di Massimo Mori
Il neoilluminismo italiano
Un’esperienza breve e coraggiosa
Sebbene sia preceduta da un lungo periodo di gestazione, del quale è difficile determinare l’ampiezza, sia cronologica sia geografica, la nascita ufficiale del neoilluminismo italiano ha una data precisa. Il 15 maggio 1953 Nicola Abbagnano (1901-1990) convocò un convegno inviando una lettera di invito a un gruppo di studiosi italiani di filosofia che, nella sua valutazione, si sforzavano «di orientare le loro ricerche fuori dalle tradizionali pregiudiziali di un necessitarismo metafisico o con rinnovate cautele rispetto a ogni forma di dogmatismo» (cit. in Il neoilluminismo italiano, 1991, p. 9). L’obiettivo polemico era primariamente filosofico, poiché l’iniziativa nasceva dalla preoccupata constatazione, emersa nei convegni nazionali della Società filosofica italiana del 1947 e del 1952, di una forte persistenza della cultura idealistica e di una sua rinnovata alleanza con l’indirizzo spiritualistico. Ma il fronte avversario assumeva una coloritura anche politica, se si pensa che in Italia lo spiritualismo, con o senza interconnessioni con l’idealismo, rappresentava solitamente gli interessi cattolici: d’altra parte, l’unica consistente forza di resistenza al mondo cattolico era costituita dal marxismo, che si limitava tuttavia, almeno nelle sue espressioni ufficiali, a contrapporre dogmatismo a dogmatismo.
La situazione era anche peggiorata dopo la fuoriuscita dei comunisti dal governo nel 1947, con cui si sanciva la rottura dell’unità delle forze politiche che avevano partecipato alla Resistenza, e il conseguimento della maggioranza assoluta da parte della Democrazia cristiana nelle elezioni politiche del 1948. In questo modo il bipolarismo tra cultura cattolica e cultura marxista si radicalizzò e si consolidò definitivamente: da un lato un cattolicesimo conservatore chiuso a ogni esperienza di rinnovamento, dall’altro un ambiente marxista egemonizzato dal Partito comunista italiano, fortemente subordinato alle direttive sovietiche. Molti intellettuali, almeno i più avvertiti politicamente e civilmente, percepivano la distanza tra le idealità, ma anche le concrete realizzazioni, che avevano caratterizzano i primi anni del dopoguerra e l’arretratezza culturale, la riproduzione stantia di vecchi cliché e, spesso, le compromissioni intellettuali che appesantivano l’atmosfera degli anni Cinquanta. A un’Italia che si era robustamente proiettata verso la democrazia e la ricostruzione socioeconomica faceva da contraltare un Paese che rivelava ancora per molti versi l’eredità dell’‘Italietta’ del regime. Riferendosi al problema dei rapporti tra cultura e società, Giulio Preti (1911-1972), che al neoilluminismo diede uno dei contributi più preziosi, nel 1957, a metà della parabola neoilluministica, illustrerà la situazione con icastiche parole:
Oggi, quando le speranze della Resistenza e della liberazione sono naufragate e di nuovo la reazione infuria nello sgoverno del nostro Paese, il problema pare abbia perduto di attualità: ma forse proprio per questo è il momento di rispolverarlo e rimetterlo all’ordine del giorno. Perché di nuovo l’uomo di cultura ha una responsabilità (Praxis ed empirismo, 1957, p. 230).
L’esigenza di riconnettere idealmente il movimento neoilluministico agli impulsi ideali della liberazione dal fascismo e della ricostruzione democratica era quindi consapevolmente vissuta da molti. Di questa consapevolezza è espressione emblematica il fatto che Ludovico Geymonat (1908-1991), all’inizio di quel lungo periodo di fermento culturale collettivo che sfocerà nell’esperienza del neoilluminismo, avesse voluto che i suoi Studi per un nuovo razionalismo, in cui era già prefigurata la sua posizione all’interno del gruppo, recassero simbolicamente la data di pubblicazione del 25 aprile 1945.
Che il dibattito filosofico fosse pesantemente condizionato dalla situazione culturale e politica del nostro Paese era del resto ben presente ad Abbagnano, se nel messaggio di convocazione egli faceva riferimento alle «difficoltà che si oppongono in Italia» all’affermazione di un nuovo indirizzo antidogmatico. L’impegno a cui si chiedeva di partecipare non era quindi soltanto accademico, ma in primo luogo civile: nella lettera di invito al convegno fondativo si auspicava che la «interpretazione non metafisica della ricerca filosofica» fosse applicata ai rapporti «fra indagine filosofica e vita politica» non meno che a quelli «fra indagine filosofica e ricerche scientifiche» (cit. in Il neoilluminismo italiano, cit., p. 9). E nel ‘manifesto’ che concluderà il convegno si sancirà la necessità di affermare
la responsabilità politica inerente all’impostazione aperta del lavoro filosofico e l’impegno di difendere e promuovere le condizioni di libertà che rendono possibile tale lavoro (p. 11).
Ovvero si trattava – le parole sono ancora di Preti – di «poter fare della filosofia un onesto mestiere» (Saggi filosofici, 1° vol., 1976, p. 476).
Alla chiamata alle armi risposero in molti. Al convegno che effettivamente si svolse il 3 e 4 giugno partecipò una trentina di studiosi, mentre altri otto aderirono al ‘manifesto’ con cui esso si concluse. Il gruppo torinese, oltre ad Abbagnano, era costituito da Norberto Bobbio e Geymonat (che però insegnava a Pavia), nonché da alcuni giovani della generazione successiva, tra cui emergevano Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano, allievi di Abbagnano, e Uberto Scarpelli, allievo di Gioele Solari e Bobbio, ma ormai legato all’ambiente milanese di Renato Treves. Consistente il gruppo di Milano, rappresentato dagli allievi di Antonio Banfi ‒ il quale tuttavia, senatore comunista impegnato in uno schieramento politico-culturale che Abbagnano giudicava dogmatico, non fu invitato: Remo Cantoni, Enzo Paci, Preti, Dino Formaggio, oltre a Paolo Rossi, assistente di Banfi, ma allievo di Eugenio Garin (che aderirà più tardi al progetto). A Milano insegnava anche Mario Dal Pra, il quale aveva studiato a Padova con Erminio Troilo. Significativo il gruppo dei giovani bolognesi, che aveva come termine di riferimento la rivista «il Mulino»: Nicola Matteucci, Antonio Santucci, Alberto Pasquinelli, Luigi Pedrazzi. A questi nomi vanno aggiunti quelli di altri studiosi, disseminati in varie università, da Andrea Galimberti (Genova) ad Andrea Vasa (Cagliari), da Guido Calogero (Roma) a Ferruccio Rossi-Landi, che studiava a Oxford.
Certamente, all’ampiezza delle adesioni al programma neoilluministico non corrispose altrettanta omogeneità nelle ascendenze culturali e nelle progettualità filosofiche dei componenti. Giustamente si è parlato in proposito di un «pluralismo strutturale» (Semerari 1969, p. 283). Del resto, già sul nome, neoilluminismo, non tutti erano d’accordo. Anche perché non univoco era lo stesso riferimento all’Illuminismo, che oscillava tra l’accezione storica del termine e la sua valenza di categoria del pensiero. Nella voce Illuminismo del Dizionario di filosofia di Abbagnano è connotato non solo dal kantiano sapere aude e dalla «estensione della critica a ogni credenza o conoscenza senza eccezione», ma anche dal riferimento a una conoscenza affratellata alla scienza e a una metodologia che le consenta di correggere continuamente i propri risultati. Anche le categorie storiografiche utilizzate nella Storia della filosofia – la scoperta dell’identità tra limite e possibilità nell’Illuminismo tedesco o l’introduzione della possibilità reale con Immanuel Kant – sono comprensibili soltanto attraverso il riferimento all’impianto concettuale complessivo del pensiero abbagnaniano. Più che coincidere con il movimento filosofico settecentesco, di cui Abbagnano rifiuta il radicalismo e a cui rimprovera d’altra parte di essere rimasto prigioniero di «miti» e «illusioni ottimistiche» (Scritti neoilluministici, a cura di B. Maiorca, 2001, p. 396), l’illuminismo indica un atteggiamento culturale e metodologico che attraversa le epoche, in modo che «l’illuminismo di oggi si salda all’illuminismo classico della Grecia antica» (p. 115).
Come Abbagnano, anche Norberto Bobbio (1909-2004) prende le distanze dall’ottimismo del 18° sec. e dalla sua «fiducia nel progresso indefinito dell’umanità»: consapevole delle incertezze della storia e della durezza del compito di razionalizzazione che attende l’intellettuale, egli si definisce piuttosto un «illuminista pessimista». Più che la tradizione settecentesca, della quale tuttavia non nega l’importanza nel processo di costituzione dello Stato e della borghesia moderna, Bobbio ha alle spalle l’esperienza gobettiana e lo studio di Carlo Cattaneo, «un illuminista rinato nel secolo dello storicismo». La «filosofia militante» di Cattaneo si presenta come un modello cui ancora ci si deve riferire per la soluzione dei problemi attuali:
In lui oggi ritroviamo una posizione di pensiero che possiamo definire utile al lavoro, che dobbiamo intraprendere, di adeguamento della cultura alla vita, della scienza all’azione, di liberazione dai miti vecchi e nuovi di una cultura corrotta (N. Bobbio,Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, 1971, p. 4).
Se generico è, tutto sommato, il riferimento all’Illuminismo dei ‘fondatori’ torinesi del movimento, ancora più sfumato appare il significato attribuitovi dall’altra sua colonna portante, il gruppo milanese. L’illuminismo a cui esso aspira è ancora quello di «Studi filosofici», cioè quell’«illuminismo umanistico» cui Banfi stesso, nel primo numero della rivista, aveva assimilato il suo razionalismo critico. Anch’egli guardava con sospetto l’Illuminismo del Settecento che, assolutizzando la scienza e la ragione, stravolgeva la concreta esperienza dell’«uomo copernicano» in una «riduzione intellettualistica astratta» (A. Banfi, Introduzione a Nietzsche, a cura di D. Formaggio, 1974, p. 21). L’«illuminismo umanistico» banfiano, e di parte del gruppo milanese, era dunque soltanto apparentemente convergente al «rinnovato umanesimo» che un altro neoilluminista, Eugenio Garin, ritrovava nella filosofia del Settecento. Malgrado la specularità delle espressioni, Garin riconosceva al Settecento la forza di un movimento emancipatore, che si alimenta di precedenti e forse più importanti vittorie culturali, mentre quello di Banfi rimane una pallida immagine di una cultura passata.
Al primo convegno torinese, del giugno 1953, ne seguirono altri otto, di cui la «Rivista di filosofia» pubblicherà regolarmente brevi resoconti: Scienza e filosofia(Milano, dicembre 1953), Significato e valutazione (Torino 1954), L’analisi del linguaggio storiografico (Torino 1955), La storiografia filosofica (Firenze 1956),Cultura e civiltà (Torino 1957), L’avvenire della dialettica (Milano 1958), un simposio di studi su John Dewey per il centenario della nascita (Santa Margherita 1960), Il linguaggio della filosofia (Torino 1962). I convegni non sono tuttavia l’unica attività in cui si esprime il movimento neoilluministico. Oltre ovviamente alle opere individuali in cui i singoli aderenti svilupparono le loro posizioni personali, fu determinante la produzione scientifica delle riviste filosofiche alle quali collaborarono.
Prima fra tutte la «Rivista di filosofia», dal 1952 diretta congiuntamente da Abbagnano e da Bobbio, la quale non solo pubblicò frequentemente i saggi dei neoilluministi o dei loro interlocutori, ma spesso servì come organo di diffusione delle relazioni presentate ai convegni o, soprattutto negli ultimi incontri, fornì il materiale preparatorio per la discussione: tuttavia né la «Rivista di filosofia», né alcun’altra divenne mai l’organo ufficiale del movimento. In considerazione della grande attenzione che almeno alcuni componenti del gruppo ebbero per gli studi sociologici, occorre ricordare anche i «Quaderni di sociologia», fondati da Abbagnano nel 1951 in collaborazione con il suo allievo Franco Ferrarotti. Accanto alle due riviste che facevano capo ad Abbagnano, ebbe grande importanza l’attività di riviste come «Studi filosofici» (1939-1949), fondata da Banfi, «Analisi», poi «Analysis» (1945-1947), alla quale collaborarono Preti e Geymonat, «Sigma» (1947-1948) e «Methodos» (1949), che pure avevano svolto la propria attività nel decennio precedente alla fondazione del movimento. Infatti, se il 1953 segna la data di nascita ufficiale del neoilluminismo, occorre tener conto di un precedente lungo periodo di fermento, soprattutto a Milano, che consentì ad Abbagnano di individuare i destinatari dell’invito al convegno fondativo. Non va dimenticata, infine, la prossimità dei neoilluministi con l’esperienza delle Edizioni di Comunità, di cui fu animatore a Ivrea, negli anni Cinquanta, Adriano Olivetti.
Quella del neoilluminismo fu una stagione breve. Il gruppo cominciò a sfaldarsi già prima della cessazione dell’attività convegnistica: nel caso dei più anziani, perché poco alla volta vennero alla luce le ambiguità insite nella loro apparente convergenza intellettuale; nel caso dei più giovani, perché ciascuno imboccò la propria strada, che era una strada diversa. Neppure l’incidenza sulla cultura italiana fu di grande portata se lo stesso Bobbio, nel congresso della Società filosofica italiana del 1973, ammetterà che «la nuova occasione d’incontro creata dalla costituzione del gruppo neo-illuministico non ebbe né grandi né durevoli effetti» (Empirismo e scienze sociali in Italia, in Atti del 24° Congresso nazionale di filosofia, L’Aquila 1973, 1° vol., Roma 1973, p. 16). È stato anche osservato che l’efficacia della polemica del neoilluminismo contro il tradizionalismo cattolico ebbe carattere soprattutto accademico, contrapponendo la parte laica delle Università di Torino, Milano, Pavia al neotomismo della Cattolica di Milano, al recupero della metafisica dell’ateneo padovano o allo spiritualismo di parte di quello torinese (Viano 2006, p. 70). Ma più in generale il tramonto del neoilluminismo venne a coincidere, per ragioni che andavano ovviamente molto al di là degli sforzi del gruppo, con la rinascita imperiosa di quelle chiusure metafisiche contro cui essi avevano tentato di allearsi:
Fra gli anni ’50 e ’60 – così ebbe a esprimersi un neoilluminista un po’ defilato, ma lucido come Garin – il richiamo della foresta, la nostalgia dei sistemi e delle concezioni definitive dell’essere, venne mietendo vittime anche tra coloro che parevano più solennemente impegnati in un lavoro serio (Garin 1966, p. 565).
È questa probabilmente la ragione per cui i due cofondatori torinesi – Abbagnano e Bobbio – nelle loro rispettive autobiografie non riserveranno particolare attenzione a quell’esperienza. Forse ingiustamente. È indiscutibile infatti che il movimento del neoilluminismo sia stato comunque un tentativo rarissimo di far filosofia attraverso le sinergie di intellettuali che condividevano un progetto culturale pur essendo di estrazioni molto diverse. Questa idealità rimane esemplare, anche se occorre riconoscere che l’intero progetto si resse, e poi cadde, sulla base di un equivoco di fondo. Studiosi che facevano riferimento a tradizioni, impostazioni e finalità differenti potevano forse convergere in un unico quadro programmatico, facendo appello agli stessi valori culturali e civili. Più difficile, anzi impossibile, era tradurre – e in ciò consistette l’equivoco – quella convergenza di intenti ideali in una concezione eclettica che esprimesse una comune posizione filosofica di base.
Un nuovo concetto di ragione
Il «nuovo illuminismo» aveva come premessa un rinnovato concetto di ragione. Quale fosse il modello di riferimento di questa nuova concezione è illustrato da Abbagnano nell’articolo Verso il nuovo illuminismo: John Dewey («Rivista di filosofia», 1948, 39, pp. 313-25) che può essere considerato il primo antecedente del movimento. Sullo sfondo dell’articolo c’è la distinzione, ribadita anche in altre sedi, tra ragione assoluta e ragione problematica. La ragione assoluta, che si appella al «mito di un ordine stabile e definitivo del mondo», presuppone la nozione dinecessità, in cui si compendia la categoria storiografica, assai dilatata, di «romanticismo» (dalla vera e propria corrente romantica all’idealismo e al positivismo, il «romanticismo della scienza»). Il nuovo concetto di ragione, incentrato sulla categoria della possibilità, parte invece dal presupposto del «carattere problematico dell’uomo, e del mondo in cui l’uomo vive» (N. Abbagnano,Scritti neoilluministici, cit., p. 99). Questa è l’intuizione fondamentale di Dewey, la cui filosofia è
certamente un fattore importante di quel nuovo illuminismo che da più parti si profila come l’unica esigenza della filosofia contemporanea, un illuminismo che, smessa l’illusione ottimistica dell’illuminismo settecentesco e il pesante dogmatismo del razionalismo ottocentesco, veda nella ragione ciò che essa è: una forza umana diretta a rendere più umano il mondo (Scritti neoilluministici, cit., p. 111).
Ma altre due correnti sono apparentate al modello pragmatistico deweyano dal riconoscimento della dimensione problematica: l’esistenzialismo, che descrive l’incertezza dell’esistenza umana con la duplice potenzialità, positiva e negativa, in essa implicita (Abbagnano pensa al proprio «esistenzialismo positivo», elaborato inLa struttura dell’esistenza del 1939, Introduzione all’esistenzialismo del 1942 edEsistenzialismo positivo del 1948), e il neopositivismo, di cui viene apprezzata soprattutto la premessa convenzionalistica, di matrice hilbertiana, che l’empirismo logico condivide con la matematica e la fisica contemporanea.
Abbagnano tornerà a precisare il carattere della ragione neoilluministica in un articolo pubblicato sulla «Rivista di filosofia» nel gennaio del 1952, L’appello alla ragione e le tecniche della ragione, destinato ad avere grande influenza sul movimento. Il termine ragione, vi si dice, può avere due significati. In un’accezione più lata esso indica «qualsiasi ricerca, in quanto tende a liberarsi da presupposti, pregiudizi e inceppi di ogni genere che tendono a vincolarla». Nel suo significato più ristretto, essa indica invece «una particolare tecnica di ricerca» (Scritti neoilluministici, cit., p. 155). In questo modo venivano espresse le due esigenze fondamentali del neoilluminismo: da un lato, esercitare una funzione critica nei confronti della cultura, della società e della ricerca stessa; dall’altro, legare strettamente la critica al rigore del metodo, che deve condurre alla definizione di precise tecniche della stessa indagine razionale.
Da questi due elementi costitutivi della razionalità discende una serie di caratteri specifici:



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