Ivan Illich e il pervertimento del Cristianesimo
di Stefano di Ludovico - 14/08/2009

Fonte: Centro Studi Opifice
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Nel 1988, nonostante la notoria diffidenza verso le moderne forme della
comunicazione di massa, Ivan Illich accetta di rilasciare una serie di
interviste a David Cayley, giornalista della Canadian Broadcasting
Corporation e suo grande estimatore. Da tali interviste presero forma prima
un ciclo di trasmissioni radiofoniche trasmesse dalla Cbc l’anno successivo,
poi, nel 1992, un testo che, con il titolo Conversazioni con Ivan Illich.
Archeologo della modernità, fu pubblicato due anni dopo in Italia dalla casa
editrice Elèuthera. Dato l’esito felice di quella prima esperienza ed il
legame sempre più stretto stabilitosi tra i due, tra il 1997 e il 1999
Cayley ed Illich registrarono una nuova serie di interviste, sempre mandate
poi in onda dalla radio canadese, la cui trascrizione costituisce il
contenuto del testo in oggetto, pubblicato in Italia dall’editore Quodlibet
con il titolo Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David
Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità. Viste le tematiche affrontate da
Illich in queste interviste, così come gli anni in cui furono rilasciate –
gli ultimi anni di vita del pensatore di origini dalmate, quando le sue
opere principali erano ormai da tempo già state tutte pubblicate -, questi
testi rappresentano un po’ il bilancio definitivo di una riflessione
sviluppatasi nell’arco di oltre quarant’anni, e, per certi versi, il
testamento stesso dell’autore, che sarebbe scomparso di lì a pochi anni,
precisamente il 2 dicembre 2002 a Brema.
La pubblicazione della Quodlibet rappresenta altresì un ulteriore segno
della rinascita dell’interesse attorno alla figura ed al pensiero di Illich,
testimoniata dalla recente ripresa di pubblicazioni di suoi scritti, dopo
che, chiusa la parentesi costituita dagli anni settanta e ottanta, quando le
sue provocatorie ed originali posizioni circa i falsi miti della modernità
avevano suscitato una vasta eco nonché accese polemiche anche nel nostro
paese, il suo nome era caduto nel dimenticatoio e le sue opere, sebbene a
suo tempo edite da case editrici di larga diffusione, finite tra quelle
esaurite senza prospettiva alcuna di ripubblicazione. Del resto questa è la
sorte che la società del “pensiero unico” riserva solitamente ai pensatori
non-conformisti, agli intellettuali inclassificabili secondo le etichette e
le categorie del “politicamente corretto”: se la novità rappresentata dalle
loro “eretiche” tesi può garantire un certo successo, sono anch’essi
lanciati sul mercato, ma solo il tempo necessario a che la diffusione di
quelle tesi ne assicuri i meccanismi di riproduzione senza far troppi danni.
Sorte toccata perciò anche ad Ivan Illich: quale pensatore più difficilmente
etichettabile e classificabile di lui? Ordinato sacerdote nel 1951, nel 1969
rinuncia all’esercizio pubblico del sacerdozio in seguito al “processo”
intentato a suo carico dalla Congregazione per la Dottrina della Fede:
Illich era reo di aver preso duramente posizione contro l’attività
missionaria della Chiesa nei paesi del Terzo Mondo, attività che,
assecondando l’ideologia “sviluppista” delle agenzie umanitarie e degli
organismi internazionali, si rendeva complice dello sradicamento delle
culture indigene e quindi del processo di omologazione culturale in atto a
livello planetario. Pericoloso “sovversivo” per le gerarchie ecclesiastiche
e gli ambienti conservatori, Illich, che nella denuncia dei malsani processi
di omologazione aveva osato mettere sul banco degli imputati, accanto alla
Chiesa, l’istruzione di massa e l’eguaglianza tra i sessi, per gli ambienti
progressisti e di sinistra altro non era che un inguaribile quanto
insopportabile “reazionario”. Non c’è da meravigliarsi, così, che anche la
rinascita dell’interesse verso questo “inattuale” del pensiero sia
confinata, per lo più, ad ambienti e case editrici di nicchia che,
coraggiosamente, e tra l’indifferenza quasi generale degli ambienti della
cultura e della comunicazione “ufficiali”, portano avanti idee e battaglie
al di fuori degli schemi e dei pregiudizi consolidati.
In tale panorama, la novità rappresentata dal testo della Quodlibet è dovuta
al fatto che esso, a differenza di ciò che era avvenuto in parte con la
precedente trascrizione di interviste del 1992, non si limita alla semplice
riproposizione di idee e contenuti già ampiamente approfonditi da Illich
nelle sue opere principali, ma sviluppa una tesi che, seppur spesso
adombrata in quelle stesse, Illich non aveva mai autonomamente trattato e
chiarito nei suoi aspetti e risvolti di fondo. Per tale motivo, a dispetto
del carattere informale ed estemporaneo costituito dalla forma intervista,
quest’ultima pubblicazione può essere sicuramente annoverata tra i
“classici” del suo pensiero, offrendo al lettore, per molti versi, non
tanto una sintesi, quanto piuttosto un filo conduttore che riporta le
intuizioni e le tematiche affrontate negli altri testi ad una matrice
comune.
Volendo individuare un termine, un concetto, che meglio di ogni altro
caratterizza i mali e le contraddizioni della modernità secondo la
prospettiva di Illich, possiamo riferirci senz’altro a quello di “nemesi”,
che Illich utilizzò innanzi tutto nel suo celebre Nemesi medica in relazione
alla condizione della medicina del nostro tempo[1]. La società moderna,
infatti, nel suo complesso, sembra per Illich caratterizzarsi per il
rovesciamento sistematico delle prospettive e degli obiettivi ripromessi,
tradendo tutte le aspettative in una sorta di paradossale quanto perversa
eterogenesi dei fini. La medicalizzazione progressiva dell’esistenza
realizzata dalla società contemporanea proietta l’individuo in uno stato di
perenne “malattia”; l’istruzione obbligatoria in uno stato di costante
“ignoranza”; lo sviluppo indefinito dell’apparato tecnico-economico in uno
stato di permanente “bisogno”[2]. Proprio quest’ultimo, ovvero l’uomo come
soggetto di “bisogni”, sembra essere il fondamento stesso della modernità.
Più che l’“uomo economico”, è l’“uomo bisognoso”, secondo Illich, l’uomo del
mondo moderno, di cui quello economico è soltanto una variante. Il mondo
moderno nasce quando l’uomo, nella sua astratta generalità, inizia ad essere
visto come soggetto di bisogni permanenti e mai appagabili in via
definitiva, a partire dalla presunta scarsità di risorse generali
disponibili; bisogni che l’insieme delle istituzioni all’uopo costituite
sarebbe chiamato progressivamente a soddisfare. Una concezione, questa, che
per Illich non trova riscontro in alcuna civiltà del passato[3]. Ed è
proprio il metodo “genealogico” quello che più di ogni altro caratterizza l’analisi
e la riflessione di Illich, permettendogli di sfatare molti dei miti sui
quali si fonda il nostro tempo. Perché è solo lavorando con gli strumenti
dell’“archeologo”, solo riportando alla luce l’origine di idee e concetti i
cui significati noi diamo per scontati che è possibile scovarne la genesi
tutta moderna, smascherandone così la presunta universalità e validità
atemporale. In questo modo, grazie a tali ricostruzioni, Illich ci ha
mostrato – o ci ha indicato la via per ulteriori ricerche – come termini
quali “salute”, “istruzione”, “sviluppo” o “bisogno” in altre epoche
avessero un significato completamente diverso da quello attuale, o erano
addirittura assenti dal vocabolario. E se siamo capaci di questo sguardo
“genealogico”, di proiettare sul mondo una luce che supera gli angusti
orizzonti del tempo attuale, allora è possibile accorgersi che la società
che ha assicurato la salute a tutti è altresì quella in cui siamo tutti più
“malati”, così come l’epoca dell’istruzione di massa e dell’uguaglianza tra
i sessi è quella della più piatta omologazione culturale e antropologica,
che ha azzerato ogni pluralità e diversità tra i generi, le culture e i
gruppi umani[4].
Ebbene, nell’opera in esame, Illich sostiene che un mondo siffatto, ovvero
il mondo moderno, nei suoi valori e presupposti essenziali, affonda le sue
radici, come recita il titolo del libro, nel “pervertimento del
Cristianesimo”, ovvero in quelle idee cristiane che stanno sì alla base
della modernità come gran parte della riflessione occidentale ha ormai
riconosciuto, ma, secondo Illich, in un’ottica stravolta rispetto al loro
autentico significato. La “nemesi” fondamentale, quindi, sembra verificarsi
a partire dallo stravolgimento del messaggio cristiano delle origini;
stravolgimento foriero di mali incalcolabili, secondo l’antico detto, che
Illich fa suo, per cui corruptio optimi pessima: la corruzione del meglio è
il peggio. Uno stravolgimento a cui comunque, secondo Illich, il messaggio
originario di Cristo era potenzialmente aperto, così come lo è ogni etica di
tipo universalistico, e che ha finito per imporsi in Occidente come visione
dominante.
Per illustrare e chiarire al meglio questa tesi, Illich ricorre ad una sua
particolare lettura della parabola del buon Samaritano. Il fondamentale e
decisivo interrogativo a cui tale parabola intende dar risposta è come noto
il seguente: “Chi è il mio prossimo?” Per Illich, le diverse possibili
risposte che si sono date a tale domanda hanno deciso le sorti del
Cristianesimo e dell’Occidente tutto, fino ai suoi esiti moderni. Se per
Illich la rivoluzione del messaggio cristiano sta nell’assoluta libertà di
scelta lasciata al singolo nella determinazione del proprio “prossimo”,
libertà che spezza tutti i tradizionali legami di sangue, di stirpe o di
cultura (per cui “il mio prossimo – afferma Illich riprendendo le parole del
Vangelo – è chi decido io”), ben presto si è andata ad affermare una diversa
lettura, per la quale il “prossimo” è identificato con l’astratta umanità,
con la generica società, verso cui ognuno avrebbe il dovere di sentirsi
impegnato. Da qui il sorgere della Chiesa quale apparato
burocratico-assistenziale, istituzione di beneficenza a carattere
universalistico, volta a garantire il “benessere” dell’umanità, come si
sviluppa nel Medioevo soprattutto a partire dalla fine del XI secolo, e che
per Illich anticipa la nascita dello Stato moderno come anche delle
istituzioni sovrannazionali del mondo contemporaneo. In base a tale
prospettiva, l’uomo, da essere libero di determinare autonomamente il
proprio destino così come il “prossimo” con cui condividere le proprie
scelte, inizia ad essere visto come soggetto di per sé incapace di badare e
bastare a se stesso, strutturalmente “bisognoso” dell’aiuto e del soccorso
degli “altri”; altri che si sentono in dovere, e quindi in diritto, di
fissare le modalità ed i contenuti atti al soddisfacimento di tali presunti
bisogni. “Col messaggio cristiano – afferma Illich – […] amare l’altro,
amore, sguardo e conoscenza sono diventati possibili in un orizzonte
completamente nuovo. Ma esiste anche un nuovo pericolo: il tentativo di
gestire, di assicurare, di garantire questo amore con la sua
istituzionalizzazione, sottomettendolo a legislazione, trasformandolo in
legge, e proteggendolo mediante la criminalizzazione del suo contrario”[5].
Ed è proprio tale “istituzionalizzazione” dell’amore e della carità ad aver
prevalso, quando la libera scelta del Samaritano venne trasformata in un
“dovere”, in una “legge”, ed ogni condotta difforme in un’infrazione da
sanzionare, aprendo così le porte alla filantropia di Stato, alle cure ed
all’istruzione obbligatorie proprie della società moderna: “la nuova
possibilità di porci personalmente l’uno di fronte all’altro ha prodotto,
quale sua perversione, una vasta architettura di istituzioni impersonali che
pretendono tutte, in un modo o nell’altro, di prestare aiuto. I grandi
motori che mettono in movimento il nostro mondo – l’istruzione, la sanità,
come lo sviluppo economico e tecnologico – derivano tutti, in ultima
analisi, da una cooptazione della promessa di libertà del Vangelo. Gli
uomini di oggi possono vivere senza fede, ma vivono nondimeno dentro all’involucro
di una fede tradita”[6].
In tal modo, quello che doveva essere un ideale di libertà incondizionata si
è trasformato nell’esproprio di ogni capacità di scelta autonoma da parte
dell’individuo: come la Chiesa si considerò l’unica autorità in grado di
comprendere le effettive necessità dei fedeli e di determinare i mezzi atti
a garantirne la “salvezza”, oggi le istituzioni moderne, con i loro apparati
di “esperti”, si ritengono le uniche legittimate a conoscere i reali
“bisogni” dei cittadini e ad offrir loro i “servizi” adeguati al loro
soddisfacimento; bisogni che unitamente al correlativo bagaglio di “diritti”,
prima dell’affermarsi di una simile mentalità, nessuno in realtà si era mai
accorto di avere.
All’interno di tale quadro di riferimento, anche in queste interviste
Illich, come sempre nelle sue opere, ci offre acuti spunti di analisi e di
riflessione intorno ad aspetti cruciali della modernità, sempre
rischiarandoli attraverso lo sguardo “genealogico” e, dato il contesto,
cercando di ricondurli a determinate letture ed evoluzioni della teologia
cattolica medievale. Illuminanti appaiono così le pagine dedicate, tra le
altre cose, ai temi della “strumentalità”, della “tecnica”, delle “immagini”,
temi che Illich ritiene tra quelli fondamentali per comprendere il nostro
tempo e la sua radicale alterità rispetto alle epoche del passato, superando
i limiti della comune riflessione storico-filosofica che, quando si è
accostata a problematiche del genere, ha sempre dato per scontato che simili
concetti fossero sempre esistiti così come li concepiamo oggi.
La ricerca genealogica di Illich ci fa vedere, al contrario, come il
concetto di “strumento”, nel suo significato attuale, ovvero come qualcosa
di “neutro”, di distinto dallo scopo concreto per cui è stato concepito, e
perciò illimitatamente disponibile per ogni scopo, sia un’idea che si è
affacciata in Europa solo a partire dal Basso Medioevo; idea legata per
Illich ad un certo pervertimento della concezione creazionistica biblica,
secondo cui il mondo, in ogni istante della sua esistenza, sarebbe puramente
contingente, in quanto prodotto della libera volontà creatrice di Dio.
Quando, con la progressiva secolarizzazione di tale concezione, la volontà
creatrice passò gradatamente dalle mani di Dio a quelle dell’uomo, ecco che
la realtà fu vista come un semplice insieme di oggetti contingenti e quindi
manipolabili a piacere dalla volontà umana. Dall’idea di kosmos, di un mondo
in cui le cose sono disposte armonicamente secondo un ordine necessario, e
dove il “bene” non può che essere inteso come ciò che si conforma a tale
ordine, si passa al kaos di una realtà in cui gli oggetti non hanno alcun
senso se non quello che l’arbitraria volontà manipolatrice dell’uomo dà
loro. In tal modo, all’idea di “bene” subentrano i “valori”, realtà che
trascendono il mondo stesso e in base a cui il mondo dovrebbe essere
riplasmato, in modo sempre rinnovato e cangiante; perché i valori, in quanto
tali, sono mutabili e rinnovabili a seconda dell’arbitrio umano, relativi e
intercambiabili alla stessa stregua delle merci, che circolano e cambiano
valore a seconda delle circostanze. “Il mondo in cui mi trovo – dice
Illich – è in gran parte un mondo artificiale, prodotto tecnicamente, sempre
più lontano dalla creazione, un mondo nelle mani di esperti che, con una
sorta di orgoglio trascendente, presumono di gestirlo”[7]; un mondo in cui
“con la crescente intensità di strumentazione, va di pari passo […] una
mancanza di attenzione per ciò che tradizionalmente si chiamava gratuità,
atto non finalizzato, compiuto perché bello, buono, giusto, e non perché
inteso a conseguire, a costruire, a trasformare, a gestire qualcosa. Alla
fine dell’età moderna è diventato estremamente difficile parlare di cose che
non tendono a un fine, ma sono gratuite e buone”[8].
L’avvento dell’età della tecnica segna quindi per Illich la fine dell’antica
concezione della “strumentalità”, dove lo strumento era appunto un medium,
ciò che mediava tra l’uomo e il mondo; in tal modo esso restava un qualcosa
di separato e distinto da colui che lo usava, che manteneva così nei suoi
confronti una certa distanza. Tale distanza viene annullata nell’attuale
mondo della tecnica, che per Illich è definito al meglio dal concetto di
“sistema”, non a caso uno dei termini più usati oggi per connotare la
società contemporanea e le strutture che la costituiscono. In un “sistema”
non c’è più distanza, ovvero distinzione, tra lo strumento e il suo
operatore, essendo entrambi parte del sistema medesimo. Nell’idea di sistema
l’operatore è esso stesso uno strumento, che unitamente agli altri concorre
al perseguimento dei fini fissati dal sistema. Venendo meno la distinzione
tra operatore e strumento, tra mezzo e fine, l’intero mondo è visto come una
“macchina” il cui funzionamento diventa fine a se stesso. Ed è così che oggi
il computer è diventato “la principale metafora della consapevolezza di sé e
del mondo. Come la ruota suggeriva, una volta, la ruota del destino, e il
libro suggeriva il libro della natura, così oggi il computer suggerisce un’immagine
cibernetica del mondo: il mondo come rete, il mondo come ecosistema, il
mondo come testo genetico. E questa immagine cambia dalle fondamenta la
consapevolezza di sé degli esseri umani. Non stiamo più con un piede fuori
del mondo come utilizzatori di strumenti, lettori del libro della natura,
persone con un destino eterno. Siamo diventati parte del sistema”[9]. Tale
trasformazione ha per Illich mutato l’uomo e le relazioni umane fin nella
loro sfera fisiologica, corporale: “la concezione sistemica […] si allontana
dal vecchio corpo dei sensi in direzione di un ambito puramente teorico,
inaccessibile ai nostri sensi. Questa disincarnazione […] rappresenta una
grave minaccia per i rapporti personali, perché […] solo come persone che
possono soffrire, come persone dotate di un corpo, noi possiamo volgerci l’un
l’altro faccia a faccia”[10].
La “disincarnazione” dei rapporti umani determinata dalla strumentalità
tecnica è altresì conseguenza della concezione dell’immagine e della
percezione visiva proprie della modernità, concezione che secondo Illich è
possibile ricondurre, in qualche modo, allo stravolgimento dell’originaria
dottrina cristiana delle immagini sacre così come si impose in Occidente con
la fine delle lotte iconoclastiche che avevano lacerato la cristianità nell’Alto
Medioevo. Oggi, per Illich, nella cosiddetta “società dell’immagine”, l’uomo
non ha più il mondo davanti a sé; egli non è più in contatto con la realtà,
con gli altri, con il suo stesso corpo, ma con un’immagine astratta e
virtuale di essi, l’immagine proiettata di continuo nella sua vita dai
moderni mezzi di comunicazione. Questi mezzi non si limitano a manipolare la
realtà, ad offrircene un’immagine distorta: essi, oggi, sono la realtà, in
quanto unica lettura disponibile di essa. E che il mondo possa essere
rappresentato, conosciuto e vissuto attraverso la sua immagine - come la
realtà divina attraverso una sua raffigurazione – è anch’essa un’idea
recente, che si rende possibile a partire dalla stessa teoria moderna dell’ottica.
Anche l’atto del vedere, infatti, ha per Illich una storia, che deve essere
indagata per comprendere la moderna concezione dell’immagine e della società
che su di essa si fonda. Se per l’ottica moderna sono le cose che vediamo,
trasmesse dai raggi luminosi, a penetrare nei nostri occhi, gli antichi, al
contrario, “concepivano la visione come procedente dall’interno verso l’esterno,
come qualcosa che fuoriusciva dall’occhio attraverso la proiezione di un
raggio visivo. Nell’antichità classica lo sguardo era un’attività con la
quale la mia carne si spostava alla carne o, più precisamente, ai colori
degli oggetti su cui si volgeva”[11]. In tal modo lo sguardo veniva
concepito come un’azione intenzionale, volontaria, in quanto tale
addestrabile e raffinabile al pari di ogni altra azione umana, e non come
semplice ricezione passiva di ciò che ci viene dato dall’esterno. Secondo
Illich solo la moderna concezione del vedere ha reso possibile l’uso
perverso e devastante che dell’immagine ha fatto il mondo moderno: “il
passaggio dallo sguardo che si protende verso l’esterno all’occhio concepito
come una camera obscura è una precondizione perché sia possibile concepire l’immagine
[…] come un espediente didattico per conoscere la realtà. Nell’ottica
moderna come scienza della luce, si può fingere di creare un facsimile col
quale l’artista, o il suo committente, trasmetta a te, per mezzo dei tuoi
occhi, doxa e dogma: conoscenza. Non si può usare un facsimile come
sostituto della realtà là dove è lo sguardo a protendersi verso l’esterno”[12].
E’ così che l’uomo moderno ha sostituito il mondo con un suo “facsimile”,
una sua immagine, nell’illusoria convinzione che questa possa informarlo e
renderlo edotto circa la vera natura di quello. Il divieto delle immagini
sacre che accomuna diversi culti religiosi ha proprio questo scopo, ovvero
di prevenire una simile degenerazione: “il divieto vetero-testamentario
delle immagini e ancor oggi quello dell’Islam – afferma Illich – […] ha
fondamentalmente lo scopo di non farmi considerare il tuo volto come un’immagine,
non identificarlo […] col tuo ritratto o con la tua fotografia, o con ciò
che io interiormente immagino di te, ma di lasciarmi costantemente
vulnerabile di fronte a ciò che il guardarti in carne e ossa mi rivelerà di
me stesso. […] Il divieto dell’immagine è, al tempo stesso, un invito ad
essere spietato con me stesso nel cercare me stesso in quel che trovo
attraverso i tuoi occhi. […] Una volta concepito lo sguardo come quello di
una videocamera; una volta acquisita la capacità di parlare della visione
satellitare del mondo […]; una volta acquisita l’abitudine di vedere dinanzi
ai miei occhi cose che per la loro propria natura non sono nell’ordine del
visibile […], noi perdiamo sempre più l’abitudine di fissare il nostro
sguardo su ciò che cade direttamente sotto i nostri occhi”[13].
Posto di fronte a un mondo che sembra non appartenergli più, dove il
virtuale ha sostituito il reale ed è venuto meno ogni scopo che non sia
quello della riproducibilità tecnica volta alla soddisfazione di bisogni che
il sistema stesso crea indefinitamente, l’uomo contemporaneo avverte una
crescente sensazione di spaesamento e di impotenza. La fede che ha ispirato
la modernità, la convinzione di aver trovato la chiave per trasformare il
mondo, di programmare il futuro in termini di sicurezza garantendo libertà e
benessere tramite la loro “istituzionalizzazione”, sembra ormai essere
entrata in crisi e la realtà appare sempre più come un qualcosa di caotico
ed ingestibile, che non ispira più alcuna fiducia. “La credibilità di un
mondo costruito in base alle idee di cittadinanza, responsabilità, potere,
uguaglianza, bisogni-rivendicazioni-diritti – afferma Illich – la
credibilità di questi ideali ai quali vale la pena di consacrare la propria
vita, sta declinando […] molto rapidamente. La maggior parte delle persone
ritiene questo un serio pericolo […]. Io voglio suggerire la possibilità di
vederlo come la fine di un’epoca, proprio come l’Impero romano ai tempi di
Agostino”[14]. E se l’ideologia dei “bisogni” e dei “diritti”, l’ideologia
che crede di assicurare l’“amore” attraverso lo Stato come ha creduto di
assicurarlo la Chiesa nel corso dei secoli “trova ancora espressione con i
bombardamenti Usa su Milosevic, su Gheddafi o sull’Iraq, come riconoscimento
dei diritti umani dei loro cittadini”[15], Illich ci invita, tramite la sua
“archeologia”, a scavare più a fondo dentro le contraddizioni ed i paradossi
del nostro tempo, perché “solo nello specchio del passato diventa possibile
riconoscere la radicale alterità degli assiomi moderni”[16]. Così, grazie
alla capacità di prendere le distanze, la capacità di straniamento, possiamo
ancora cogliere e far risaltare le differenze, le rotture che nella storia
si sono determinate, facendo riemergere significati perduti e sentieri
interrotti, come quelli indicatici dal Samaritano, per cui l’amore è un dono
gratuito che non soccorre alcun bisogno e non si aspetta, o pretende,
garanzie o assicurazioni di sorta. Questo scavo, questa capacità,
rappresentano gli strumenti più preziosi per superare quella sensazione di
disorientamento e di sfiducia che ci avvolge tutti e, in un’epoca che volge
al termine senza che nuove strade sembrano ancora delinearsi con nettezza,
ci consentono di riappropriarci quanto meno di uno sguardo libero e
disincantato per descrivere e cogliere più adeguatamente la nostra
condizione. Il rischio, altrimenti, è di rimanere per sempre invischiati tra
le maglie di un mondo dove “non solo abbiamo perduto il senso del bene, di
ciò che si confà, ma abbiamo perduto anche qualsiasi modo di riconoscere
questa perdita stessa”[17].
NOTE
[1] Cfr. Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano,
Mondadori, 1977.
[2] Tali tematiche sono sviluppate, rispettivamente, in Nemesi medica. L’espropriazione
della salute, cit., Descolarizzare la società, Milano, Mondadori, 1972, Per
una storia dei bisogni, Milano, Mondadori, 1981.
[3] Per l’analisi del concetto di “bisogno”, vedi soprattutto Per una storia
dei bisogni, cit., e Nello specchio del passato, Como, Red, 1992.
[4] La critica del moderno concetto di uguaglianza tra i sessi è sviluppata
da Illich soprattutto in Il genere e il sesso. Per una critica storica dell’uguaglianza,
Milano, Mondadori, 1984.
[5] Ivan Illich, Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David
Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità, Macerata, Quodlibet, 2008, p.17.
[6] Ibidem, p.27.
[7] Ibidem, p.68.
[8] Ibidem, p.48.
[9] Ibidem, p.91.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem, p.53.
[12] Ibidem, p.61.
[13] Ibidem, p.66.
[14] Ibidem, p.95.
[15] Ibidem, p.93.
[16] Ibidem, p.68.
[17] Ibidem, p.76.
Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo,
Chiesa, modernità (a cura di Fabio Milana)
Edizioni: Quodlibet, Macerata 2008
Pagine: 160