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Discussione: Gianfranco Miglio

  1. #1
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    Predefinito Gianfranco Miglio

    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
    Tacito, Agricola, 30/32.

  2. #2
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    Predefinito Re: Gianfranco Miglio

    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
    Tacito, Agricola, 30/32.

  3. #3
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    Predefinito Re: Gianfranco Miglio

    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
    Tacito, Agricola, 30/32.

  4. #4
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    Predefinito Re: Gianfranco Miglio

    Gianfranco Miglio - Wikipedia

    Gianfranco Miglio (Como, 11 gennaio 1918Como, 10 agosto 2001) è stato un giurista, politologo e politico italiano.
    Da sempre sostenitore di ipotesi di trasformazione dello Stato italiano in senso federale o, addirittura, confederale, fra gli anni ottanta e i novanta è stato considerato l'ideologo della Lega Nord, in rappresentanza della quale fu anche senatore, prima di "rompere" con Umberto Bossi e dar vita alla breve stagione del Partito Federalista.

    Polo scolastico "Gianfranco Miglio" ad Adro.


    Costituzionalista e scienziato della politica, fu senatore della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
    Ha insegnato presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ove fu preside della Facoltà di Scienze politiche dal 1959 al 1988. È stato allievo di Alessandro Passerin d'Entrèves e Giorgio Balladore Pallieri, sotto la cui docenza si è formato sui classici del pensiero giuridico e politologico.

    I primi anni[modifica | modifica sorgente]

    Laureatosi in Giurisprudenza nel 1939 con una tesi sulle Origini e i primi sviluppi delle dottrine giuridiche internazionali pubbliche nell'età moderna, fu assistente volontario nella cattedra di Storia delle dottrine politiche, che d'Entreves tenne sino alla fine degli anni quaranta.
    Libero docente nel 1948, Miglio si dedicò negli anni cinquanta allo studio delle opere di storici e giuristi, soprattutto tedeschi: dai quattro volumi del Deutsche Genossenschaftsrecht che Otto Von Gierke scrisse tra il 1869 e il 1913, ai saggi di storia amministrativa di Otto Hintze, alcuni dei quali, negli anni seguenti, vennero tradotti in italiano dal suo allievo e ferrato germanista Pierangelo Schiera (O. Hintze, Stato e società, Zanichelli 1980).
    Fu di quegli anni l'incontro del giovane Miglio con l'immensa produzione scientifica di Max Weber: il professore comasco fu uno dei primi ad aver studiato a fondo Economia e Società, l'opera più importante del sociologo tedesco che era stata completamente trascurata in Italia.
    Sviluppo del lavoro scientifico[modifica | modifica sorgente]

    Miglio storico dell'amministrazione[modifica | modifica sorgente]

    Alla fine degli anni cinquanta, Miglio fondò con il giurista Feliciano Benvenuti l'ISAP Milano Istituto per la Scienza dell'Amministrazione Pubblica, ente pubblico partecipato da Comune e Provincia di Milano, di cui ricopri per alcuni anni la carica di vicedirettore. In un saggio memorabile intitolato Le origini della scienza dell'amministrazione (1957), il professore comasco descriveva con elegante chiarezza le radici storiche della disciplina. L'interesse per il campo della l'amministrazione era dovuto in quegli anni alle politiche pianificatrici che gli stati andavano conducendo per l'incremento della crescita economica.
    La Fondazione italiana per la storia amministrativa[modifica | modifica sorgente]

    Ben presto Miglio sentì tuttavia l'esigenza di studiare in modo più sistematico la storia dei poteri pubblici europei e, negli anni sessanta, costituì la Fondazione italiana per la storia amministrativa: un istituto le cui ricerche vennero condotte con rigoroso metodo scientifico. A tal proposito, il professore aveva appositamente preparato per i collaboratori della fondazione uno schema di istruzioni divenuto famoso per chiarezza e organicità. In realtà, fondando la F.I.S.A. Miglio si era posto l'ambizioso obiettivo di scrivere una storia costituzionale che prendesse in esame le amministrazioni pubbliche esistite in luoghi e tempi diversi: in tal modo egli sarebbe riuscito a tracciare una vera e propria tipologia delle istituzioni dal medioevo all'età contemporanea, al cui interno sarebbero stati indicati i tratti distintivi o, viceversa, gli elementi comuni di ogni potere pubblico. Ma v'era un'altra ragione che aveva indotto Miglio a studiare i poteri pubblici in un'ottica, come scriveva lui stesso, analogico-comparativa. Servendosi di un metodo scientifico che Hintze aveva parzialmente seguito nella prima metà del Novecento, il professore comasco intendeva definire l'evoluzione storica dello stato moderno, storicizzando in tal modo le stesse istituzioni contemporanee.
    Gli Acta italica[modifica | modifica sorgente]

    La fondazione pubblicava tre collezioni: gli Acta italica, l'Archivio (diviso in due collane: la prima riguardante ricerche e opere strumentali, la seconda dedicata alle opere dei maggiori storici dell'amministrazione) e gli Annali. Tra i più autorevoli lavori storici pubblicati nell'Archivio, si ricordano il volume sui comuni italiani di Walter Goetz e il famoso saggio di Pietro Vaccari sulla territorialità del contado medievale. Nella prima serie alcuni giovani studiosi poterono invece pubblicare le loro ricerche di storia delle istituzioni: Gabriella Rossetti, allieva dello storico Cinzio Violante, vi diede alle stampe un approfondito studio sulla società e sulle istituzioni nella Cologno Monzese dell'Alto Medioevo; Adriana Petracchi pubblicò la prima parte di un'interessante ricerca sullo sviluppo storico dell'istituto dell'intendente nella Francia dell' ancien règime; occorre inoltre ricordare il poderoso volume di Pierangelo Schiera sul cameralismo tedesco e sull'assolutismo nei maggiori stati germanici. Su tutt'altro piano si poneva invece la collezione della F.I.S.A. denominata Acta italica: al suo interno dovevano essere pubblicati i documenti relativi all'amministrazione pubblica degli stati italiani preunitari: è probabile che l'ispirazione per quest'ultima serie fosse venuta a Miglio dallo studio delle opere di Hintze: verso la fine del XIX secolo, lo storico tedesco aveva infatti scritto alcuni saggi sull'amministrazione prussiana pubblicandoli negli Acta borussica, un'autorevole collana che raccoglieva le fonti storiche dello stato degli Hohenzollern.
    L'edizione dei lavori della commissione Giulini[modifica | modifica sorgente]

    Tra i volumi degli Acta italica, occorre ricordare l'edizione dei lavori della Commissione Giulini curata da Nicola Raponi nel 1962, uno studio cui Miglio tenne molto e di cui si servì, molti anni dopo, per la stesura del celebre saggio su Vocazione e destino dei lombardi (in AA.VV. La Lombardia moderna, Electa 1989, ripubblicato in G. Miglio, Io, Bossi e la Lega, Mondadori 1994). La commissione - i cui lavori avevano avuto luogo a Torino dal 10 al 26 maggio 1859 sotto la presidenza del nobile milanese Cesare Giulini della Porta - aveva il compito di elaborare progetti di legge che sarebbero entrati in vigore in Lombardia nel periodo immediatamente successivo alla guerra. Cavour, che in quegli anni ricopriva la carica di primo ministro, voleva che il governo, nel sancire l'annessione dei nuovi territori al Piemonte di Vittorio Emanuele, mantenesse separati gli ordinamenti amministrativi delle due regioni, lasciando che in Lombardia continuassero a sussistere una parte delle istituzioni austriache esistenti.
    Il saggio Le contraddizioni dello stato unitario[modifica | modifica sorgente]

    Nel saggio magistrale Le contraddizioni dello stato unitario (1969) scritto in occasione del convegno per il centenario delle leggi di unificazione, Miglio prese in esame gli effetti devastanti che l'accentramento amministrativo aveva provocato nel sistema politico italiano. La classe politica italiana non fu capace di elaborare un ordinamento amministrativo che consentisse allo stato di governare adeguatamente un territorio esteso dalle Alpi alla Sicilia. Ricorrendo a una felice similitudine, il professore scrisse che la scelta di estendere le norme piemontesi a tutta Italia fu come "far indossare a un gigante il vestito di un nano". Secondo Miglio, i nostri "padri della patria", spaventati dalle annessioni a cascata e dalle circostanze fortunose in cui era avvenuta l'unificazione, preferirono conservare ottusamente gli istituti piemontesi, costringendo la stragrande maggioranza degli italiani ad essere governati da istituzioni che, oltre ad essere percepite come "straniere", si rivelarono palesemente inefficienti.
    Nel saggio, Miglio aveva però messo in luce un altro dato fondamentale; il professore scrisse che il paese, quantunque fosse stato formalmente unito dalle norme piemontesi, continuò nei fatti a restare diviso ancora per molti anni: le leggi, che il Parlamento emanava dalle Alpi alla Sicilia, venivano infatti interpretate in cento modi diversi nelle regioni storiche in cui il Paese continuava, nonostante tutto, ad essere naturalmente articolato. Era il federalismo che, negato alla radice dalla classe politica liberal-nazionale in nome dell'unità, si prendeva ora la rivincita traducendosi in forme evidenti di "criptofederalismo".[senza fonte]
    Miglio e Otto Brunner[modifica | modifica sorgente]

    Furono inoltre fondamentali, nella formazione del professor Miglio, i lavori dello storico austriaco Otto Brunner: di questo eminente studioso di storia medievale Miglio non solo fece tradurre svariati saggi (O.Brunner, Per una nuova storia costituzionale e sociale, Vita e Pensiero 1970), ma promosse anche la pubblicazione dell'opera monumentale Land und Herrschaft: in questo lavoro - uscito per la prima volta nel 1939 - Brunner aveva preso in esame la costituzione materiale degli ordinamenti medievali, ponendo in evidenza i numerosi elementi di diversità tra la civiltà dell'età di mezzo e quella moderna, soprattutto nel modo di concepire il diritto. La traduzione di Land und Herrschaft, affidata inizialmente alle cure di Emilio Bussi, sarebbe dovuta comparire nell'elegante collana della F.I.S.A. già negli anni sessanta. Interrotto negli anni seguenti, il lavoro venne invece portato a compimento solo nei primi anni ottanta dagli allievi Pierangelo Schiera e Giuliana Nobili. Pubblicato da Giuffré con il titolo di "Terra e potere", il capolavoro di Brunner apparve nel 1983 negli Arcana imperii, la collana di scienza della politica di cui Miglio era divenuto direttore nei primi anni Ottanta. Il professore comasco si occupò inoltre dei contributi recati alla scienza dell'amministrazione da parte di altri due storici e giuristi tedeschi: Lorenz Von Stein e Rudolf Gneist.
    La chiusura della FISA[modifica | modifica sorgente]

    Negli anni Settanta la F.I.S.A. dovette chiudere i battenti per mancanza di fondi. Il professor Miglio, ricordando a distanza di tempo la fine di quell'autorevole collana di storia delle istituzioni, ne espose le ragioni con un breve commento: "Malgrado la sua efficienza, la F.I.S.A. ebbe vita breve: gli enti che provvedevano al suo finanziamento, non scorgendo l'utilità "politica" immediata della sua attività, strinsero i cordoni della borsa".
    Miglio scienziato della politica e costituzionalista[modifica | modifica sorgente]

    Negli anni ottanta, il degenerarsi del clima politico in Italia indusse il professor Miglio ad occuparsi di riforme istituzionali; egli intendeva contribuire in tal modo alla modernizzazione del paese. Fu così che, nel 1983, raggruppando un gruppo di esperti di diritto costituzionale e amministrativo stese un organico progetto di riforma limitato alla seconda parte della costituzione. Ne uscirono due volumi che, pubblicati nella collana Arcana imperii, vennero completamente trascurati dalla classe politica democristiana e socialista. Tra le proposte più interessanti avanzate dal "Gruppo di Milano" - così venne definito il pool di professori coordinati da Miglio - v'era il rafforzamento del governo guidato da un primo ministro dotato di maggiori poteri, la fine del bicameralismo perfetto con l'istituzione di un senato delle regioni sul modello del Bundesrat tedesco, ed infine l'elezione diretta del primo ministro da tenersi contemporaneamente a quella per la camera dei deputati. Secondo il gruppo di Milano, queste e numerose altre riforme avrebbero garantito all'Italia una maggiore stabilità politica, cancellando lo strapotere dei partiti e salvaguardando la separazione dei poteri propria di uno stato di diritto.
    Diversamente dalla F.I.S.A., la collana Arcana imperii era incentrata esclusivamente sullo studio scientifico dei comportamenti politici. Il citato volume di Brunner costituì pertanto un'eccezione perché, come si è avuto modo di accennare, esso doveva essere pubblicato negli eleganti volumi della F.I.S.A. già negli anni sessanta. All'interno della collana Arcana imperii vennero invece inseriti saggi e contributi di psicologia politica, di etologia, di teoria politica, di economia, di sociologia e di storia. Miglio intendeva costituire un vero e proprio laboratorio dove lo scienziato della politica, servendosi dei risultati portati alla disciplina dalle diverse scienze sperimentali, fosse in grado di conseguire una formazione scientifica che si ponesse all'avanguardia; dal 1983 al 1995 vi vennero pubblicati più di trenta volumi. Si ricordano, tra gli altri: lo studio di Lorenzo Ornaghi sulla dottrina della corporazione nel ventennio fascista, l'edizione degli scritti schmittiani su Thomas Hobbes, la pubblicazione - interrotta - di alcune opere di Lorenz Von Stein, il trattato di diritto costituzionale del tedesco Rudolph Smend. Degni di nota anche gli scritti degli economisti Ludwig Von Mises e Friedrich Von Hayek. I volumi, di squisita fattura, non poterono tuttavia eguagliare l'elegante veste tipografica di quelli pubblicati dalla F.I.S.A., ed un identico destino parve accomunare le due collane: anche in questo caso, Miglio fu infatti costretto a sospendere le pubblicazioni.
    Miglio e Lorenz Von Stein[modifica | modifica sorgente]

    Alla formazione del pensiero politico di Gianfranco Miglio contribuirono le opere sociologiche di Lorenz Von Stein e i saggi di Carl Schmitt sulle categorie del politico. Secondo Stein, in ogni comunità sono presenti due realtà irriducibili: lo stato e la società. La società è il terreno della libera iniziativa, ove gli uomini forti vincono sui deboli e tentano di stabilizzare le loro posizioni attraverso l'ordinamento giuridico; lo stato è invece il luogo ove regna il principio di uguaglianza. Per Stein esso non può che identificarsi con la monarchia: il re è infatti l'unica autorità in grado di intervenire a sostegno dei più deboli. Già a partire dalla seconda metà del Settecento i monarchi, attraverso il potere di ordinanza, erano stati in grado di modificare le costituzioni giuridiche cetuali all'interno dei loro territori, una politica ch'essi avevano potuto condurre in porto non senza grosse difficoltà, a vantaggio del bene comune: questo era accaduto soprattutto in Austria, in Prussia e in Sassonia, ma anche nella Lombardia austriaca e nel Granducato di Toscana. È probabile che Stein, quando sosteneva che il ruolo dello stato dovesse controbilanciare quello della società, avesse in mente il riformismo illuminato delle grandi monarchie assolute di fine Settecento (la Prussia di Federico II, l'Austria di Giuseppe II). In realtà, le sue dottrine sociologiche si ponevano all'interno dello stato liberale e partivano dal presupposto che la monarchia, lungi dall'essere un potere assoluto, dovesse comunque fare i conti con il potere della società attestato nei parlamenti. Secondo Stein ogni comunità prospera solo quando stato e società sono in equilibrio, ugualmente vitali ed operanti. Anche il professor Miglio credeva che ogni comunità fosse dominata da due realtà irriducibili ma, a differenza di Lorenz Von Stein, egli non le identificava nello stato e nella società: Non lo stato, perché è una realtà storica inserita nel tempo e, come tutte le creature e specie viventi, destinata a decadere, a scomparire ed essere sostituita da altre forme di aggregazione politica; non la società perché Stein la considerava in un'ottica esclusivamente economico-giuridica e l'aveva tenuta artificiosamente separata dall'altra realtà, lo stato.
    Miglio e Carl Schmitt[modifica | modifica sorgente]

    Tornando alla formazione di Miglio, fu senza dubbio decisivo l'incontro con l'eminente giurista tedesco Carl Schmitt, le cui opere erano state in gran parte trascurate dagli intellettuali italiani. L'aiuto che Schmitt aveva finito per prestare al regime hitleriano, in particolare nel sostenere la legalità delle leggi razziali in un sistema di diritto internazionale, furono più che sufficienti per oscurare in Italia la sua imponente produzione scientifica. In realtà, i rapporti di Schmitt con il nazismo furono di breve durata: nella seconda metà degli anni trenta, il giurista di Plettenberg aveva preso definitivamente le distanze da Hitler. Di Schmitt il professor Miglio apprezzò gli studi di scienza politica e di diritto internazionale: nel 1972 curò assieme a Schiera l'edizione italiana di alcuni saggi pubblicati dal Mulino con il titolo Le categorie del politico. Nella prefazione al volume, il professore si soffermò sui decisivi contributi portati da Schmitt alla scienza politologica.
    L'antologia destò scalpore nel mondo accademico. Norberto Bobbio sostenne che, con quegli scritti, Miglio aveva "destabilizzato la sinistra italiana". È dall'incontro con la grande produzione scientifica di Carl Schmitt che Miglio riuscì quindi a "fabbricarsi" gli strumenti per costruire una parte importante del suo modello sociologico. Nel Begriff des Politischen, Schmitt aveva infatti scoperto che l'essenza del politico è fondata sul conflitto tra amico e nemico: è uno scontro all'ultimo sangue perché la guerra politica porta normalmente all'eliminazione fisica dell'avversario. Non a caso il giurista tedesco sostenne che l'esempio più emblematico di scontro politico fosse la guerra civile (Bürgerkrieg) tra fazioni partigiane: qui il tasso di conflittualità tra amico e nemico è sempre stato altissimo. Chi ha gli stessi amici non può che avere gli stessi nemici del proprio compagno di lotta. Si crea in altre parole un clima di solidarietà tra i membri del gruppo che è decisivo nella guerra contro i nemici. Il rapporto politico è sempre esclusivo, volto a marcare l'identità del gruppo in opposizione a quella degli altri.
    Schmitt aveva inoltre scoperto che l'avvento dello stato moderno aveva portato a due risultati di eccezionale portata storica. Primo: la fine delle guerre civili all'interno del territorio (le faide e le guerre confessionali del XVI-XVII secolo) con l'annientamento del ruolo politico detenuto sino a quel momento dalle fazioni in lotta (dai partiti confessionali ai ceti). Da quel momento i sovrani furono i supremi garanti dell'ordine all'interno degli stati, territori sempre più estesi ch'essi governarono servendosi di un apparato amministrativo regolato dal diritto. Il secondo grande risultato fu per certi versi una conseguenza del primo: l'avvento dello stato moderno portò nello stesso periodo all'erezione di un sistema di diritto internazionale (ius publicum europeum) assolutamente vincolante per i paesi che vi aderirono. Anche in questo caso, il tasso di politicità (cioè l'aggressività delle parti in lotta, gli stati) venne fortemente limitato: le guerre legittime, intraprese solo dagli stati, vennero condotte da quel momento in base alle regole dello ius publicum europaeum. Si trattava quindi di conflitti a basso tasso di politicità, non foss'altro perché la vittoria di una delle parti in lotta non poteva portare in alcun modo all'annientamento dell'avversario, il cui diritto di esistenza era tutelato dal diritto e accettato da tutti gli stati.
    La crisi dello ius publicum europaeum, divenuta palese alla fine della prima guerra mondiale e acuitasi ulteriormente con lo scoppio delle guerre partigiane nei decenni successivi, resero palese a Schmitt la fine della regle de droit su cui si era fondato l'universo giuridico occidentale nei rapporti internazionali tra stati sovrani. La guerra civile e, in modo particolare, l'estrema politicizzazione avvenuta durante le guerre mondiali con la criminalizzazione degli avversari persuasero Schmitt che la fine dello ius publicum europaeum era ormai compiuta. In questo, il giurista tedesco vide soprattutto il fallimento della civiltà giuridica occidentale nel suo supremo tentativo di fondare i rapporti umani unicamente sulle basi del diritto. Anche Miglio prese atto della fine dello ius publicum europaeum ma, a differenza di Schmitt, non credette che tale processo segnasse la fine del diritto e la vittoria definitiva delle leggi aggressive della politica. Fondando il suo originale modello sociologico, egli sostenne che tutte le comunità umane si sono sempre rette su due tipi di rapporti: l'obbligazione politica e il contratto-scambio. Ai suoi occhi, lo stato (moderno) era stato un autentico capolavoro perché, apportando un contributo decisivo alla sua costituzione, i giuristi dell'età moderna erano riusciti a regolare la politica inserendola in un compiuto sistema di norme fondato sulla razionalità del diritto, sull'impersonalità del comando e sui concetti di contratto e rappresentanza: tutti elementi appartenenti alla sfera del contratto/scambio. Secondo il professore, il crollo dello ius publicum europeum aveva però messo in crisi la stessa impalcatura su cui si reggeva lo stato, che ora dimostrava tutta la sua storicità.
    Diversamente da Schmitt, che era rimasto legato all'idea dell'organizzazione statale, Miglio sosteneva che la civiltà occidentale, soprattutto dopo il 1989, stesse attraversando una fase di transizione al termine della quale lo stato verrà probabilmente sostituito da altre forme di comunità ove obbligazione politica e contratto/scambio si reggeranno in un nuovo equilibrio.
    La fine dello stato e il ritorno al medioevo[modifica | modifica sorgente]

    Con il crollo del muro di Berlino (1989), il professore ritenne che lo stato moderno fosse giunto al capolinea. Il progresso tecnologico e, in modo particolare, il più alto livello di ricchezza cui erano giunti i paesi occidentali lo convinsero che negli anni successivi sarebbero avvenuti cambiamenti di portata radicale, tali da coinvolgere anche la costituzione (Verfassung) degli ordinamenti politici. Secondo Miglio, lo stato avrà in futuro crescenti difficoltà nel garantire servizi efficienti alla popolazione. Ciascun cittadino, vedendo accresciuto il proprio tenore di vita in forza dell'economia di mercato, sarà infatti portato ad avere sempre meno fiducia nei lenti meccanismi della burocrazia pubblica, ch'egli riterrà inadeguata a soddisfare i suoi standard di vita. L'elevata produttività dei paesi avanzati e la vittoria definitiva dell'economia di mercato su quella pubblica porterà in altri termini a nuove forme di aggregazione politica al cui interno i cittadini saranno destinati a contare in misura molto maggiore rispetto a quanto non lo siano oggi nei vasti stati in cui si trovano inseriti. Secondo il professore gli stati democratici, ancora fondati su istituti rappresentativi risalenti all'Ottocento, non riusciranno più a provvedere agli interessi della civiltà tecnologica del secolo XXI. Con il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, si creano in altri termini le premesse perché la politica cessi di ricoprire un ruolo primario nelle comunità umane e venga invece subordinata agli interessi concreti dei cittadini, legati alla logica di mercato. La fine degli stati moderni porterà secondo Miglio alla costituzione di comunità neofederali dominate non più dal rapporto politico di comando-obbedienza, bensì da quello mercantile del contratto e della mediazione continua tra centri di potere diversi: sono i nuovi gruppi in cui sarà articolato il mondo di domani, corporazioni dotate di potere politico ed economico al cui interno saranno inseriti gruppi di cittadini accomunati dagli stessi interessi. Secondo il professore, il mondo sarà costituito da una società pluricentrica, ove le associazioni territoriali e categoriali vedranno riconosciuto giuridicamente il loro peso politico non diversamente da quanto avveniva nel medioevo. Di qui l'appello a riscoprire i sistemi politici anteriori allo stato, a riscoprire quel variegato mosaico medievale costituito dai diritti dei ceti, delle corporazioni e, in particolar modo, delle libere città germaniche.
    Il professore studiò a fondo gli antichi sistemi federali esistiti tra il medioevo e l'età moderna: le repubbliche urbane dell'Europa germanica tra il XII e il XIII secolo, gli ordinamenti elvetici d'antico regime, la Repubblica delle Province Unite e, da ultimo, gli Stati Uniti tra il 1776 e il 1787. Ai suoi occhi, il punto di forza risiedeva precisamente nel ruolo che quei poteri pubblici avevano saputo riconoscere alla società nelle sue articolazioni corporative e territoriali. Miglio dedicò i suoi ultimi anni allo studio approfondito di questi temi, progettando di scrivere un volume intitolato l'Europa degli Stati contro l'Europa delle città. Il libro è rimasto incompiuto per la morte del professore.
    L'impegno politico diretto e il federalismo[modifica | modifica sorgente]

    Nel 1943, a 25 anni, Miglio si iscrisse alla neonata Democrazia cristiana, che lasciò nel 1959[1].
    Il 27 aprile 1945, nell'immediato domani della Liberazione, fu tra i fondatori, a Como, del movimento federalista “Il Cisalpino”, con altri docenti dell'Università Cattolica di Milano. Ispirato alle idee di Carlo Cattaneo, il programma del “Cisalpino” prevedeva la suddivisione del territorio italiano su base cantonale, secondo il modello svizzero, con la costituzione di tre grandi macroregioni (Nord, Centro e Sud).
    Nel 1990 Miglio si avvicinò alla Lega Nord. Eletto al Senato della Repubblica come indipendente nelle liste della Lega Nord-Lega Lombarda (da allora a Miglio fu attribuito l'appellativo lombardo di Profesùr), per quattro anni (dal 1990 al 1994) lavorò per il partito con l'intento di farne un'autentica forza di cambiamento. In questo periodo elaborò un progetto di riforma federale fondato sul ruolo costituzionale assegnato all'autorità federale e a quella delle macroregioni o cantoni (del Nord o Padania, del Centro o Etruria, del Sud o Mediterranea, oltre alle cinque regioni a statuto speciale). La costituzione migliana prevedeva l'elezione di un governo direttoriale composto dai governatori delle tre macroregioni, da un rappresentante delle cinque regioni a statuto speciale e dal presidente federale. Quest'ultimo, eletto da tutti i cittadini in due tornate elettorali, avrebbe rappresentato l'unità del paese.
    I punti salienti del progetto, esposti nel decalogo di Assago del 1993, vennero fatti propri dalla Lega Nord solo marginalmente: il segretario federale, Umberto Bossi, preferì infatti seguire una politica di contrattazione con lo stato centrale che mirasse al rafforzamento delle autonomie regionali.
    Il dissenso di Miglio, iniziato al congresso leghista di Assago, si acuì dopo le elezioni politiche del 1994, quando il professore si disse non d'accordo sia ad allearsi con Forza Italia, sia a entrare nel primo governo Berlusconi. Soprattutto Miglio non gradì che per il ruolo di ministro delle Riforme istituzionali fosse stato scelto Francesco Speroni al suo posto[2]. Bossi reagì spiegando: «Capisco che Miglio sia rimasto un po' irritato perché non è diventato ministro, ma non si può dire che non abbiamo difeso la sua candidatura. Il punto è che era molto difficile sostenerla, perché c'era la pregiudiziale di Berlusconi e di Fini contro di lui. Di fatto, il ministero per le Riforme istituzionali a lui non lo davano. (...) Se Miglio vorrà lasciare la strada della Lega, libero di farlo. Ma vorrei ricordargli che è arrivato alla Lega nel '90 e che, a quell'epoca, il movimento aveva già raggranellato un sacco di consiglieri regionali». In conclusione per Bossi, Miglio «pare che ponga solo un problema di poltrone e la difesa del federalismo non è questione di poltrone»[3]. Il giorno dopo, 16 maggio 1994, Miglio lascia la Lega Nord dicendo di Bossi: «Spero proprio di non rivederlo più. (...). Per Bossi il federalismo è stato strumentale alla conquista e al mantenimento del potere. L'ultimo suo exploit è stato di essere riuscito a strappare a Berlusconi cinque ministri. Tornerò solo nel giorno in cui Bossi non sarà più segretario»[4].
    Nonostante ciò, moltissimi militanti e sostenitori leghisti continuarono a provare grande simpatia e ammirazione per il professore e per le sue teorie[5]. Alcuni dirigenti della Lega tennero comunque vivo il dialogo con Miglio, in particolar modo Giancarlo Pagliarini, Francesco Speroni e il presidente della Libera compagnia padana Gilberto Oneto, al quale il professore era particolarmente legato.
    Negli anni in cui la Lega si spostò su posizioni indipendentiste (1996-1999), il professore parve riavvicinarsi alla linea del partito, sostenendo a più riprese la piena legittimità del diritto di secessione della Padania dall'Italia come sottospecie del più antico diritto di resistenza medievale.
    Miglio e la mafia[modifica | modifica sorgente]

    Nella sua originale riflessione sul contrasto tra i regimi giuridici "freddi" e "caldi" Miglio sostenne la necessità di sviluppare, all'interno delle diverse società e culture, ordini giuridici in grado di rispondere alle specifiche esigenze.[6] In maniera provocatoria, egli giunse a dichiararsi favorevole al «mantenimento anche della mafia e della 'ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos'è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un'assurdità. C'è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate»[7]. La sua riflessione puntava a cogliere quali fossero le ragioni profonde alla base di mafia, camorra e 'ndrangheta (insieme a ciò che genera il consenso attorno a queste organizzazioni criminali), perché solo istituzioni che sono in sintonia con la comunità - nel caso specifico, che non dimentichino la centralità del rapporto personale piuttosto che impersonale nella società meridionale - possono creare una vera alternativa al presente.

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    Predefinito Re: Gianfranco Miglio

    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
    Tacito, Agricola, 30/32.

  6. #6
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    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
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  7. #7
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    Predefinito Re: Gianfranco Miglio



    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
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  8. #8
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  9. #9
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    Predefinito Re: Gianfranco Miglio

    Intervento al Secondo Congresso della Lega Nord di Gianfranco Miglio

    di Gianfranco Miglio

    Cari Amici Leghisti,
    vi sarete accorti della rabbia, del furore con cui è stato accolto, il giorno dopo l’Assemblea di Assago, il
    nostro progetto di Costituzione federale, che io chiamo il breviario di Assago, perché è un concentrato in
    dieci articoli di quello che sarà l’ossatura della costituzione federale futura. Dietro ognuno di quei dieci
    articoli i tecnici hanno subito capito che c’era tutto un lungo pensiero, un lungo lavoro di preparazione; e
    proprio in relazione a quello, io oggi vi darò un esempio di come noi stiamo lavorando per allargare e
    rifondare questo modello di costituzione federale.
    Ma perché quella reazione così rabbiosa? Perché tutti si sono messi a sparare all’impazzata prima ancora di
    avere letto il testo dei dieci articoli? Vedete: in ogni comunità politica di tutti i tempi e di tutti i luoghi c’è
    sempre una certa percentuale di cittadini che vivono alle spalle degli altri. Carlo Marx ha guadagnato
    l’immortalità perché è riuscito a dimostrare il modo con cui i proto-imprenditori capitalisti sfruttavano il
    proletariato industriale. Poi sulla base di quella dottrina è stato costruito un sistema in cui una gigantesca
    burocrazia sfruttava i pochi cittadini dell’Unione Sovietica che lavoravano e producevano.
    Il grado di civiltà politica di un Paese dipende dal modo con cui si riesce a limitare la quantità e la presenza
    dei parassiti. I parassiti sono nella società così come sono sugli animali. Chi di voi ha un cane o un gatto sa
    che a un certo punto, se i parassiti crescono al di là di un certo limite l’animale muore. E muore una società.
    Ci sono esempi storici di società che sono scomparse per eccesso di parassitismo.
    Chi è il parassita? Il parassita è colui che non produce ricchezza, ma vive consumando quella prodotta dagli
    altri. Questa è la definizione più lineare del parassita. Parassiti sono i conquistatori di un tempo. I Turchi, per
    esempio, sono stati nel tempo i più formidabili organizzatori dell’azione politico- militare e dello
    sfruttamento dei vinti. Un tempo il vinto doveva lavorare per il vincitore. Poi la civiltà politica a poco a poco
    ha ridotto queste presenze, ma ci sono ancora delle tracce di questa dominazione. Ora, la reazione rabbiosa
    che noi abbiamo dovuto fronteggiare è dipesa del fatto che coloro i quali sanno per quali canali più o meno
    oscuri arrivano nelle loro tasche i danari di cui godono, la ricchezza di cui godono, sono prontissimi a capire
    se c’è un pericolo di taglio di quei canali. E la costituzione federale è una classica costituzione fatta contro il
    parassitismo. Non c’è nella storia e nel mondo un Paese a regime federale che presenti il grado di
    parassitismo e di corruttela di cui siamo “beneficiati” noi oggi.
    D’altra parte, la reazione è anche comprensibile. Perché sono antifederalisti e sono centralisti? E tirano fuori
    le icone, i santi, la patria che piange perché viene minacciata nella sua integrità? Perché centralismo e
    parassitismo sono due fenomeni strettamente collegati fra di loro. Io devo scusarmi con voi se oggi parlo di
    pidocchi, cioè di parassiti. Ma cosa volete farci... Il Paese che siamo chiamati a cercare di cambiare è fatto
    così: è un Paese ammalato da un esercito di pidocchi. Senza mutare il sistema costituzionale centralizzato,
    noi non riusciremo a sopravvivere (...).
    Ma veniamo all’osso: perché noi leghisti siamo federalisti fin dall’inizio, e abbiamo inscritta nel nostro
    codice genetico la volontà di creare un ordinamento federalista? Questi sono i difetti che noi contestiamo
    all’attuale sistema politico-economico: 1) la gestione centralizzata e dall’alto del sistema fiscale: tutte le
    tasse scendono dal vertice; 2) la collusione in quella gestione, l’alleanza in quella gestione, fra una troppo
    estesa burocrazia e una classe parlamentare maggioritaria, entrambe provenienti dalle medesime regioni del
    sud. Non sono io che l’ho detto, è il ministro Cassese, il quale ha testificato, ha attestato che il 95 per cento
    della nostra burocrazia pubblica viene da poche determinate regioni del sud. E qui si innesca il terzo difetto
    fondamentale: la distribuzione massiccia delle risorse raccolte nel modo che ho detto, risorse sempre disponibili ai medesimi soggetti: alla burocrazia e alla classe parlamentare che nasce dalle medesime terre; il
    che dà luogo a un mostruoso sistema di rendite e di paghe pubbliche, che sono quelle che affondano il Paese.
    Si ha un bel dire che noi vogliamo (e altri nello schieramento liberal democratico dichiarano di volere) una
    economia e una società basata sul mercato, ma la realtà dei fatti è che sradicare l’enorme pianta malefica
    delle paghe pubbliche è un compito di immane portata. Non illudiamoci di poterlo realizzare in quattro e
    quattr’otto. È il compito per lo meno di una mezza generazione.
    La nostra politica è sempre stata intrecciata con parole magiche: gli economisti parlano di “trasferimenti”. La
    tecnica della politica è l’arte dei trasferimenti. E poi in realtà cos’è? Mettere la mano nella tasca di un
    cittadino e trasferire le risorse di quel cittadino ad altri cittadini. Si parla di “redistribuzione dei redditi”, ma
    sempre di redistribuzione dei redditi di puro consumo, non redditi investiti per produrre altre fonti di
    ricchezza: è questo il difetto strutturale della nostra economia pubblica, ed è contro questo che noi agitiamo
    il nostro modello di riforma costituzionale.
    Contro questo modo di governare assurdo e incorreggibile c’è una sola alternativa: un sistema federale che
    rovesci la piramide fiscale e clientelare creando rapporti diretti fra i centri di poteri minori in cui si suddivide
    il potere centrale e i cittadini. Solo così nasce la garanzia fondamentale di una costituzione federale, nel fatto
    che ci siano almeno due centri di potere equivalenti, e quindi non distruggibili l’uno da parte dell’altro, così
    che il potere centrale non riesca più a riprendere in mano il mazzo.
    Qui io devo fare una critica a ogni sistema di autonomia, a ogni sistema basato sull’autonomia, a cominciare
    da quello che hanno prodotto i legislatori. C’ero anch’io (e poi vi dirò a che titolo sono stato in mezzo a loro)
    con i soloni della commissione bicamerale che l’hanno presentato al prossimo Parlamento: il nuovo
    Parlamento se lo troverà sul tavolo. Quali sono i difetti di questo sistema? Innanzitutto, perché qualcuno
    parla di una possibilità - e vi dirò in che modo - di passare attraverso questo progetto. Intanto sono tutte le
    venti regioni che vengono investite della quasi totalità delle funzioni di governo, venti regioni perché si
    vogliono accomunare, cosa che io ho sempre escluso, le regioni ordinarie a quelle a statuto speciale. Non c’è
    nel breviario di Assago, è stato corretto questo punto ma io ero del parere che le regioni a statuto speciale
    devono rimanere regioni a statuto speciale.
    Comunque, di queste venti regioni, alcune sono troppo piccole per esercitare le funzioni che si vorrebbero
    trasferire; così che la loro attività dovrà essere sostituita da quella dello Stato. Lo Stato centrale tornerà di
    nuovo a impadronirsi di tutte quelle leve di potere che le regioni troppo piccole non riescono a maneggiare.
    Secondo: siccome è stato sancito - ed è stato giusto - il principio che ogni regione avrà la possibilità di
    cambiare come crede la legge elettorale e di cambiare la forma di governo, cosa avremo noi? Intanto avremo
    venti repubbliche, non le tanto famigerate tre repubbliche del progetto di Assago: venti! Coloro i quali
    avevano detto: “ah, l’unità spezzata in tre repubbliche!”. Stiamo per spezzarla in venti; il buon senso
    dovrebbe dire che qui c’è qualche cosa che non funziona.
    L’attività legislativa delle regioni si dovrà svolgere in un contesto di leggi cornice estesissime; ad ogni passo,
    nel progetto - e voi lo vedrete - s’incespica nelle leggi cornice. Gli organi centrali dovrebbero avere tre anni
    di tempo per varare queste leggi cornice, ma c’è una esperienza che abbiamo sottocchio: quando venne
    varata la costituzione del ’48, quella che ancora oggi malamente ci governa, venne stabilito che le leggi
    quadro e cornice sarebbero state prodotte nel giro di pochi mesi: nessuno le ha viste; così che le regioni non
    avevano il quadro in cui operare, oppure avevano la scelta di operare senza nessun punto di riferimento
    cadendo sotto gli organi di controllo che, nel progetto della Bicamerale, sono rimasti tutti, a cominciare dal
    commissario di governo che vista e timbra tutte le manifestazioni di volontà delle regioni.
    Ma ciò nonostante che cosa viene fuori? Vien fuori che con la diversità di strutture di governo, le regioni più
    grosse, quelle più forti già oggi, cammineranno e si staccheranno sempre di più dalle altre. Vale a dire:
    creeranno una disparità di strutture dentro il Paese non regolata da nessun quadro generale. Domando: è
    meglio questo sistema con regioni brade che cresceranno e si differenzieranno, alcune potentissime, altre
    ridotte alle condizioni di povere province, perché piccole e prive di strutture? È meglio questo sistema di
    concorrenza brada, oppure un quadro come quello che noi abbiamo proposto ad Assago? E poi l’ultima
    constatazione: nessun federalismo fiscale! Le regioni avranno il bene di godere di sovrimposte e addizionali
    alle imposte statali, o quote di partecipazioni ai tributi erariali. Vale a dire, saranno sempre messe nella
    condizione di ribellarsi o di fare per conto loro, o di promuovere scioperi fiscali, perché la macchina centrale
    dello Stato non dà niente. Ho già detto che sulle tre Repubbliche si è scatenata la cagnara. Non le vogliono
    chiamare repubbliche: chiamiamoli cantoni, chiamiamole macroregioni. Quello che conta è la sostanza, non
    il nome (...). Trovino loro il nome, la cosa fondamentale è che sono tre entità, perché con tre entità si può
    costruire una struttura federale, soprattutto un sano governo direttoriale.
    Ma, si dice, queste regioni, queste repubbliche, o macroregioni, sono “calate dall’alto”. Un corno secco
    calate dall’alto! Perché noi abbiamo sempre pensato che queste repubbliche, o questi cantoni, saranno il
    naturale risultato dell’aggregazione delle rispettive Regioni, le quali non potendo gestire i poteri che si
    vogliono mettere sulle loro spalle, saranno portate per forza di cose ad aggregarsi.
    E l’aggregazione più naturale delle Regioni italiane è questa: c’è chi dice, «ma la regione, la repubblica
    padana è troppo grossa». Se è questione di dimensioni, di paura dimensionale, io sono pronto ad accettare
    che almeno in un primo tempo la repubblica padana (il mio amico-nemico Rocchetta sarà tranquillo, finalmente) possa articolarsi in una repubblica occidentale e in una repubblica orientale. Cioè, una Padania
    del nordovest e una Padania del nordest e del sud. Comunque la cosa fondamentale è questa: così diventano
    quattro le repubbliche, o i cantoni. Ricordatevi che più gli enti federati sono piccoli, più sono mangiabili dal
    potere centrale (...).
    Il secondo articolo dice che non ci sono vincoli al movimento dei cittadini. Lo arricchiremo indicando, per
    venire incontro agli spaventi di alcuni giuristi di sinistra, che noi non abbiamo nessuna difficoltà a inserire
    tra i princìpi immutabili della costituzione federale, l’eguaglianza giuridica e politica dei cittadini. Cioè i
    diritti individuali, i diritti pubblici subiettivi; non certo il diritto di arrivare a una condizione economica
    finale eguale. Tutt’al più eguaglianza nelle condizioni di partenza. Perché l’essenza di un regime federale è
    di appartenere all’economia di mercato e quindi di rimettere [sullo stesso piano] le posizioni degli individui,
    fatte salve quelle che sono le esigenze elementari, le esigenze degli individui, e di fondare la propria fortuna
    sul confronto. Necessariamente: vinca il più dotato (...).
    Libertà per ogni repubblica o cantone, di darsi il governo che vuole. Però con un limite, che non hanno le
    regioni del progetto della bicamerale Labriola: non l’hanno questo limite. C’è un governatore alla testa di
    ognuna di queste repubbliche cantone. Perché questo governatore diventa il gancio con cui si crea e si
    consolida l’Unione italiana (...).
    Poi c’è un’assemblea politica. Lì le ostilità sono venute probabilmente anche perché noi abbiamo previsto
    (ne abbiamo ragionato a lungo con Bossi) cento membri di ogni dieta, tre diete, quindi una camera,
    un’assemblea politica di trecento membri. Figuratevi, con tutti quelli che voi vedete scatenati in questi giorni
    alla ricerca di candidature e di seggi, voi immaginate qual è la pressione di questa classe politica famelica
    che vuole allargarsi e consolidarsi. No, l’assemblea politica deve essere molto ridotta e deve soprattutto
    realizzare un punto che non c’entra con il federalismo, ma che io ho voluto inserire nel progetto, perché è la
    chiave di volta di tutte le riforme: la separazione della funzione legislativa dalla funzione propriamente
    politica. Io ho pensato a una camera dei diritti eletta con legge proporzionale e da tutto il paese, da tutta
    l’Unione, a cui spetti dettare le norme giuridiche e non impicciarsi in questioni politiche di abbattimento o
    meno del primo ministro e via di questo passo.
    E poi viene il buono dell’articolo 6. È quello che riguarda il governo. Durante i lavori della bicamerale a cui
    ho partecipato con molto impegno - riconosciuto da tutti - la Jotti era addoloratissima quando ho detto che
    non avevo più tempo da perdere per stare in quell’organismo. Ma in quella situazione mi sono accorto della
    zuffa insanabile tra fautori del governo presidenziale (che è ricomparso adesso) e fautori del governo
    parlamentare, un primo ministro eletto dal parlamento o un primo ministro eletto dal popolo. E mi sono
    convinto che la soluzione come sempre è in una terza cosa, è in un governo direttoriale, che è il governo che
    ha la Confederazione Elvetica. Cioè un governo collegiale in cui il presidente è ingabbiato, ha dei poteri, ma
    non c’è rischio che debordi perché il Direttorio lo tiene in rotaia, come si suol dire.
    Questo direttorio dovrebbe essere composto dai governatori dei cantoni, più un governatore o capo
    dell’esecutivo a turno di ognuna delle Regioni a statuto speciale (uno ogni sei mesi, ogni anno), e poi dal
    primo ministro. Un primo ministro eletto direttamente dal popolo, perché così si sancisce l’unità dell’Unione
    italiana che noi abbiamo tutelato molto più di quanto non lo tutelino i difensori della patria unitaria. Questo
    direttorio dovrebbe governare secondo regola di maggioranza, ma avendo un limite e cioè l’obbligo della
    unanimità quando si tratta di problemi economici e finanziari.
    Subito il coro delle critiche: «e allora, se non raggiungono l’unanimità, cosa succede? Una repubblica se ne
    va?». L’ossessione è la Repubblica del Nord, cioè quelli che hanno i soldi. Messa in maniera brutale è
    questo: sono quelli che lavorano e producono, pagano il conto e mantengono l’intera baracca. Ora io non
    credo affatto a questa prospettiva, ma ho disposto una misura (...). C’è una procedura che ognuno dei membri
    del Direttorio può attivare con la sua richiesta. Scaduto il tempo di questa procedura, se non è stata raggiunta
    l’unanimità dei voti, il direttorio scade, cioè tutti i governatori e anche il primo ministro, che doveva favorire
    la coesione, tornano davanti agli elettori; ma non loro, altri! Perché per una tornata elettorale i governatori e
    il primo ministro, che non sono stati capaci di raggiungere l’unanimità, se ne stanno fuori dai piedi e altri
    andranno al loro posto. Io vi chiedo: esiste un altro sistema che garantisca l’unità, l’immediatezza, l’efficacia
    dell’azione governamentale a livello - lasciatemi passare l’aggettivo - nazionale più di questo? Nessuno.
    Questo significa che i federalisti della Lega hanno molto più chiaramente in testa la necessità del
    coordinamento e dell’azione unitaria di tutti gli avversari.
    Probabilmente l’articolo 8, quello del federalismo fiscale, è il meglio riuscito (...). Nella versione definitiva
    stabiliamo il principio che nessun cittadino possa essere colpito da imposte dello Stato, dei cantoni, o dei
    municipi i quali totalizzino più del 40% del suo reddito. In questo modo chi venga colpito da un’imposta di
    questa dimensione ha il diritto di chiederne la restituzione ai poteri che lo hanno tassato (...). Stabiliremo che
    un limite del 40% vale anche per l’intero prezzo dell’imposizione fiscale, soprattutto del ricorso al debito
    pubblico; solo se si fa intervenire la Corte costituzionale (...), questo terrore della Corte costituzionale, della
    deposizione è quello che può permettere di cessare di sperperare le risorse finanziarie del Paese per tutte le
    esigenze di voto di scambio che si creano quotidianamente (...).
    Vedete, la cosa fondamentale che non dovete mai dimenticare è questa: la Lega, di cui voi siete la forza viva,
    è nata come movimento federalista. Il federalismo non è destinato a diventare quello che è stato per i comunisti, la dittatura del proletariato, una specie di prospettiva... I centralisti, quelli che continuano a
    spalancare i soldi che arrivano dal sistema centralizzato, funzionari e parlamentari di determinate Regioni, i
    centralisti si illudono se pensano che anche il federalismo diventerà qualcosa come la dittatura del
    proletariato: perché il federalismo si imporrà, anche se la Lega dovesse scomparire, anche se non ci fosse più
    chi vi sta parlando, per forza delle cose (...). Questa è la logica delle cose, ed è affidati a questa logica che
    noi guardiamo all’avvenire con la più grande sicurezza: a quella meta, a quel risultato arriveremo anche se
    non lo volessimo!

    Bologna, 6 febbraio 1994



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    Predefinito Re: Gianfranco Miglio

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