ora non diciamo per forza di fare come Reagan che, in un sol colpo, ha licenziato 11mila controllori di volo che – con la complicità dei sindacati – ricattavano il Paese. Per ridurli, da noi, basterebbe fare una cosa semplicissima: non assumerne di nuovi e spostare chi rimane dagli uffici dove c’è esubero (e sono tanti) a quelli dove c’è bisogno. Se ciò non bastasse si potrebbe adottare un altro criterio semplicissimo: la cassa integrazione. Invece si preferisce tenerli buoni visto che – specie per la sinistra – sono un bel serbatoio di voti.