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    Predefinito estratto conferenza su Heidegger, Londra 21/12 us


    Relazione introduttiva di G Vassalli: breve e non certo con pretese di essere esaustiva ma era comunque diretta ad un pubblico di non addetti ed il tempo era limitato a qualche ora. Quindi prego non cominciare subito con il tiro cal 88 ad alzo zero...


    L’esistenzialismo
    Movimento filosofico e letterario contemporaneo, che ha come tema fondamentale l’esistenza, intesa come modo di essere dell’uomo nel mondo. L’esistenzialismo come corrente di pensiero si impone nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, quale espressione dell’uomo privato della sicurezza dei valori tradizionali e cosciente di vivere in una realtà aleatoria. Precursore dell’esistenzialismo è il filosofo danese Kierkegaard, il cui pensiero, a lungo ignorato, s’impose proprio agli inizi del 900. In polemica con il razionalismo hegeliano e con i sistemi speculativi in generale, esaltando ciò che è caratteristico dell’individuo e ponendo al centro del suo pensiero il problema dell’esistenza del singolo che rifiuta di sparire nel generale. L’esistenza è vista da Kierkegaard come possibilità, la cui caratteristica è l’indecisione, che causa l’angoscia. Il superamento di questa si ha solo con la fede o con il suicidio.
    I maggiori rappresentanti dell’esistenzialismo sono Martin Heidegger, Karl Jaspers, Gabriel Marcel e Jean-Paul Sartre, oltre al teologo svizzero Karl Barth e al movimento della teologia dialettica. Il pensiero di Heidegger è espresso nella sua opera principale Essere e tempo (1927), nella quale è posta la questione dell’essere (Seinsfrage). L’uomo di Heidegger è cosciente di essere gettato nel mondo, di esserci (Dasein) e ciò che lo porta a prendersi cura (Sorge) di ciò che è esterno a se, pervenendo alla comprensione che ogni tentativo di realizzazione nel futuro è un progettare il nulla.
    La rivelazione del nulla è per l’uomo causa di angoscia, che egli cerca di trasformare in paura, in quanto questa ha un oggetto determinato, mentre l’angoscia nasce dall’esistenza stessa. Solo l’uomo, tra gli esseri, ha coscienza della temporalità dell’esistenza (essere «per la morte») e ciò che lo libera dall’esistenza inautentica in cui vive è quando si abbandona alla chiacchiera.
    L’esistenzialismo religioso ha i suoi maggiori rappresentanti in Jaspers e Marcel. Il primo, riallacciandosi a Kierkegaard e a Nietzsche, propone i temi della finitezza dell’uomo, posto a una distanza qualitativa infinita da Dio, dell’impossibilità per l’uomo di pervenire alla conoscenza dell’essere nella sua totalità, e dell’esigenza religiosa che nasce dalla coscienza dello scacco della ragione pervenuta ai suoi limiti.
    Il secondo, nel suo esistenzialismo cattolico, supera l’angoscia esistenziale, affermando che la riflessione filosofica deve aiutare a vivere l’essere come mistero.
    L’esistenzialismo di Sartre si riallaccia in toto ad Heidegger e alla fenomenologia di Edmund Husserl. Nell’Essere e il nulla (1943) Sartre distingue l’essere oggettivo (essere in se), che è realtà confusa, dalla coscienza (essere per se), che è soggettivo rifiuto da parte dell’io di essere cosa. L’uomo per Sartre non deve fa ricorso ad autorità o norme prestabilite, ma inventare il proprio destino, svegliandosi dal sonno dogmatico attraverso l’esperienza del nulla e dell’angoscia. Partito da posizioni individualistiche, Sartre nella maturità si avvicina al marxismo, mantenendo però una posizione critica, con un netto rifiuto verso il dogmatismo.
    In Italia l’esistenzialismo ha il suo maggior esponente in Nicola Abbagnano, che ha dato della filosofia dell’esistenza un’interpretazione positiva.
    In letteratura motivi esistenzialistici sono presenti nelle opere del norvegese Henrik Ibsen, dello svedese Johan August Strindberg, nella poesia di Giacomo Leopardi e nel romanzo russo dell’800: Fëdor Dostoevskj o l’opera di Franz Kafka, che esprime compiutamente la crisi esistenziale del primo 900. In Francia è rappresentato, oltre che da Sartre, da Marcel e Albert Camus.


    Martin Heidegger. Il primato «ontologico» del problema dell’essere
    Nel 1927 apparve Essere e tempo. Ci fu chi subito si appropriò del pensiero del maestro. Come Sartre in Francia. Di una voracità intellettuale senza fondo. Piccolo, con occhi storti dietro le lenti, faceva pensare a uno di quei pesci che negli acquari si muovono a scatti e divorano tutto quello che gli capita davanti alla bocca. Forse è l’intellettuale più ambizioso del secolo.
    Il genio di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, all’epoca della precoce lettura della Fenomenologia dello spirito aveva illuminato tutti. Quello di Martin Heidegger accecò. Essere e tempo ci gettava nell’esistenza. Finalmente uscivamo da Kant e dal neokantismo. La relazione col mondo non era una relazione gnoseologica bensì esistenziale. Eravamo gettati in questo mondo. Ci eravamo. Questo essere gettati apriva le nostre possibilità. Eravamo gettati verso i nostri possibili. Eravamo ciò che Heidegger aveva chiamato Dasein.
    Eravamo gettati fra gli enti, tra le cose, tra gli oggetti. Il Dasein era l’esser-ci perché poteva essere solo un ente intramondano, un ente tra gli altri enti. Tuttavia va riconosciuto che se si vuole indicare l’enorme differenza che passa tra il soggetto kantiano e l’esserci di Heidegger è necessario indicare proprio questa condizione di pericolo di esposizione.
    Che cosa rischia il soggetto della Critica della ragion pura? La sua relazione col mondo lo impegna solo relativamente alle modalità conoscitive.
    L’esserci di Heidegger non può che gettarsi in esse. È la sua esistenza che è in gioco, non il suo dispositivo conoscente.
    Se l’esserci spende la propria esistenza tra le oggettività del mondo, se è uno dei tanti in mezzo a esse, se non lo protegge l’apparato categoriale newtoniano del buon Kant, allora l’esserci è in pericolo. Heidegger proponeva una spiegazione mirabile, possibile grazie al suo genio. Essere e tempo non è soltanto un’opera esistenziale: è un libro ontologico. La sua domanda è la grande, unica domanda della filosofia: la domanda sull’essere. Heidegger ci colloca in un luogo privilegiato. L’essere sorge nel mondo perché c’è un ente il cui essere consiste nell’interrogarsi sull’essere. Questo ente è l’uomo ed è per l’uomo che la domanda sull’essere (la domanda fondamentale della filosofia) accade nel mondo.
    C’era un essere metafisico, l’uomo, che si interrogava sul senso dell’universo. L’esserci era il «ci» dell’essere. Il Dasein è il luogo della domanda ontologica. Il luogo della domanda sull’essere. Heidegger sapeva suscitare quell’orgoglio. Presto capimmo che il Dasein, alle origini, tra i «presocratici» si era espresso in greco. Ora si esprimeva in tedesco. Il tedesco era la lingua della filosofia. E Dasein era tedesco. Se il Dasein individuale dell’ontologia esistenziale parlava in tedesco ed era tedesco, poteva non essere la Germania lo spazio del Dasein comunitario? Poteva non essere la Germania il luogo dell’essere e l’incarnazione del suo destino? Se Heidegger è stato il nostro maestro, alle nostre origini c’è Hegel.
    Nel gennaio 1933 Hitler andò al potere. Il primo maggio Heidegger si iscrisse al partito. Poco dopo fu nominato Rektor dell’Università di Friburgo.
    Quel maggio 1933, Heidegger pronuncia il discorso del rettorato, che sarebbe stato ricordato col titolo di Discorso del rettorato. Quel giorno fu una «festa del sapere», dell’università e della filosofia. Era venuto a incarnare il Führerprinzip nel territorio di Friburgo.
    Filosofo dall’oratoria poderosa, ipnotica, ma che adesso era venuto a invocare il nostro impegno per la sfida del momento, l’assoluto era tra di noi, così vicino, così intimo, che respiravamo l’alito infinito. Heidegger ci riportò all’origine, alla vera origine della grandezza tedesca. Ci riportò ai Greci. Ci indicò dove situarci: «Nella potenza dell’inizio del nostro essere storico-spirituale». Ancora: «Quest’inizio è l’irruzione della filosofia greca». E poi: «Ogni scienza è filosofia, che lo sappia o lo voglia, oppure no. Ogni scienza resta vincolata all’inizio della filosofia. Da esso la scienza trae la forza della propria essenza”. L’Università tedesca aveva il proprio futuro alle spalle. Ma dicendo “alle spalle” si riferiva alla grandezza ellenica. Il noi, adesso, nel nostro popolo si incarnava. Il nostro popolo era una comunità spirituale e in essa vivevano, perseveravano l’elemento greco e quello germanico, uniti, per difendere l’aggredito spirito dell’occidente. Heidegger disse allora una frase di suprema lucidità, di bellezza inafferrabile: «L’inizio è ancora. Non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma ci sta di fronte, è davanti a noi». L’inizio, in quanto è ciò che vi è di più grande, precede e così è già passato oltre noi, al di sopra di noi. L’inizio è scritto nel nostro futuro, ci è di fronte come l’ingiunzione che da lontananze remote ci chiama a riconquistare di nuovo la sua grandezza. Heidegger dava ora un linguaggio, ci faceva sentire l’aristocrazia del nostro spirito.
    Noi, noi tedeschi, eravamo ellenici. La Grecia era la nostra origine e tale origine, come un mandato, ci imponeva di recuperare la sua grandezza e di conquistare la nostra. Tutto il Discorso del rettorato è intessuto con l’acciaio del discorso dell’autenticità di Essere e tempo, che Heidegger leggeva ai suoi studenti. Insegnava loro a leggerlo. L’ontologia fondamentale si riempiva di contenuti politici. Heidegger era il Führer dell’università. E come detto prima, nell’università di Heidegger regnava il Führerprinzip. Heidegger stava all’università come Hitler stava alla Nazione, alla comunità tedesca.
    Non c’è che da leggere alcuni frammenti sul «con-essere». È il maestro che parla, il grande filosofo del 900: «Ma se il Dasein, carico di destino, in quanto essere-nel-mondo esiste sempre e per essenza come con-essere con gli altri, il suo accadere è un con-accadere che si sostituisce come destino comune. Con questo termine intendiamo l’accadere della comunità del popolo». Nessuna astrattezza politica di Essere e tempo. L’ontologia fondamentale ha una sua politica. L’aspettava. La invocava. I grandi libri anticipano e creano i tempi.
    Nel 1933 Heidegger aveva ormai la fatticità del progetto esistenziale. Era il Nazismo. Ed Essere e tempo lo stava aspettando. I suoi concetti urticanti provocavano vertigini di stupore o di sgomento. Era tanto, ciò che il Führer Rektor esigeva. Dalla «comunità nazionale» si estese ai servizi che essa richiedeva. E il Discorso del rettorato, nell’imponente anno 1933, gli affidava i suoi compiti fattuali. La sua fatticità. Adesso.
    Heidegger poteva dirci come si serviva la comunità nazionale istituendo tre servizi. Il servizio del lavoro, il servizio delle armi, il servizio del sapere. La problematica dell’essere in generale esige dal popolo lavoro e lotta, e vincola indissolubilmente il popolo allo Stato. «Ogni capacità della volontà o del pensiero, tutte le forze del cuore e tutte le facoltà del corpo devono svilupparsi mediante la lotta, accrescersi nella lotta e perseverare nella lotta». Era Nietzsche letto da Heidegger. Non c’è n’è un altro. Il Nietzsche della Germania avrebbe dovuto essere quello di Heidegger e non quello di Alfred Rosemberg, coi suoi maldestri sproloqui razziali e biologisti. Heidegger, attraverso Nietzsche, ci diceva che la volontà è la lotta, e che per conservarsi deve accrescersi senza posa, perseverando nella lotta. Il destino vitale della volontà è crescere, e per essa crescere non è conservarsi ma aborrire la conservazione, perché crescere è conquistare, dominare, impossessarsi dello spazio vitale che essa, la volontà, richiede per poter espandersi.
    Conservazione e crescita definiscono la volontà di potenza. La quale sa, nella sua forza vitale infinita, che solo crescendo potrà conservarsi. E come si cresce? Lottando. Solo attraverso la lotta si conquista lo spazio che la volontà esige, lo spazio vitale. Ecco perché la parola «lotta» risuonava in tutta la sua potenza presso quell’uditorio infiammato. Risuonava nietzschiana, come solo Heidegger poteva far risuonare Nietzsche. Risuonava di conquista, di espansione, di guerra. Arrivò il finale: «Vogliamo», disse, «che il nostro popolo compia per intero la sua missione storica. Noi vogliamo noi stessi». Era la storia, stava accadendo e tutti c’eravamo, ne facevamo parte. Heidegger disse: «Tutto ciò che è grande…è nella tempesta». Tutti la riconobbero, era una frase di Platone, della Repubblica. Ma la parola «tempesta» non era platonica. Non era greca. Era una parola del grande Romanticismo tedesco. Era la parola con cui le SA avevano deciso di chiamarsi. Perché Heidegger disse «Sturm»? Platone diceva «pericolo». Diceva il pensatore greco: «Tutto ciò che è grande è in pericolo», ma non «tempesta».
    Sturm è una parola del Romanticismo delle SA. I reparti d’assalto si diedero questo nome fin da loro primo scontro di piazza a Monaco, nel corso dell’anno 1921. Ernst Röhm e i suoi uomini erano conosciuti con il nome di «Sturm Abteilung», reparti d’assalto.
    Heidegger ora con la parola «Sturm» aveva collegato Platone con le truppe d’assalto di R öhm. Di nuovo l’inizio conferiva il mandato della grandezza greca alla grandezza tedesca, che oggi doveva assumerla e guidarla in trionfo. Hegel: «L’assoluto era “passato” tra il popolo ebraico ed esso non l’aveva riconosciuto». L’aveva rifiutato. È vero: un grave errore che gli ebrei pagavano da quasi duemila anni.
    Immagini Allegate Immagini Allegate estratto conferenza su Heidegger, Londra 21/12 us-flyer2.jpg 
    Ultima modifica di FTW; 26-12-13 alle 13:51

 

 

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