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  1. #1
    Serenity is the devil
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    Predefinito La cultura della destra.Intervista a M.Veneziani

    Veneziani: Destra, una cultura sommersa
    «Tradizione, comunità, machiavellismo politico: molte anime convivono, eccetto il liberismo»


    In Italia sta emergendo una cultura di destra, sostiene Marcello Veneziani nel suo ultimo libro (La cultura della destra, Laterza). Non si tratta di qualcosa di assolutamente nuovo, ma di un fondo di abitudini, tradizioni, modi di sentire che hanno condizionato anche in questi cinquant'anni la vita nazionale, senza tuttavia trovare il modo di esprimersi apertamente.
    Oggi però qualcosa è cambiato. Il nuovo quadro - ha scritto Dario Fertilio sul Corriere della Sera - è «il frutto maturo del bipolarismo», che dopo qualche fase di assestamento ha messo insieme l'eterogenea famiglia composta da liberali, cattolici, nazionalisti, conservatori, reazionari, neocomunitari.
    Veneziani sottolinea anche un processo importante, non sempre avvertito: culturalemente parlando, la sinistra si va spostando sempre più «verso destra», e specularmente la destra oggi è molto più «a sinistra» di un tempo. Non per motivi tattici, di conquista dell'elettorato, ma per un cambiamento sostanziale delle nostre categorie di pensiero. La sinistra, morto il comunismo, è diventata liberal. Il radicamento popolare del vecchio Pci sfuma, e dal collettivismo si è passati molto rapidamente all'individualismo, all'emancipazione da qualsiasi legame sociale, cosa che - fa notare Veneziani - sintonizza non a caso gli amici di Veltroni con la sinistra americana.
    In compenso la destra ha cambiato nemico: tende ad abbandonare il «riferimento aristocratico, a volte esoterico» che la metteva in polemica con la democrazia di massa; oggi diffida delle elités e preferisce abbracciare «un riferimento popolare, se non populista».
    Veneziani, vedremo presto giornalisti, scrittori, uomini di cinema e di teatro convocati da Berlusconi ad Arcore per degli Stati generali come quelli celebrati a Roma da Fassino?
    «Io credo che la destra debba rifiutare l'idea del "partito degli intellettuali", dei fiancheggiatori che fanno partito. Quella dell'intellettuale collettivo è un'idea profondamente estranea al suo modo di sentire. Oggi poi a sinistra assistiamo a una ripresa rovesciata di quel mito: l'intellettuale non si identifica più nel partito, ma si costituisce in una specie di "Cobas", e pretende di guidarne la politica. Il modello però è sempre quello della "Società di pensiero" illuminista, una setta che deve in qualche modo dirigere il corpo sociale. Io a questo non credo. Credo piuttosto nell'autonomia della politica, nel senso machiavellico del termine».
    Non pensa che il «morettismo» sia una nuova spinta morale per la sinistra?
    «È solo una fase di supplenza dovuta a un momento di depressione collettiva. Nella migliore delle ipotesi serve a vivificare il senso di appartenenza alla tribù, ma non a conquistare consensi. È una posizione che consente sbocchi umorali a un'élite, fondata sull'indignazione permanente, una categoria moralistica, non politica».
    Spesso si dice che la destra non ha cultura.
    «Perché il parametro che usiamo per valutarla è quello della cultura di sinistra. Credo che non sia possibile compararle. La cultura di sinistra è un'elaborazione ideologica, fondata su certe tesi e certi autori. Quella di destra è sostanzialmente la tradizione, il senso di una continuità che si trasmette di generazione in generazione, modulandosi secondo forme nuove».
    Perché ha intitolato il suo libro «La cultura della destra», al singolare? Non esistono molte destre in Italia?
    «Mi sono voluto riferire a questo humus pre-politico, a una sensibilità che porta a valorizzare i legami con la tradizione, la propria comunità, il senso religioso... È una mentalità diffusa e sommersa nel nostro paese».
    Mi sembra di capire che lei non la considera come qualcosa di nuovo.
    «Infatti. Credo che esista una cultura di destra "naturale", una specie di fondo permanente che è l'anima di un popolo».
    Il filone liberale e quello tradizionalista come possono convivere?
    «Fermo restando che c'è un tradizionalismo chiuso in se stesso e un liberalismo che sconfina ormai nel nihilismo, credo che non ci sia totale incomunicabilità. Esiste un liberalismo realistico, quello di Toqueville, di Ortega y Gasset, della Arendt, che non è in conflitto con l'idea di tradizione. Si tratta di mediare sul piano politico».
    La cultura di destra finora non è emersa per una censura politica, o c'è stata una debolezza di elaborazione intellettuale?
    «Le ragioni sono molte. La prima è l'egemonia culturale della sinistra, che di fatto ha tarpato le ali ai discorsi non omogenei al suo progetto. In secondo luogo ha pesato l'identificazione con il passato, con il fascismo. Ma c'è anche un'altra ragione: la cultura di destra è un idem sentire ma non un idem pensare».
    La seconda metà del '900 ha rifiutato in blocco la cultura di destra, considerandola inaccettabile e pericolosa. Dove pone lei il confine tra la destra civile e quella estremista?
    «Io credo che in ogni cultura ci sia un rischio di degenerazione: quella di sinistra può sfociare nel comunismo, quella cattolica nell'inquisizione; in quella di destra c'è il rischio di recuperare esperienze del passato assolutamente squalificate. Non credo però che esistano autori "proibiti". Ci sono scrittori straordinari che hanno qualche pagina infame: va rifiutata, ma questo non significa che non dobbiamo leggere Céline o Ezra Pound».
    Chi sono gli autori di destra secondo lei?
    «Quasi tutti i principali del '900: penso a Gentile, Heidegger, Augusto Del Noce, Prezzolini, Gioacchino Volpe; in arte e letteratura a Marinetti, Pirandello, Pound, D'Annunzio, anche a Borges. Ovviamente è una classificazione approssimativa, ma se intendiamo per "cultura della destra" l'emersione del mito, del sacro, l'apertura ai valori comunitari, essa finisce per coincidere con la tradizione letteraria e filosofica dell'Occidente».
    Esiste un particolare «senso del mistero» a destra?
    «Una componente indubbiamente coltiva una visione esoterica, e magico-misterica della realtà. Si potrebbe farne una storia a ritroso, partendo da Mircea Eliade, e attraverso Jünger ed Evola. C'è però anche un filone di realismo positivo, soprattutto quello dei sociologi machiavellici come Pareto e Mosca».
    Non sempre la cultura passa dalle università e dai grandi giornali: un autore come Tolkien ha viaggiato a lungo sott'acqua...
    «È vero. Nell'immaginario collettivo il bisogno del mito, del sacro sono prorompenti. Questa emersione nella società mercantile e profana di contenuti diversi trova canali di espressione imprevisti. Tolkien è un buon esempio, anche se ovviamente possiamo chiamarlo solo in senso lato "di destra": in questi casi il linguaggio della politica è molto insufficiente».
    Non era lei a dire che la differenza destra/sinistra va superata?
    «In Sinistra e Destra: risposta a Bobbio, e in Comunitari e liberal ho sostenuto che quelle categorie sono ormai deboli. Da diversi anni dico che certe sensibilità si intrecciano rispetto agli schieramenti. Però, a fronte del deserto che avanza, è una distinzione che ci aiuta ancora a identificare due culture conflittuali, che esistono. Potremmo chiamarle in un altro modo, ma rifiutare ogni distinzione sarebbe ancora più equivoco. Ed è anche un modo per accettare l'idea di un'alternativa...».
    Per proporla forse.
    «Sì, occorre innanzitutto attivare un pluralismo culturale che oggi non c'è».
    Antonio Socci ha scritto che di fronte alla vittoria politica della Casa delle libertà gli intellettuali di destra sono latitanti. E che finiscono per riciclare vecchie idee di sinistra.
    «La cultura di destra agisce sul piano personale, attraverso percorsi individuali; credo che questo spieghi perché stentano a organizzarsi cenacoli intellettuali o fondazioni. Socci però faceva riferimento ai circoli liberal-liberisti. Dobbiamo allora dirci francamente anche un'altra cosa: che il liberismo è soprattutto una formula empirica, che fuoriesce dalla cultura. Se il mercato per noi diventa la misura di tutte le cose, non possiamo poi lamentarci che gli intellettuali abbiano un ruolo marginale».

  2. #2
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    Veneziani è quello che, commentando la manifestazione dell'Ulivo ha detto :

    Beh, se sono solo 120.000, non è cosi' importante?

  3. #3
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    sempre sagace il buon Veneziani... consiglio la lettura anche del suo "Di padre in figlio. Elogio della Tradizione", Laterza, 2001. Non ho ancora finito di leggerlo tanto è denso di riferimenti e pensieri illuminanti....

  4. #4
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    La scorsa settimana Algelo d'Orsi ha recensito il libro di Veneziani su La Stampa. Pur non essendo un appasionato di d'Orsi, devo dire che mi ha fatto estremamente piacere leggere che egli consiglia a Veneziani di curare una rubrica postale con i lettori, ritenendo che il Proteo di Bisceglie (la definizione è di Tarchi) sta all'intellettuale come la casalinga di Voghera sta ai giornalisti.
    Ormai Veneziani si è ridotto a divulgare il Berlusconi pensiero spacciandosi per un ribelle, e le sue opinioni sono un po' delle banalità, pillole di saggezza per animi nostalgici. D'Orsi, giustamente, ritiene che che Veneziani non possa certo confrontarsi con Junger, Schimtt o la Arendt, ma neppure con Baget Bozzo o Panebianco.
    Un sedicente intellettuale.
    Noi di Diorama l'abbiamo detto spesso. Dicevano che eravamo gelosi. Ora, finalmente, i nodi vengono al pettine
    Ciao.

 

 

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