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  1. #1
    Qoelèt
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    Red face Tradizione ortodossa e modernità

    È normale per una religione "acculturarsi", ricevere cioè determinate coordinate
    dalla cultura di una qualche società, la quale a sua volta si "struttura" nel rispetto di
    quella religione. Per quanto riguarda il Cristianesimo Ortodosso, l'Impero Romano
    d'Oriente e la Russia degli Zar (specie prima di Pietro il Grande) sono ottimi esempi di
    questa mutua "corrispondenza" tra religione e società. Ma cosa accade quando, a
    seguito di improvvisi mutamenti tecnologici e, conseguentemente, socio-culturali, quelle
    coordinate vengono meno? All'alba del terzo millennio, le grandi religioni tradizionali
    sembrano trovarsi come innanzi ad un bivio: ri-formarsi (elaborare cioè una nuova
    forma) tenendo presenti le mutate condizioni socio-culturali, o, in alternativa,
    rispondere alla modernità, attingendo alla propria tradizione. Nessuna di queste due
    strade permette, in ogni modo, di prescindere da un incontro-scontro con la modernità
    stessa. Ci sembra difficile, comunque, pensare che nel mondo ortodosso sia possibile
    una qualche riforma che possa andare più in là della precisazione filologica di un
    qualche testo liturgico: la storia insegna come gli ortodossi siano refrattari a qualunque
    tipo di riforma che tocchi, o sembri anche solo toccare, questioni dogmatiche o rituali.
    Non ci risulta che in Occidente, all'indomani delle riforme liturgiche del Concilio di
    Trento, ci sia stata una reazione anche solo analogicamente paragonabile al Raskol[1],
    lo scisma degli starobriadzi, al seguito della "riforma" liturgica (che non era certamente
    una vera e propria riforma, ma tuttalpiù un "aggiustamento" liturgico) del Patriarca
    Nikon. Per venire a tempi più recenti, fenomeni come lo scisma di Monsignor
    Lefebvre, a seguito della "rivoluzione" del Concilio Vaticano Secondo, impallidiscono,
    se paragonati alla dolorosa questione del calendario liturgico[2], nata a seguito della
    discutibile introduzione, su ispirazione del Patriarca Ecumenico Melezio, del calendario
    gregoriano per le feste a data fissa, nel 1924.

    1) Ortodossia, modernità, nichilismo.

    Cominceremo col prendere in esame la posizione del teologo americano Seraphim Rose (1934
    - 1982) che ha elaborato una critica radicale della modernità e delle sue coordinate culturali. In
    particolare egli si è soffermato su quella che considerava la stessa "radice" della modernità: il nichilismo,
    che già a partire da Cartesio, ma in modo particolarmente virulento negli ultimi due secoli e mezzo, si è
    affermato in Occidente. Il p. Seraphim Rose aveva intrapreso la stesura di una colossale "Critica della
    modernità", un'opera rimasta purtroppo incompiuta, The kingdom of man and the Kingdom of God; di
    essa è stato steso per intero soltanto un capitolo, dedicato appunto al Nichilismo[3], e pubblicato
    postumo. Per "nichilismo" egli non intende però semplicemente quelle filosofie di ispirazione
    nietzscheano-heideggeriano cui oggi si da questo nome, ma, in genere, tutte quelle filosofie o movimenti
    filosofici in cui non sia contemplata una Verità unica ed assoluta, meta-fisica e meta-empirica:

    ...la questione del nichilismo è, nel più profondo, una questione di verità;
    è, in realtà, la questione della verità.
    Ma cos'è la verità? La questione è innanzitutto una questione di logica:
    prima di discutere del contenuto della verità, dobbiamo esaminare la sua
    stessa possibilità di esistere e le condizioni del postulato della sua
    esistenza. E per "verità" intendiamo naturalmente – come la sua
    negazione da parte di Nietzsche dichiara esplicitamente – la verità
    assoluta che abbiamo già definito come la dimensione dell'inizio e della
    fine delle cose.
    "Verità assoluta": per una generazione cresciuta nello scetticismo e non
    abituata al pensiero serio, l'espressione ha un suono antiquato. Nessuno,
    certamente – è l'idea comune –, nessuno è così ingenuo da credere più
    nella "verità assoluta"; ogni verità, nella nostra età illuministica è
    "relativa". Quest'ultima espressione – "ogni verità è relativa" – è la
    traduzione popolare dell'espressione di Nietzsche "non c'è verità
    (assoluta)"; questa semplicissima dottrina è il fondamento del nichilismo
    sia per le masse che per l'élite.[4]

    La critica di Seraphim Rose si estende poi con l'analisi del nichilismo nelle fasi della sua
    "dialettica", fasi che vengono interpretate come stadi via via più gravi di una malattia[5]:
    il liberalismo, fase "passiva" ed "implicita", da cui si passa al realismo, sua vera e
    propria esplosione e al vitalismo, suo cronicizzarsi, fino al delirio del nichilismo della
    distruzione o nichilismo puro.

    Il liberalismo non è inteso come una forma di nichilismo esplicito; "esso è
    piuttosto un nichilismo passivo o, ancora meglio, il neutrale terreno fertile dei livelli più
    avanzati di nichilismo"[6].

    E' qui chiara l'allusione, oltre che al liberalismo economico-politico, a quel liberalismo
    teologico protestante contro cui in questo secolo si è scagliato K. Barth: una chiara e
    quasi esplicita matrice nichilista è d'altronde ravvisabile in molta produzione
    filosofico-teologica nell'ambito dell'Idealismo, per esempio in Jacobi, ma anche, seppure
    meno chiaramente, in Hegel. Il liberalismo, pur continuando a professare tutta una serie
    di idee e valori che saranno rigettati nelle successive fasi della dialettica nichilista, li
    svuota completamente o quasi di significato: "Non si tratta di un atteggiamento di aperta
    ostilità e neppure di disinteresse deliberato, perché i suoi sostenitori sinceri hanno senza
    dubbio una considerazione genuina per ciò che considerano essere la verità; piuttosto è
    un atteggiamento in cui la verità, nonostante certe apparenze, non occupa più il centro
    dell'attenzione"[7]. Con il termine realismo l'Autore vuole invece indicare "la dottrina
    che fu divulgata esattamente sotto il nome di nichilismo da Turgenev in Padri e
    figli"[8], tutte le forme dunque di naturalismo e di positivismo; il realista supera il
    liberalismo, ne supera cioè le contraddizioni interne, portando l'atteggiamento liberale
    alle sue più estreme conseguenze: "Se non c'è immortalità, crede il liberale, uno può
    nonpertanto condurre una vita perbene; 'se non c'è immortalità' – è la logica molto più
    profonda di Ivan Karamazov nel romanzo di Dostoevskij – 'tutto è permesso'"[9]. Il
    realista non fa dunque altro che eliminare quelle idee e quei valori che il liberale aveva,
    pur mantenendoli, svuotati di significato. Vitalista è, ancora, chi tenta un superamento,
    questa volta "positivo", dell'atteggiamento realista senza però riuscirvi sino in fondo. Si
    ha con il vitalismo – ovvero soprattutto con la cultura e la filosofia "decadente" di fine
    ottocento – la presa di coscienza di uno stato di malattia ed il tentativo di porvi rimedio,
    senza però andare al nòcciolo del problema: "Il principale impulso intellettuale del
    movimento vitalista è stato una reazione contro l'eclisse di realtà più alte nella
    'semplificazione' realista del mondo. Detto questo, dobbiamo d'altra parte riconoscere
    l'assoluto fallimento del vitalismo su questo piano.".[10] Il nichilismo della distruzione
    è infine un nichilismo quasi allo stato "puro", "un furore contro la creazione e la civiltà
    che non troverà pace finchè non le avrà ridotte al nulla assoluto"[11]. Il nichilismo della
    distruzione è una peculiarità dell'età contemporanea. Qui si tocca secondo il nostro
    Autore, la punta estrema dell'ideologia nichilista. L'ideale della distruzione dell'antico
    ordine (cristiano) per l'edificazione di un ordine nuovo (anticristiano) giunge all'apice.
    Siamo nell'era dei terribles semplificateurs, Lenin e Stalin da una parte, Hitler e
    Mussolini dall'altra, che "con le loro soluzioni radicalmente 'semplici' dei problemi più
    complessi"[12], avrebbero seminato distruzione per l'intero trentennio 1914 - 1945.

    2) Caratteri antiascetici della modernità

    La civiltà moderna è profondamente antiascetica, come ha notato il teologo
    greco Kostas Delikostantìs, fondata sull'edonismo e sul materialismo[13]; antiascetica
    soprattutto per aver travisato il significato profondo dell'ascesi, generalmente fraintesa e
    pensata come il risultato di una antropologia dualistica e di un'etica egoistica ed
    egocentrica, per la quale la "salvezza dell'anima" è, secondo l'espressione nietzscheana,
    "il mondo che gira intorno a me"[14]. I motivi di un tale fraintendimento dell'ascesi
    vanno cercati, secondo il teologo greco, in certa teologia occidentale[15].

    L'ascesi è profondamente legata al problema della libertas, ma la nostra è una
    civiltà che decide liberamente di abdicare alla libertas per ricercare una felicità[16] che,
    oltre ad essere fittizia, si risolve in una vera e propria schiavitù. Nell'analisi di ciò si è
    dimostrato veramente profetico Dostoevskij, con la Leggenda del Grande Inquisitore.
    L'uomo di oggi "vuole creare un mondo ove sarà assicurata con ogni mezzo la più alta
    eudemonia per il massimo numero possibile di uomini ", un mondo in cui " non c'è
    posto per la libertas, che sembra non conciliarsi con il mondo del bisogno organizzato e
    con la logica della crescita inarrestabile della potenzialità di consumo"[17].

    Anche Seraphim Rose aveva notato il carattere antiascetico della modernità, in
    particolare per quanto riguarda la cosiddetta "nuova coscienza religiosa", e soprattutto il
    "risveglio carismatico"[18]. La sua critica andava anche a taluni pensatori ortodossi che,
    nell'ambito di un confusionario quanto improbabile pentecostalismo ortodosso,
    parlavano di una "Nuova Cristianità" senza ascesi e senza monachesimo[19].

    3) La visione del mondo

    L'Ortodossia, come ogni confessione religiosa ha una propria visione del
    mondo, un proprio punto di vista sull'umana avventura e sul suo significato. La
    weltanschaung ortodossa[20] si manifesta poi pienamente in quel concetto di societas
    christiana che a partire da Eusebio di Cesarea, fino a San Cosma l'Etolico e a San
    Giovanni di Krostandt, è punto essenziale della sua tradizione teologica. L'ideale di
    societas christiana nell'Ortodossia è l'Impero Cristiano. Caduto quasi definitivamente
    questo ideale con la Rivoluzione d'Ottobre, oggi l'Ortodossia si trova in una condizione
    di sradicamento culturale molto più di altre Confessioni cristiane che hanno già avuto
    modo, nel passato, di confrontarsi, positivamente o negativamente, con la modernità.
    Per questo motivo l'Ortodossia si trova però anche in una posizione privilegiata. La
    civiltà occidentale è oggi alle prese con una profonda crisi culturale che tende a
    cristallizzarsi, sotto certi aspetti, in una inquietante "cultura della crisi" – basti leggere
    talune pagine letterarie del nostro secolo[21] – a cui le Confessioni cristiane occidentali
    – questo è il giudizio da parte ortodossa – non sono in grado di rispondere. Il
    Cristianesimo occidentale – Cattolicesimo romano e Protestantesimo – viene spesso
    accusato da parte ortodossa di essere un responsabile fondamentale della "mentalità"
    moderna. Si noti a questo proposito l'attacco al Cattolicesimo romano da parte del
    Principe Mynskin, ne L'idiota di Dostoevskij, che proponiamo qui nell'analisi di D.
    Barsotti.

    Il Principe viene a scoprire che il suo benefattore Paviliscev si era fatto
    cattolico e ne rimane sconvolto. "Come mai poteva egli abbracciare una
    religione anticristiana?"... Lo interrompe un dignitario... "Il Cattolicesimo
    sarebbe dunque una religione anticristiana? Non capisco". E il Principe
    riprende: "Sì, anticristiana prima di tutto; in secondo luogo il
    Cattolicesimo Romano è peggiore dell'ateismo. L'ateismo non fa che
    predicare il male, il Cattolicesimo va oltre e predica un Cristo travisato...
    calunniato e oltraggiato, un Cristo che è l'antitesi del Figlio di Dio.
    Predica l'Anticristo ve lo assicuro ve lo giuro!... Il Cattolicesimo Romano
    crede e bandisce che senza il dominio universale sulla terra la Chiesa non
    può sussistere... No, non è una religione, è invece la continuazione
    dell'impero romano d'occidente. Tutto in esso, a cominciare dalla fede è
    subordinato a questa idea... Roma ha tutto barattato per denaro, per
    consolidare il dominio terreno... Roma è la sorgente prima dell'ateismo...
    Esso è il prodotto della menzogna e della potenza spirituale (dei romani
    pontefici)". E continua: "Anche il socialismo è figlio del Cattolicesimo".
    E finalmente si scopre: " Per resistere all'Occidente dobbiamo opporgli il
    'nostro' Cristo... Il rinnovamento di tutto il genere umano anzi la sua
    risurrezione (si compirà) per virtù dell'unica idea russa, del Dio russo, del
    Cristo russo...".[22]

    D. Barsotti accusa Dostoevskij di incomprensione per i suoi negativissimi giudizi sulla
    Chiesa Cattolica. Scrive tra l'altro:

    Nel suo durissimo attacco contro la Chiesa si rivela tutto il carattere
    passionale dello scrittore... E' vero che il suo amore per Cristo non portò
    lo scrittore a sentire e riconoscere il mistero della Chiesa. Il suo
    attaccamento alla Chiesa Ortodossa fu più frutto del suo amore al popolo
    russo che del suo amore a Cristo. Questo ci può far capire almeno un po'
    la sua polemica contro la Chiesa Cattolica. La Chiesa non gli richiamava
    il Cristo, ma il popolo, e se la Chiesa Ortodossa era inseparabile per lui
    dal popolo russo, la Chiesa Cattolica doveva per lui rappresentare la
    pretesa di un potere universale, che avrebbe escluso la vocazione
    messianica del suo popolo.[23]

    Sono parole certo molto forti ed in larga parte non condivisibili, poichè Dostoevskij non
    vedeva certamente nell'Ortodossia (che beninteso ha la stessa pretesa di universalità e
    "cattolicità" della Chiesa di Roma) la "Religione dei russi", ma semmai scorgeva, in
    assonanza con gli slavofili, un ruolo fondamentale della Chiesa Russa all'interno
    dell'Ortodossia mondiale.

    4 ) Prospettive

    Quali sono le prospettive del rapporta tra Ortodossia e società moderna? Vogliamo
    rispondere, e concludere con le parole del p. Simeone di Grigoriou, un monaco athonita. Queste parole,
    forse ottimistiche, sembrano risuonare come profetiche: presagiscono uno sviluppo della crisi di cui
    abbiamo sin'ora parlato nella direzione di un "ritorno alla Fede" (Fede forse mai esplicitamente
    abbandonata) della società odierna. Se anche le statistiche danno torto a queste speranze, appare
    evidente che un altro cammino non è possibile né pensabile da parte del Cristianesimo Ortodosso:

    Abbiamo il privilegio di vivere in un'era in cui non rimane più pietra su
    pietra. La conseguenza ultima dei valori e degli ideali esaltati dalla società
    occidentale è stata la disintegrazione della società stessa. Considero
    piuttosto positivo e stimolante il fatto di vivere in una cultura in rovina.
    Quei valori ed ideali erano idoli distrutti dalla loro stessa illusoria
    efficienza. Adesso abbiamo la possibilità di ricominciare daccapo con la
    ricca esperienza del passato. Come monaco ortodosso credo nella fertilità
    dello zero. Penso che quegli idoli fossero il frutto di una inconscia ma
    errata ricerca dell'autentico Valore, del vero Dio nel quale tutti i valori
    sono ricapitolati. Furono di fatto formulati per giustificare le egoistiche
    passioni umane. Tale esaltazione dell'uomo ha portato la società
    occidentale ad abbandonare non solo la fede in Dio, ma anche quella
    nell'uomo stesso. [24].
    Tratto da "La Pietra" n 4/1999 pp.4-15



    [1]Si indica normalmente con il termine Raskol lo scisma dei vecchio-credenti, o
    vecchio-ritualisti, starobriadzi, avvenuto durante il patriarcato di Nikon (1652 - 1666).
    Quella di Nikon non fu,in effetti, una vera e propria rifoma, in quanto egli si limitò
    sostanzialmente ad adattare, seppure discutibilmente, il Trebnik russo sulla base
    dell'Euchologhion greco. Le proteste a tale adattamento si fecero nondimeno sentire, e
    culminarono nello scisma (in russo appunto raskol), ad opera soprattutto dell'arciprete
    Avvakum. I vecchio-credenti si divisero poco dopo in sacerdotali (aventi gerarchia
    ecclesiastica) e asacerdotali (senza gerarchia ecclesiastica). Il Raskol prosegue tutt'oggi,
    anche se non mancano in Russia parrocchie vecchio-ritualiste in comunione con il
    Patriarcato. Cfr. Giorgio Fedalto, Le Chiese d'Oriente, vol.3, Milano, Yaca Book,
    1995, pp. 60-63. Da notare che nel testo di G. Fedalto sono presenti non poche
    imprecisioni.

    [2]Il movimento "vecchiocalendarista" nasce nel 1924, a seguito dell'introduzione del
    cosiddetto nuovo calendario. Come è noto, la Chiesa Ortodossa utilizzano il calendario
    giuliano, non avendo accettato per ragioni canoniche quello"gregoriano" elaborato in
    occidente. Il nuovo calendario molto discutibilmente introdotto da Melezio utilizza il
    calendario gregoriano per le feste a data fissa e quello giuliano per le feste a data
    mobile.

    [3]Seraphim Rose, Nihilism. The root of the Revolution of the Modern Age,
    SHB,1994; trad. it.: Nichilismo. Le radici della rivoluzione dell'età moderna, Sotto il
    Monte, Servitium-Interlogos, 1998.

    [4]Ibid. pp.15 - 16.

    [5]Scrive il teologo: "Padre Ivan di Kronstandt, quel santo uomo di Dio, ha paragonato
    l'anima dell'uomo a un occhio, malato a causa del peccato e perciò incapace di vedere il
    sole spirituale. Il paragone può essere usato per descrivere l'evoluzione della malattia del
    nichilismo, il quale non è nient'altro che un'elaborata maschera del peccato. (...) Il
    primo stadio del nichilismo, che è il liberalismo, è nato dall'errore di aver scambiato il
    nostro occhio malato per un occhio sano, di avere confuso l'immagine percepita dalla
    sua vista deteriorata per la vera visione del mondo, e di avere perciò congedato il
    medico dell'anima, la chiesa, del cui ministero l'uomo "sano" non ha bisogno. Nel
    secondo stadio, il realismo, la malattia lasciata senza le cure indispensabili del medico si
    aggrava; la vista si riduce; gli oggetti lontani, già oscuri di per sé nello stato "naturale"
    della vista deteriorata, diventano invisibili; solo gli oggetti più vicini sono veduti
    distintamente e il paziente si convince che non ne esistano altri. Nel terzo stadio, il
    vitalismo, l'infezione porta all'infiammazione, anche gli oggetti più vicini diventano
    sfuocati e deformati e il paziente è soggetto ad allucinazioni. Nel quarto stadio, il
    nichilismo della distruzione, si giunge alla cecità e la malattia si estende al resto del
    corpo determinando agonia, convulsioni e morte." Ibid. pp. 72 - 73

    [6]Ibid, p. 29

    [7]Ibid. p. 30

    [8]Ibid. p. 43

    [9]Ibid. p. 35

    [10]Ibid. pp. 53

    [11]Ibid. p. 69

    [12]Ibid. p. 49

    [13]Cfr. Kostas Delikostantìs, L'ethos della libertà, trad. it. : Sotto il Monte (Bg),
    Servitium- Interlogos, 1997, pp. 67 - 105 e 115 - 140.

    [14]Ibid., p.139.

    [15]Ibidem.

    [16]Usiamo i due termini "libertà" e libertas intendendo col primo la libertà
    dell'agire umano (libero arbitrio, o libertas minor nei termini di S. Agostino), e
    col secondo il compiersi di questa libertà nel conformarsi liberamente all'amore
    divino ( libertas maior). Delle due, la libertà (ovvero il libero arbitrio) rappresenta
    in un qualche modo il "rischio di Dio", secondo l'espressione di O. Clement (
    cfr.Olivier Clement, Questions sur l'homme, Editions Stock, 1972 trad. it.:
    Riflessioni sull'uomo,Milano, Jaca book, 1973, pp. 33 - 36): " All'apice
    dell'onnipotenza creatrice... prende forma... il rischio. L'onnipotenza si compie
    limitandosi. Nello stesso atto creativo, in certo qual modo Dio si limita, si ritira, per
    dare all'uomo lo spazio della libertà" (p.34). Dio può tutto, recita un adagio
    patristico, fuorchè costringere l'uomo ad amarlo; e così, continua Clement,
    "accedere a un amore... significa abbandonarsi senza protezione alla peggiore delle
    sofferenze, quella del rifiuto e dell'abbandono da parte di chi amiamo". Dio è
    quindi "un mendicante d'amore che attende alla porta dell'anima senza osare
    varcarla". "E, infatti - scriveva Nicola Cabasilas - egli non si accontenta solo di
    chiamare a sé lo schiavo che ha amato, ma scende egli stesso alla ricerca, lui, il
    ricco, si accosta alla nostra indigenza, si presenta da solo, dichiara il suo amore e
    prega che gli sia ricambiato; a un rifiuto non si ritira, non si formalizza per l'offesa,
    respinto, attende alla porta e fa di tutto per mostrarsi vero amante, sopporta i
    danni e muore..."(De vita in Christo, VI, A, I). La libertas rappresenta quindi la
    scelta secondo libertà di accettare l'amore divino, ed in questo senso essa è il
    compimento della libertà. La pretesa dell'autonomia nell'etica contemporanea è
    dunque un libero negarsi alla libertas, rappresentando, da un lato la scelta del
    rifiuto di Dio, scelta resa possibile dalla libertà, ma, dall'altro, anche uno
    svuotamento del significato di questa libertà, per il rifiuto di accedere alla libertas.
    Poichè, in questa accezione, senza libertà non esiste libertas, ma al di fuori della
    libertas la libertà è invano.

  2. #2
    I Have a Dream
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    Se vuoi amarmi, amami per null'altro che l'amore stesso.
    Non dire mai " io l'amo per il suo sorriso, il volto, il modo di parlare " perchè queste cose col tempo possono cambiare, o cambiare per te.

  3. #3
    I Have a Dream
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