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    interessanti le informazioni (e taluni concetti base) contenute in questo articolo

    Economia
    Cavalcare le onde della globalizzazione

    di Massimo Lo Cicero

    Lo scorso dicembre la Banca Mondiale ha pubblicato un corposo rapporto sulle prospettive economiche che si aprono con il 2007: Global Economic Prospects: Managing the Next Wawe of Globalization. Alla fine di novembre un altro qualificato centro di osservazione della dinamica economica internazionale ha presentato il suo Economic Outlook: l’Oecd, la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che raccoglie un numero assai rilevante di paesi economicamente strutturati. Sulla base di queste due analisi si può ricostruire la natura dei problemi e delle sfide che l’economia mondiale dovrà fronteggiare nei prossimi anni. Per capire ancora meglio la dimensione relativa delle singole economie nazionali, tuttavia, è utile ricorrere anche ai dati esposti dal rapporto che annualmente predispone il Fondo Monetario Internazionale per descrivere, appunto, la dimensione e la dinamica dell’economia mondiale. L’edizione che utilizzeremo è stata pubblicata nel settembre del 2006 e si tratta del World Economic Outlook: Financial Systems and Economic Cycles.

    Individuiamo, per prima cosa, la dimensione relativa delle singole economie nazionali e dei loro aggregati: per misurare il peso, e di conseguenza l’impatto, che le variazioni della crescita in uno di questi paesi, od in un gruppo di essi ragionevolmente integrato, determinano sull’economia mondiale nel suo complesso. I dati si riferiscono al 2005 che, al momento della pubblicazione del rapporto del Fondo Monetario, erano quelli assestati. Ma è evidente che le proporzioni relative resteranno abbastanza stabili almeno fino alla fine del decennio in corso. Le economie avanzate (Usa, i dodici paesi dell’euro, il Giappone, il Regno Unito, il Canada ed altre tredici economie, tra cui rientrano le prime quattro del Sud-est asiatico) raccolgono il 15,3 per cento della popolazione mondiale ma generano il 52,5 per cento del prodotto lordo ed il 69,1 delle esportazioni di beni e servizi. L’Asia in via di sviluppo, che include la Cina e l’India, dispone del 52,3 per cento della popolazione mondiale, ma genera solo il 15,4 per cento del prodotto lordo ed esporta beni e servizi per il 12 per cento del totale mondiale. Le medesime percentuali sono, rispettivamente, pari al 3,7 per cento, al 2,8 per cento ed al 4,5 per cento per il Medio Oriente ed al 12,8 per cento, 3,3 per cento e 2,5 per l’Africa, nel suo complesso. La Csi, la confederazione che raccoglie i paesi europei confederati con la Russia, ospita una popolazione pari al 4,4 per cento del totale mondiale, genera il 3,8 per cento del prodotto, esporta il 3,1 per cento dei beni e servizi esportati nel mondo. I paesi dell’Europa orientale che non fanno parte della confederazione russa raccolgono il 2,9 per cento della popolazione e forniscono il 3,3 per cento del prodotto ed il 4,3 per cento delle esportazioni, sempre rispetto al totale mondiale. Fin qui abbiamo visto, in dettaglio, gruppi di paesi omogenei, ma diversi dal gruppo delle economie avanzate, così come esse vengono aggregate dagli analisti del Fondo Monetario. È naturale che il resto del mondo, in totale e rispetto ai valori delle economie avanzate, presenti il complemento a 100 dei valori che abbiamo ricordato sopra.Esiste, lo indicano chiaramente i dati, una grande disparità nella distribuzione della popolazione e della capacità di produrre ma anche nella capacità di esportare i beni ed i servizi, che ciascuna economia è in grado di produrre. Vediamo anche le dinamiche con cui sono cresciute queste economie negli ultimi venti anni. Tra il 1988 ed il 1997 il mondo è cresciuto al 3,4 per cento come media annua. Nel decennio seguente, dal 1998 al 2007, il tasso di crescita mondiale è stato pari al 4,1 per cento: è aumentato. Per le economie avanzate è accaduto il contrario: 2,9 per cento nel primo decennio e solo il 2,6 nel secondo. Ovviamente è il resto del mondo, rispetto alle economie avanzate, che è cresciuto di più nel secondo decennio e, così facendo, ha spostato in avanti la media mondiale: le altre economie, complessivamente, sono cresciute al 4,1 per cento nel primo decennio ed al 5,9 nel secondo decennio. Come sappiamo la Cina e l’India hanno fatto la parte del leone, con tassi di crescita del 9,9 e del 9,1 per cento in Cina e del 6 e del 6,6 per cento in India, rispettivamente nel primo e nel secondo decennio. Fin qui i dati principali pubblicati dal Fondo Monetario ed è in questo contesto che si deve collocare la diagnosi della Banca Mondiale sulle modalità necessarie per gestire la nuova onda di crescita suscitata dalla globalizzazione dell’economia.

    Secondo la Banca Mondiale i due motori della crescita saranno, fino alla fine del decennio, l’area del Pacifico e quella del Sud est asiatico oltre quella del sud dell’Asia stessa. Europa ed Asia centrale saranno un poco più veloci dell’America latina e dell’Africa subsahariana mentre il resto dell’Africa rimane, con grande probabilità, il fanalino di coda dell’economia mondiale. La integrazione economica, assicurata dal processo di globalizzazione, sta offrendo una chance di espansione a molte economie mondiali, periferiche o catturate da regimi ostili al mercato ed alla circolazione internazionale delle merci e dei capitali, fino alla fine degli anni Ottanta. Questa opzione viene colta da molti degli attuali protagonisti della scena mondiale e li porta a ridurre il gap che li separa dalle economie avanzate. La globalizzazione, insomma, riduce la povertà del mondo in termini assoluti ma crea disuguaglianze tra chi riesce a coglierne le opportunità e chi rsta incapace di catturare i vantaggi potenziali, offerti dalla possibilità di crescita che essa ha generato per tutti. Inoltre, ma questo è un problema ancora più delicato di quello della disuguaglianza relativa nella capacità di profittare delle onde della crescita, la globalizzazione genera problemi perché, essendo essenzialmente un fenomeno affidato alla competizione ed all’integrazione nei mercati delle merci, non può assicurare lo sviluppo dei beni collettivi e delle infrastrutture automaticamente e non è in grado di offrire un’adeguata tutela delle risorse naturali, che restano scarse sia rispetto ai bisogni della popolazione mondiale attuale che di quella futura. Esiste, infine, un ultimo problema legato alla formazione di capitale umano: la maggiore mobilità e la grande accessibilità assicurata dalla diffusione delle tecnologia dell’informazione e della comunicazione consentono a larga parte della popolazione mondiale di accedere a nuovi livelli di capacità e competenza. In questo modo si sta creando una ulteriore disuguaglianza nella struttura del patrimonio cognitivo e delle abilità individuali tra grandi regioni e singole nazioni.

    Negli anni che ci separano dalla fine del decennio in corso dovremo affrontare quelli che gli economisti chiamano problemi strutturali. Si tratterà di lavorare sui traguardi del capitale fisso sociale e del capitale umano (infrastrutture e beni comuni) e sulla tutela e l’impiego razionale delle risorse naturali su scala mondiale e non solo nei paesi sviluppati: che, proprio grazie al tenore di vita conseguito, avranno sviluppato una maggiore sensibilità verso questi problemi. Ma l’agenda che ci deve guidare fino alla fine del decennio deve anche contemplare alcune politiche di carattere congiunturale, destinate a dare stabilità al sistema economico mondiale nel suo complesso. Si tratta di garantire un maggior coordinamento dei cicli economici tra le economie avanzate, per evitare che le oscillazioni nel prezzo delle materie prime in relazione alle impennate della crescita e la variabilità del cambio tra euro e dollaro americano, in relazione all’asimmetria dei cicli congiunturali in questi due grandi mercati, diventino fattori di instabilità su scala globale e compromettano l’efficienza della crescita, necessaria per garantire la soluzione dei problemi strutturali, che abbiamo ricordato prima.
    La morale di questa storia è abbastanza evidente e rende obsolete molte delle convinzioni che dominano la discussione sulla politica economica in Europa. Gli Stati nazionali e le politiche da essi realizzate contano ma non sono più così determinanti come avveniva nella stagione passata: quella in cui il mondo era diviso dalla guerra fredda e dalla opzione ideologica a favore e contro l’economia di mercato. Gli Stati nazionali potevano, in quel contesto bipolare, agire sulle economie domestiche, incluse nei rispettivi perimetri nazionali, e creare condizioni di compromesso tra governi e sindacati, che stabilizzavano il ciclo e garantivano i livelli di occupazione. Il nuovo ordine mondiale è più aperto alla competizione e riconosce e premia il merito di chi agisce con lungimiranza, accelerando il ritmo della crescita e la possibilità di ridistribuire benessere per quegli Stati che mettono imprese e lavoratori in grado di produrre ricchezza. Gli Stati, quindi, possono e devono giocare piuttosto sul terreno della giustizia sociale e del supporto agli individui troppo deboli che non su quello dell’interventismo economico e del dirigismo industriale. Insistere su politiche economiche di quel genere peggiorerà le condizioni di vita per la popolazione degli Stati che vorranno farlo. La fine del decennio premierà chi saprà cavalcare l’onda crescente della globalizzazione e non chi riproporrà chiusure autarchiche e troppo protettive del mercato domestico: coloro che lo faranno saranno solo privati della forza generata dall’energia che muove l’onda della globalizzazione che, invece, deve essere utilizzata per migliorare il benessere nel mondo intero.

    maloci@tin.it

    Massimo Lo Cicero, professore di economia della comunicazione ed economia dell'informazione e della conoscenza all’Università di Roma Tor Vergata è esperto di politiche del Mezzogiorno e di globalizzazione. Collabora con il quotidiano Il Riformista.

    http://magazine.enel.it/emporion/rub...ion=24/01/2007

    Saluti liberali

 

 
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