Benetti irlandesi, sono proprio come i lombardi. In più liberali
di Mario Taccone
«L’Irlanda e la Lombardia sono sorelle senza saperlo» ripeteva spesso Carlo Linati, scrittore comasco innamorato di quei verdi pascoli e di quelle scogliere sull’oceano, e d’altronde un famoso editore dublinese emigrato dall’Alto Lario, Vincent Caprani (affettuosamente ritratto da Joyce nel suo Ulisse), sosteneva che in fondo «gli irlandesi sono dei lombardi che non si preoccupano della pioggia». Le due citazioni rimarcano un’affinità evidente, sensibile, che si può rintracciare nel comune substrato celtico (a volte banalizzato da certa politica tinta di verde troppo acceso, a rilevare – e uso il verbo fuori da ogni facile retorica nazionalista – che un bergamasco è più simile a un irlandese che a un fiorentino) ma facilmente deducibile anche a livello di costumi, di attitudini, di modelli di sviluppo.
Il confronto è indebito solo in apparenza, perché ormai da molti anni l’Irlanda si è scrollata di dosso i suoi ritardi e i suoi antichi complessi d’inferiorità (quella logora iconografia macchiettistica di vecchie con lo scialle in testa, emigranti al porto, pastori rossicci con la bocca piena di patate) ed è diventata una nazione moderna e avanzata, molto simile al futuristico profilo metropolitano della nostra regione.
La crisi, ad esempio, infuria anche tra arpe e folletti, ma l’Irlanda, dopo una profondissima recessione negli anni ’80, ha saputo avviare una lunga fase di ripresa, convogliata poi in un vero e proprio boom. “Tigre celtica” è la definizione che ha iniziato a circolare ai piani alti delle banche, definizione sorprendente per un paese che, fino a qualche tempo fa, sembrava arrancare in una marginalità senza sbocchi.
Come ci è riuscita? Applicando i più elementari principi del liberismo, detassando gli utili delle imprese, snellendo una burocrazia sclerotica e farraginosa. Ha applicato una bassissima tassazione delle imprese che, aggirandosi intorno al 12%, oggi rimane la più bassa d’Europa. È arrivata a detassare, caso unico al mondo, persino i diritti d’autore: accuse di concorrenza sleale sono piovute dai quattro angoli del pianeta, ma gli irish hanno fatto di testa propria, e sono diventati il primo esportatore mondiale di software e di servizi del terziario avanzato. Una piccola Silicon Valley trapiantata da questa parte dell’Atlantico, e capace di vendere microchips insieme a maglioni di lana e latte di pecora.
C’è poi un altro fattore interessante, rintracciabile appena sotto le percentuali esatte delle statistiche, e riguarda un atteggiamento culturale tout-court verso se stessi e la valorizzazione delle proprie risorse. Un elemento fondamentale, nella lenta ma imperiosa renaissance gaelica, è legato alla capacità di fare sistema dei propri valori, definire e rendere riconoscibile il marchio del territorio, e prendere una cultura generalmente defilata e periferica (capace di picchi straordinari, si pensi a Wilde e Beckett, ma per il resto limitata all’intellettualistica riesumazione di antichità gaeliche, e ad un folklore popolare ricco ma superficiale) ed elevarla ad identità contemporanea perché viva nel presente.
Efficientissimi i trasporti, impeccabili i servizi, tutta una rete di itinerari, di percorsi, di bellezze artistiche e naturalistiche letteralmente “cavate fuori” da una politica in grado di farlo. Il tutto senza la paura ipocrita dell’indotto e del commercio, senza quella cultura filistea e snob che si sente svilita se fa guadagnare qualche euro.
Un solo esempio: quando andai a Dublino visitai la fabbrica della Guinness, la celeberrima birra scura. Ora, la Guinness è molto buona, forte, aromatica (e io non riesco mai a tenere il gomito basso!) ma è pur sempre solo una birra. Gli irlandesi ci hanno cucito addosso un vastissimo progetto di marketing, hanno saputo creare un immaginario, una rete di associazioni, capaci di trasformare una pinta in un’esperienza, in uno status. Questa non è furberia pubblicitaria, è amore per se stessi e per le proprie capacità promozionali e imprenditoriali. Quelle che, forse, potrebbe insegnarci la “sorella” Irlanda.
Benetti irlandesi, son proprio come i lombardi. In più liberali | L'intraprendente
Bargniff e compagnia briscola: breve bestiario del folklore lombardo
di Andrea Panigada
Sott al pont de ciff e ciaff, là ghe sta Bargniff-bargnaff!
(dialetto milanese)
Le figure del nostro folklore non hanno nulla da invidiare a quelle irlandesi, sia per numero che per varietà, e anche nella sola Lombardia ne abbiamo una discreta schiera...
Questa breve e tutt’altro che esaustiva rassegna inizia proprio dal Bargniff: chi è costui? È un essere mitico che abita sotto i ponti, nelle acque limacciose di Po e Ticino, segnatamente tra Milanese e Pavese. Coloro che hanno avuto la sventura di avvistarlo, lo descrivono in genere come un enorme rospo dagli occhi di fuoco, oppure come un bue. Il Bargniff è un individuo dal quale guardarsi bene. Meglio non aggirarsi lungo acquitrini e corsi d’acqua durante la notte: potreste incontrarlo e lui vi proporrebbe uno dei suoi quasi insolubili indovinelli. Se non saprete rispondere, il Bargniff vi si scaglierà addosso e vi trascinerà nelle gelide acque notturne, annegandovi, mentre lui se la sghignazza furiosamente. E’ difficile, se non impossibile, risalire alle origini certe di questo come di tutti gli altri miti lombardi; sicuramente sono antichissimi e risalgono spesso a prima di Cristo. A volte sono proprio frutto di sincretismo tra paganesimo e religione cristiana.
Il caso più eclatante è quello delle streghe, diffusissime in tutta la Lombardia, che hanno spesso un tratto distintivo: adorano la Grande Madre della Natura, divinità di origine chiaramente pagana – di cui sono le sacerdotesse – identificata poi dalla Chiesa, per comodità, in Satana...
L’arco alpino lombardo abbonda di personaggi decisamente particolari, tutti tristemente famosi e tutti con abitudini notturne, ovviamente. Il Tettavach è uno strano rettile-chimera, un lungo e grosso serpente nero in grado di rubare il latte delle vacche e addirittura di introdursi nelle culle dei neonati con lo stesso scopo.
Suo parente stretto è il Tatzelwurm, un lucertolone con due o quattro zampe, la coda tozza e le stesse abitudini alimentari del suo consimile. Qualcuno sostiene che esista veramente e c’è anche una foto –finta– che lo ritrae, scattata nel 1934 da un tale Balkin.
La Cavra Besula è invece un enorme caprone dagli occhi iniettati di sangue che si annuncia con un terrificante verso e rapisce, con intento di cibarsene, i pastori che hanno abbandonato il loro bivacco.
In valle Camonica ogni anno si svolge la tradizionale cattura del Badalisc, un essere dalla grossa testa, ricoperto di pelle di capra con bocca enorme e, ancora una volta, immancabili occhi fiammeggianti. Sempre in Val Camonica, ma anche nelle Valli Bergamasche e in Valtellina si aggirano i Confinati, anime di persone morte insoddisfatte, che sono state mandate al confino tramite un esorcismo in vallate laterali ed inospitali, in modo tale da non poter nuocere ai vivi.
La Lombardia orientale è invece la tradizionale dimora dello Squasc. Si tratta di un essere piccolo, peloso, fulvo, simile ad uno scoiattolo senza coda ma con volto antropomorfo. E’ una creatura meno spaventosa delle precedenti, in quanto solo in parte malvagio: metà Uomo Nero, perché spaventa i bambini, metà folletto per via dei suoi tiri birboni, riservati di preferenza alle belle ragazze.
Nel Lodigiano troviamo due miti al prezzo di uno: un drago che terrorizzava gli abitanti delle rive di un lago che non esiste più! Si tratta del Tarantasio, che infestava acque del lago Gerundo. Si nutriva essenzialmente di bambini, aveva un fiato pestilenziale con cui ammorbava l’aria e causava la terribile febbre gialla. Coltivava inoltre il discutibile hobby di affondare barche dopo averle opportunamente fracassate. La sua scomparsa è in qualche modo legata al prosciugamento del lago stesso: per alcuni uccisione e bonifica sono da attribuirsi a San Cristoforo, per altri all'imperatore germanico Barbarossa, per altri ancora al capostipite dei Visconti che adottò poi il drago nel proprio stemma gentilizio. La leggenda del drago del Lago Gerundio fu fonte di ispirazione per lo scultore Luigi Broggini che la prese a modello per ideare l'immagine del cane a sei zampe, marchio simbolo dell'Eni.
Un discorso a parte vale per il lupo, animale assolutamente reale, ma mitizzato per il terrore che incuteva nei tempi passati, al punto da alimentare fantasie e credenze. Nel XV secolo i comaschi pensavano che il lupo avesse una natura per cui «devora li cristiani», mentre nel corso del XVII secolo tra Varesotto, Bergamasco e Bresciano si contano svariate decine di aggressioni e di vittime dei lupi, al punto che da Milano si organizzò un esercito di 500 uomini armati di falci, tridenti e schioppi per cacciare la belva. Non stupisce quindi che nelle tradizioni popolari il lupo sia sinonimo di ferocia, o addirittura incarni qualcosa di malefico come i gatti e i cani neri. Da qui a ritenere che alcuni uomini potessero trasformarsi in lupi mannari per divorare bambini il passo è breve. Addirittura un filosofo, Pietro Pomponazzi (1462-1525), originario di Mantova, nel suo “De Incantationibus” sosteneva che le passioni umane avessero il potere di alterare i lineamenti, dando così un avallo “scientifico” alle credenze popolari in materia di licantropia.
In conclusione merita una citazione un diavoletto assolutamente insospettabile: Arlecchino. Dietro la popolare maschera c’è infatti un retaggio molto complesso; i suoi natali sono indiscutibilmente bergamaschi, ma il suo nome pare provenga da quello del diavolo francese Harlequin (alias Herlequin, alias Hellequin), capo addirittura di una propria squadra di demoni. Secondo altri, invece, il nome deriva da Erlenkönig, un folletto della mitologia scandinava.
Le sue più antiche origini sono da ricercarsi nella cultura celto-germanica, diffusa anche in Padania
"Caccia Selvaggia", un mito indoeuropeo
La magia di un corteo composto da elfi, guerrieri, animali, fate e folletti
Andrea Mascetti
In tutta Europa è diffusissimo il mito della "Caccia Selvatica", rappresentato nei racconti popolari come un grande corteo fatato composto, a seconda delle varianti locali, da anime di defunti, guerrieri caduti in battaglia, animali, elfi, fate, folletti e da mille altre creature che l'immaginario dell'uomo Europeo ha fatto propri.
Secondo la mitologia nordica è il potente dio Wotan (Odino) che precede la corsa degli spiriti e degli esseri fatati; è lui, il dio della guerra dei nostri antenati Longobardi, che corre nelle notti di tempesta in attesa del Ragnarokk, il tempo della fine del mondo. Anche di Re Artù si dice che guidi un esercito di guerrieri caduti fra i dolmen della Bretagna e, per rimanere nel campo della mitologia legata ai cicli del Graal, elementi analoghi li possiamo trovare in Goffredo di Monmouth, nella sua Vita Merlini, dove si narra di quando Merlino si presentò alle nozze della moglie Guandalina (che voleva sposarsi con un altro uomo), in groppa ad un cervo seguito da un armata di cervi, capre e daini.
Le più antiche radici di questo mito vanno ricercate nella cultura celto-germanica che tanto peso ha avuto nella definizione etno-culturale dei nostri popoli e del nostro patrimonio di miti e leggende. Il mito della caccia selvaggia, in particolare, era diffusissimo in Scandinavia, Inghilterra Austria, Germania, Svizzera e, naturalmente, nelle nostre zone alpine e prealpine.
In Valle d'Aosta molte leggende parlano di questi cortei di spiriti che attraversano ghiacciai e valli nelle notti; nella Valtournanche, ad esempio, abbiamo due testimonianze interessanti. La prima narra che, sul ghiacciaio del Teodulo, si può scorgere, nelle notti di luna piena, una strana processione di anime guidate da un alfiere che conduce lo spettrale corteo da un capo all'altro della distesa gelata; la seconda leggenda segnala, sulla Gobba di Rolen, la presenza delle Fate della Neve che di notte giocano a rincorrersi per tutta l'estensione della colata di ghiaccio con le sembianze di fuochi luminosissimi.
In Lombardia la "cascia selvadega" è presente in diverse episodi che vedono coinvolti uomini famosi e poveri pastori. Nel comasco, ad esempio, troviamo la leggenda relativa all'edificazione di San Pietro al Monte, relativa al voto del principe longobardo che recuperò la vista bagnandosi ad una fonte presso Civate, dopo essere stato accecato per aver inseguito ostinatamente un cinghiale diabolico.
In Piemonte si ricordano i "canett" del cuneese che corrono nel circondario di Villar S.Costanzo nella notte tra il 31 Ottobre e il primo Novembre (la notte che per i Celti coincide con la festa di Samonios, il capodanno celtico che permetteva il passaggio dal modo degli spiriti a quello dei viventi) provocando una canea infernale. Sono tre le specie che vengono ricordate: alcuni lanciano grida più profonde e sono grossi animali più neri della notte, altri sono di media taglia e di colore grigio come le nuvole cariche di pioggia e gli ultimi infine sono piccoli e bianchi, simili ai cuccioli.
Nella Valle di Challan, troviamo una cacciatrice selvaggia: è una capra che porta al collo delle campanelle che risuonano in modo lugubre, mentre erra di colle in colle aggirandosi in special modo sui lastroni di ghiaccio o sulla neve.
Nella bergamasca, si chiama ancora "cascia morta" o più semplicemente "caccia del diavolo". La tradizione è particolarmente viva in Val di Scalve e in Val di Gandino dove con questi appellativi si indicano i fantasmi dei cacciatori invisibili che, se vengono chiamati a gran voce dagli increduli o dagli incauti, depositano, come prova della loro esistenza, dei pezzi di carne sulla soglia delle abitazioni, come nel caso di un'altra leggenda della Val Cavargna (tornando per un attimo nel comasco), nella quale si racconta di quando una valligiana un po' troppo intraprendente, al passare del corteo di spiriti ed esseri fatati, chiese: "O casciaduu de la bona cascia, demm un poo de vostra cascia"; al mattino, davanti alla porta di casa, trovò solo brani di carne putrefatta.
Un poeta, Bartolo Belotti, così descrive la "cascia" che corre nei pressi del paese di Spino, località vicino a San Pellegrino: "Negra di pelo, orribile, con gli occhi fiammeggianti, / vedevasi una cagna, /fuggire velocissima ululando; /e dietro a essa una affannosa mutadi segugi fantastici, e dovunque / voci d'inferno e stridere di catene, /che l'eco ripetea di balza in balza".
Sempre sulle prealpi lombarde è diffusa la versione cristianizzata della "masnada", dove si narra di una folla di cani invisibili che altro non sarebbero che le anime dannate di cacciatori morti in peccato mortale i quali, nel giorno di S.Brigida (che coincide con la festa celtica di Imbolc), che una volta era il giorno di apertura della stagione di caccia, si radunavano in una casupola diroccata e la sera, dopo l'Angelus, sguinzagliavano i loro cani per le ampie vallate e per tutta la notte se ne andavano di roccia in roccia a fischiare e a urlare per richiamare quella scatenata folla di animali dispersi lungo i monti.
Sempre in Lombardia, presso Como, si narra che in occasione dell'ultima visita di Eugenio IV a Firenze furono visti più di 4000 cani che correvano verso il nord; questi precedevano una immensa quantità di bestiame dietro al quale venivano una moltitudine di uomini armati a piedi o a cavallo, alcuni senza testa, altri con teste appena visibili; infine, dietro al singolare corteo, apparve un gigantesco cavaliere subito seguito da un altro corteo similare.
A Bagolino, presso Brescia, le edicole funerarie poste sulla parete esterna del cimitero proteggono il viandante e sbarrano la strada alle streghe e ai morti cattivi che cavalcano come forsennati sopra un cavallo bianco seguiti da cani neri. Fuori dal paese li si sente abbaiare nella selva. Sono chiamati Baieti, strani e lugubri latrati che si odono particolarmente nelle notti estive.
Ma è nel Veneto che troviamo le tracce più significative di questo mito indoeuropeo; secondo la tradizione, infatti, fu il Concilio di Trento che confinò i vecchi idoli pagani della caccia selvaggia nella splendida Val di Genova. Quivi sorgono tre chiese, edificate a quel tempo, che ne bloccano l'uscita: S.Stefano, al centro della vallata; S.Martino, in alto vicino alle grandi cime; S.Giuliano, in fondo dove la montagna è meno aspra. Infine una quarta chiesa dedicata a San Virgilio, tiene a bada i demoni che premono da Nambrone a Nambino. Di notte però, quando l'oscurità avvolge le montagne, le potenze oscure lasciano libero sfogo a tutta la loro esuberanza e, da una parte all'altra della valle, è tutto un agitarsi di presenze inquietanti e fantastiche che scorrazzano fino alle prime luci dell'alba. Così non è difficile udire, specialmente nelle dodici notti che vanno da Natale all'Epifania, i misteriosi richiami dei cagnolini di Altrech che abbaiano da un versante all'altro della montagna con echi che si spengono in lunghi acuti.
Altri personaggi della mitologia alpina, per metà animali e per metà diavoli, che possono in qualche modo ricondurci alla caccia selvaggia, sono il famoso "Ce de Lu" (Capo dei Lupi) conosciuto in tutto il sud Tirolo e specialmente nella Valle Udai e nella Val Duron; ed anche tale "Zampa de Gal", che sembra faccia buona guardia all'ingresso della Val di Genova.
Di queste e di molte altre leggende legate al mito della Caccia Selvaggia troviamo indicazioni interessanti in almeno due libri che vogliamo segnalare all'attenzione dei lettori: il primo è "La Caccia Selvaggia" di Dario Spada (Edizioni Barbarossa), mentre il secondo è "Leggende delle Alpi" di Maria Savi-Lopez (Edizioni Piemonte in Bancarella). Ma mille altre leggende sparse sui nostri monti e nelle nostre campagne attendono solo di essere riportate al nostro immaginario per permetterci di riudire quegli antichi miti che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità e di cui è nostro compito conservare il calore ed il senso più profondo, per non dimenticare mai chi siamo e da dove veniamo.
"Caccia Selvaggia", un mito indoeuropeo
Quaderni padani n.3
Alberta Dalbosco e Carla Brughi
Entità Fatate della Padania - Edizioni della Terra di Mezzo
Recensione di Ottone Gerboli
Nella edizione originale del diffusissimo e divertente libro sugli gnomi di Wil Huygen e Rien Poortvliet, la cartina della diffusione europea delle simpatiche creature le dava per presenti nella penisola solo attorno al Monte Bianco e in alcune valli del Tirolo meridionale. Nella edizione italiana essi erano invece segnalati un po’ dappertutto, ivi comprese alcune isole mediterranee. Se la seconda versione era dettata da evidenti ragioni commerciali, la prima risentiva di un luogo comune assai diffuso all’estero ma generato in Italia e secondo il quale la romanizzazione prima e la cristianizzazione dopo avrebbero completamente ripulito tutta la penisola da ogni traccia di culture preesistenti (soprattutto di quella celtica) e di tutti i loro corollari di presenze fantastiche.
Il “piccolo popolo” ed ogni altra entità fatata, panteistica o di sacralizzazione della natura avrebbero cioè abbandonato le nostre terre cacciati dal cristianesimo, dall’illuminismo e dal positivismo. La luce mediterranea avrebbe così diradato le brume delle foreste nordiche dove si annidano esseri e mondi strani. La ricchezza della mitologia tradizionale e della cultura dell’immaginario popolare europeo si sarebbe ridotta a sole fiabe moraleggianti o a storie “alla De Amicis”, edificanti, melense e patriottiche: agli gnomi ed agli elfi si è sostituito il lugubre e sfigato Pinocchio.
Ma si tratta evidentemente solo di una situazione di facciata giacchè - sotto sotto - il piccolo popolo non ha mai veramente abbandonato queste terre e resiste alla “luce della civiltà mediterranea”, proprio come le lingue locali e il colore degli occhi della nostra gente.
Lo dimostra questo interessante lavoro di due appassionate studiose di cultura padana. In realtà esso è qualcosa di più di una affascinante lettura, è uno studio serio di “catalogazione” delle entità presenti nella tradizione e nell’immaginario popolare delle varie contrade padane. Ne risulta un elenco molto lungo e minuzioso di creature dai nomi bizzarri e dalle abitudini stravaganti, ne risulta un panorama estremamente variegato che tocca tutte le parti della terra compresa fra le Alpi e gli Appennini.
Anche al di sotto dell’apparente leggerezza della narrazione, traspaiono il preciso raccordo e la derivazione dalla mitologia più “seria”, di cui queste creature sono la deformazione o la trasformazione popolare sopravvissuta a secoli (ormai millenni) di tentativi - sistematici e non - di cancellazione, di demonizzazione o di scherno.
Certo esse dimostrano una forza di persistenza incredibile se si pensa alle legioni di divinità mediterranee di importazione sbattute come extracomunitari nelle nostre campagne e nelle nostre vallate (ma fortunatamente non sopravvissute alle asperità del nostro clima) e agli eserciti di preti, esorcisti, predicatori e missionari che ne hanno distrutto i luoghi di culto, ne hanno ridicolizzato o colpevolizzato le immagini e perseguitato i credenti.
Grandi foreste sono state tagliate, pietre sacre ridotte a davanzali, montagne ri-sacralizzate, fiumi cementati e un intero habitat (fisico prima ancora che culturale) è stato massacrato, ma queste creature - evidentemente dotate di una forza incredibile -
resistono nei recessi del territorio e delle menti degli uomini.
La loro forza sta proprio nel legame con la natura e con la cultura popolare. Esse sono emanazione della natura e dello spirito popolare, sono parte di essi, e riacquistano inevitabilmente vigore con la rinascita dell’amore e del rispetto per la natura e per la propria identità. Gli esseri fatati proteggono la natura e puniscono gli uomini quando la trattano male: nani, fate, folletti, uomini selvatici, anguane, gigiatt e servanot sono amici dell’uomo quando questi lo è della natura e - in caso contrario - gli organizzano ritorsioni tremende.
Essi sono emanazione delle più profonde radici culturali dei nostri popoli, e non è un caso che somiglino tanto ai loro omologhi e parenti d’oltralpe.
Il loro riconoscimento (nel senso di “conoscere di nuovo”), il loro ritorno di famigliarità costituisce un altro tassello della ricostruzione dell’identità di una terra oppressa anche nella dimensione fantastica da satiri mediterranei, topi americani e da puffi televisivi.
Ancora una volta ritiratisi nelle campagne più lontane, sui monti più alti e nelle vallate più remote, i nostri si sono salvati, ed ora tornano a ripopolare il paese. Il loro ritorno è il nostro ritorno alle origini ed alla cultura dei padri, la loro libertà è la nostra.
Anzi, la loro stessa vitale esistenza costituisce per noi una bandiera di libertà ed uno sprone: questo paese non morrà mai finchè anche il suo piccolo popolo vivrà.
Questa è anche la battaglia dei guriuz, dei mazapegul, dei bargniff, e di tutte le altre entità fatate e leggendarie che popolano (e rendono ancora più sacra) la Padania, contro fauni lascivi e mediterranei e contro l’apolide schiera delle ossessive e tecnologiche creature che ci invadono dagli schermi televisivi.