Infibulazione: argomento di cui non si sente quasi più parlare ma che, purtroppo, è una pratica disumana ancora in ”voga”.

La parola deriva dal latino “fibula”, spilla, ed indica una procedura mutilativa atroce praticata sulle bambine di circa 6/7 anni. In pratica, con mezzi di fortuna come: forbici, lamette e coltellacci, vengono rimossi il clitoride, le grandi labbra e le piccole labbra; viene successivamente cucita la vulva in modo da lasciare solo un piccolissimo foro per permettere la minzione. Inutile dire che non viene utilizzato alcun tipo di anestetico.

L’infibulazione viene praticata ancora in circa 40 paesi, in particolar modo in Africa e in alcune zone dell’Asia sud-orientale; paesi in cui la donna viene considerata alla stregua di un oggetto. Il suo scopo è quello di preservare la verginità della donna fino alla prima notte di nozze e, ancora più raccapricciante, di rendere il primo rapporto sessuale una vera tortura in modo da gratificare il delirio di potenza del maschio che schiavizza anche sessualmente la donna. Dopo il parto, il procedimento viene ripetuto per ripristinare la situazione prematrimoniale.

Le conseguenze di questa pratica sono devastanti, innanzitutto per la psiche delle donne, ma anche per il fisico; a parte l’impossibilità di provare alcun tipo di piacere durante il rapporto sessuale, appare evidente che le donne sono esposte a infezioni di vario tipo, cistiti e ritenzione idrica.

Inoltre, ci sono complicazioni anche durante il parto: il bambino, per uscire dall’utero materno, deve passare attraverso un tessuto poco elastico perchè cicatrizzato, ciò aumenta la probabilità che il parto si protragga nel tempo riducendo l’apporto di ossigeno al nascituro.

Attualmente sono circa 2 milioni e mezzo le bambine mutilate ogni anno. La nostra indifferenza su questo argomento ci rende colpevoli tanto quanto coloro che praticano ancora questa atrocità.
Prendere coscienza del fatto che questa pratica è ancora così diffusa, diffondere queste informazioni, dare il supporto a chi si impegna per opporsi a tradizioni che feriscono le donne nel corpo e nell’anima, è un atto di responsabilità, oltre che di compartecipazione.