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    Le fondamenta di POL
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    Post L'ossessione del professore

    Capisco che in un Paese nel quale la più rilevante manifestazione di intrattenimento culturale e mediatico è diventata il «toccare le parti basse» di Pippo Baudo è quasi inutile pretendere dignità e saggezza dal discorso pubblico. Pur tuttavia una qual certa differenza di stile tra showmen come Fiorello, Teocoli e Benigni e professori universitari o opinionisti di prima pagina sarebbe auspicabile che permanesse. Invece, purtroppo, sono in molti oggi a congiurare perché tramonti definitivamente ogni confine tra satira e confronto pubblico, tra invettive e ragionamenti. Ad esempio: come giudicare se non come una modestissima gag la recente accorata denuncia di Claudio Magris sul Corriere della Sera intorno al pericolo di un nuovo «totalitarismo culturale» sol perché il governo si appresta a cambiare alcuni direttori dei nostri istituti di cultura all'estero? (Atto, si badi, normalissimo e periodico, ripetuto da quasi tutti i governi).
    Ma l'Oscar dei girotondi mentali spetta senz'altro a Giovanni Sartori che sul tema del conflitto d'interesse propone da tempo un proprio testardissimo tormentone, ossessivo almeno quanto la «strizzatina» a Baudo e insensibile a qualsiasi obiezione. L'ultima replica del suo show il professore l'ha mandata in onda sul Corriere della Sera di ieri. In sintesi: ogni legge che non preveda per Berlusconi l'obbligo di vendere le sue aziende è una legge-truffa. Ed è inutile, dunque, proporsi di migliorare il testo Frattini al Senato, «perché non si può correggere il nulla». E evidente l'ostilità del professore contro il premier: ma la sua vera vis polemica è ora rivolta contro quei liberi pensatori (come Piero Ostellino o Sabino Cassese) che non uniformandosi alle sue invettive vengono dipinti, con arroganza littoria, più o meno come intellettuali vignacchetti che si «arrendono anzitempo». La satira di Sartori è di dubbio gusto. I suoi ragionamenti, invece, non reggono affatto. Vediamo perché. «Quella votata alla Camera - tuona il professore - è come una legge sull'aborto che riguardi soltanto l'aborto delle vacche». Lasciamo pare da parte la volgarità del paragone e chiediamo piuttosto a Sartori: lei, egregio professore, approverebbe forse una legge sull'aborto retroattiva al punto di consentire di uccidere un bambino di dieci anni? Perché questa, esattamente questa, è la legge che lei propone. Se non le è chiaro, glielo spiego in altri termini: quando Berlusconi entrò in politica non esisteva una legge che glielo impedisse. Dunque non era e non è un fuorilegge. Di conseguenza, oggi, la situazione è assai complicata perché egli rappresenta democraticamente la maggioranza degli italiani (con i loro liberi e consapevoli voti, caro professore) e il Parlamento non può certo legiferare in modo retroattivo contestando una sovranità popolare già manifestata e stabilendo un'incompatibilità ex post che, perciò stesso, sarebbe foriera di ancora più gravi lacerazioni della nostra convivenza pubblica. Se cosi non fosse, perché secondo lei l'Ulivo, negli anni in cui era al governo, non avrebbe legíferato l'incompatibilità? Per timidezza? Ma via. Non l'ha fatto perché non voleva assumersi la responsabilità di una grave lesione alla nostra democrazia. Non so come si dica nella sua Toscana, ma so come si dice in Veneto: sarebbe stato (e sarebbe ancora oggi) «peso el tacon che el sbrego». Il professore propone il paragone con l'avvocato Agnelli: ebbene se fosse stato Agnelli a fondare Forza Italia e a guadagnarsi i voti degli italiani il ragionamento non muterebbe di una virgola. Le difficoltà della situazione, infatti, nascono da dati obiettivi, dal modo in cui sono andate le cose negli ultimi anni della storia d'Italia, non dalla «protervia» di Berlusconi. Lei, caro professore, dove si trovava verso l'alba degli anni Novanta? Si è accorto che in Italia sono crollate tutte le architravi del sistema politico e dello Stato? Si è accorto che sono spariti la Dc, il Psi, il Pri, il Psdi, il Pli? Che il Pci e il Msi hanno cambiato nome, che sono nati nuovi partiti? Si è accorto che qualche anno prima era crollato il Muro di Berlino? Ebbene lei ritiene che tutti questi eventi siano stati causati ad arte da Silvio Berlusconi pur di conquistare il potere senza risolvere il conflitto d'interesse? Oppure, lasciando la satira a Fiorello, è disposto ad ammettere che, alle volte, la storia pone davanti a noi degli imprevisti nodi di Gordio che non si possono tagliare con la spada ma che bisogna avere la pazienza di sciogliere? Mi auguro che sia disposto ad ammetterlo e penso, di conseguenza, che ciò che Ostellino e tanti altri ragionevolmente intendono dire è solo questo: nell'attuale situazione italiana il conflitto d'interesse non è risolvibile prevedendo formule di «incompatibilità».A questo punto, l'arguto professore obietterebbe: ma io non propongo affatto l'incompatibilità. Berlusconi può restare tranquillamente a Palazzo Chigi, solo che deve essere obbligato a vendere le sue aziende. Ora è difficile che un guru del costituzionalismo come Sartori ignori come la nostra Costituzione non permetta tale obbligo «forzoso» e che, in ogni caso, ancora una volta, come ha ricordato Sabino Cassese, «non si possono alterare le regole del gioco mentre la partita è in corso». Allora perché Sartori insiste? Forse per un suo personale «conflitto d'interesse». Egli probabilmente aspira (intendiamoci, con qualche ragione accademica) ad essere considerato l'infallibile sciamano del pensiero costituzionale italiano e ogni volta che (accadde già ai tempi della Bicamerale) i nostri politici e politologi non gli danno retta il professore si indispettisce, come di fronte al reato di lesa maestà, e comincia a bacchettare tutti, alla stregua di scolaretti impreparati. Se scendesse per un giorno dal suo sovrano scranno verrebbe voglia di ricordare a Sartori che il problema della sovrapposizione tra mercato e politica non nasce certo con Berlusconi, verrebbe voglia di chiamarlo a riflettere sulla stagione delle Partecipazioni statali, sui rapporti tra Pci, sindacato e cooperative, sui tanti ministri che, nel passato, si sono trovati in conflitto d'interesse senza esser stati nobilitati da alcuna invettiva pubblica. E verrebbe anche voglia di osservare che, nell'Italia dei mille girotondi, tanti rischi sembra correre la nostra democrazia meno che quello di un governo-regime o di un'informazione a senso unico. Ma così, temo, il discorso si farebbe troppo serio: e prima di impegnarsi sarebbe almeno opportuno accordarsi con Sartori sull'incompatibilità tra una discussione seria e una fondata sull'irrisione di ogni interlocutore che egli sembra ritenere, allo stato, l'arma più adatta per la propria crociata.

    dal Giornale!

  2. #2
    Le fondamenta di POL
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    Predefinito La societa' incivile

    Mario Cervi, Il Giornale 25 febbraio 2002

    Manifestazioni come quella di sabato al Palavobis non devono essere né sopravvalutate - lo si sta facendo, con enfasi scomposta, nelle file dei micromeghisti - né sottovalutate. La politica seria e le decisioni serie che determinano, in democrazia, le sorti di un Paese non dipendono dai clamori delle piazze e delle arene. Alla vigilia di un'elezione leggendaria - quella del 18 aprile 1948 - Togliatti era acclamato da moltitudini che De Gasperi nemmeno si sognava. Ma nelle urne i voti della Dc surclassarono quelli del Fronte popolare: e per l'avvenire in Italia contarono, fortunatamente, i numeri delle urne, non quelli dei comizi.
    II governo non ha dunque motivo di lasciarsi turbare! o di°lasciarsi distrarre; dalle. stridule requisitorie milanesi tendenti a dimostrare che l'Italia si avvia ad essere un Paese autoritario, che la Rai è un feudo di Forza Italia e che i giudici dovranno trasformarsi in servi del regime. Infatti tutti hanno potuto constatare che ogni immagine dell'assembramento promosso in nome della giustizia e dedicato alla demonizzazione del Cavaliere è stata cancellata dai teleschermi - di Stato o privati - e che alle parole e agli atti dei magistrati àntiberlusconiani è negata ogni eco. Spero di non essere frainteso, non si sa mai. Volevo dire che il Palavobis con le sue polemiche è entrato in tutte le case, e che i Pm eccellenti dilagano su quotidiani, talk-show e telegiornali:
    E tuttavia sia la maggioranza sia l'opposizione devono trovare in ciò che è avvenuto al Palavobis e in ciò che sta avvenendo - girotondescamente - un po' in tutta Italia, motivi di riflessione. Stiamo assistendo, e non è un bello spettacolo, all'abdicazione della politica: non in favore di un'alta e nobile idea del bene comune, ma in favore di sfoghi massimalisti ed extraparlamentari che si afferma provengano dalla società civile ma che - nella loro apocalitticità velleitaria e declamatoria -sono piuttosto l'espressione di una società fondamentalmente incivile. Sono cioè una mediocre via di mezzo tra 1'assemblearismo sessantottino e il giustizialismo delle tricoteuses. Quest'ondata rabbiosa - la protesta senza proposta, checché ne dicano nell'Ulivo - vorrebbe travolgere e stravolgere tutto: il governo, ovviamente, ma anche il Parlamento, i partiti, la Magna Charta della Repubblica, la Corte costituzionale nei suoi uomini attuali e nei suoi uomini precedenti, perfino il capo dello Stato. A quest'ultimo si rimprovera la grave colpa di mantenersi nell'alveo dei suoi poteri e doveri istituzionali, senza rinunciare a essi, ma senza oltrepassarli.
    Una sinistra spontaneista, parente stretta dei no global e dei terzomondisti saltellanti, vuole insegnare alla sinistra ufficiale come si deve fare opposizione. Sembrerebbe un tentativo di riesumare - con goffaggine dilettantesca - ciò che il Pci seppe realizzare - quando a guidarlo erano uomini notevoli - nella sua migliore stagione. Partito di lotta e di governo, pronto alla rivoluzione e pronto a stare nel sistema; cui infatti apparteneva a pieno titolo soprattutto per il capitolo tangenti.
    Ma erano altri tempi. Quel gioco aveva una sua razionalità, la sinistra voleva avvantaggiarsi puntando su due tavoli _ non facendo la guerra a se stessa. Oggi gli insicuri leader dell'Ulivo - o delle sue propaggini - hanno paura, pensate, di Nanni Moretti, di Dario Fo, di Paolo Flores D'Arcais, e di fronte alle rampogne di questi eterogenei personaggi farfugliano scuse, come scolaretti presi in fallo. Vien da rimpiangere il tempo in cui almeno alcuni postcomunisti di rango seppero contestare e criticare la deriva peronista alla Di Pietro e i proclami resistenziali di Borrelli. Criticavano e contestavano perché avevano presenti le loro matrici ideologiche, e con esse il primato della politica.
    Adesso si ha la sensazione, brutta sensazione, che Fassino sbrachi di fronte all'assalto degli utopisti assatanati, ancora un po' e sentiremo pontificare, a fianco dei segretari di partito e assieme al professor Pardi, anche gli Agnoletto e i Casarini: che saranno ascoltati con compunta attenzione. Questo è il rischio di sfacelo al quale le istituzioni italiane vanno incontro. La sinistra titolato ne è la maggiore vittima, ma questo non ci rallegra perché l'opposizione - una vera, razionale e se possibile civica opposizione - serve alla maggioranza, e soprattutto è nell'interesse della collettività. La frattaglia presuntuosa del Pa~ lavobis ha potuto propagandare qualche slogan, magari efficace, e restituire una ribalta ad Antonio Di Pietro. Ma tutto sommato non è un granché.
    Anche la maggioranza deve fare a mio avviso un pensierino su ciò che si è visto. Ripeto che 40mila persone - e fossero anche 100mila - non sono sufficiente indicatore di una volontà popolare. Ma il numero di cittadini che un qualsiasi Flores D'Arcais è riuscito a richiamare con la sua iniziativa dimostra che la questione giustizia sta a cuore a parecchi italiani comuni e non solo ai pasdaran di un estremismo da quattro soldi: i quali anzi strumentalizzano i sentimenti altrui. V'è stata forse un'eccessiva propensione in alcuni settori dei centrodcstra non a criticare certi metodi e cer
    ti accanimenti dei magistrati - perché questo non è affatto eccessivo, è anzi del tutto ragionevole - ma quasi a negare l'esistenza di Tangentopoli: come se l'azione dei giudici fosse stata rivolta - e in alcuni casi lo è stata, intendiamoci - contro un pugno di innocenti gratuitamente messi alla gogna. Personalmente sono vicino - per Tangentopoli - alla posizione di Fini che in qualche misura mi sembra sia anche la posizione del guardasigilli Castelli. La corruzione c'era, allarmante ed endemica, bisognava colpirla. Ma colpirla senza eccezioni e senza i secondi fini politici e ideologici che a partire da un dato momento parvero dominanti. Per una parte non rilevante degli italiani «Mani pulite» conserva un valore positivo. Sarebbe sbagliato dimenticarlo.

  3. #3
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    Post Volonta' di sopraffazione

    Salvatore Scarpino Il Giornale 28 febbraio 2002

    Ieri mattina, nell'aula di Montecitorio, l'anima dura e pura della sinistra post-comunista ha cercato la rissa con coscienza e determinazione, con una lucida volontà di sopraffazione che non ha nulla dà spartire con la passione civile, sia pure esasperata. La materia del contendere diventa irrilevante rispetto agli stili dell'azione dispiegata fra gli
    scranni della Camera con spirito per niente parlamentare. Il conflitto d'interessi di cui piazze e aule strumentalmente rimbombano non turba la sinistra e il centrosinistra più di quanto non turbi gli italiani. L'attuale opposizione avrebbe potuto varare una sua legge nella passata legislatura, quando i numeri non le facevano difetto, ma in sua furbizia aveva ritenuto di dover rimuovere l'impegno, per poterlo considerare una sorta di cambiale in bianco agitare fuori delle stanze della politica, a scopi di lucro demagogico.
    Ieri mattina ci ha provato a rompere le regole della democrazia e del confronto civile con il ricorso agli insulti più feroci e intollerabili. Chiamare «servi» la maggioranza dei parlamentari, con perfetta sincronia di suoni e di coreografia, significa svelare un profondo e malcelato disprezzo per gli istituti della rappresentanza politica, significa negare la legittimità della volontà popolare, significa in una parola smascherarsi, mostrarsi anti-parlamentari ed extra-parlamentari.
    Gli altri insulti sono scaturiti dalla stessa logica e dalla stessa visione, che rifiuta H confronto e cercalo scontro fisico, estremo svilimento di una camera legislativa. Senza compiacimento diciamo che la sinistra rivela una gravissima involuzione.
    Gli scossoni delle ultime settimane, lo stesso rimbombo dei girotondi, il capitombolo della dirigenza ulivista hanno fatto si che dal suo involucro nuovissimo si scrostassero - come una muta malriuscita - le ultime mani di vernice liberaldemocratica. Il fenomeno - quasi un rigetto - e cominciato da una fascia del popolo di sinistra, acculturata e nevrotica, che riscopre abbandoni ed esaltazioni dei secoli scorsi. Una specie di romanticismo malsano spinge intellettuali ed aspiranti tali, militanti accigliati e suggeritori invecchiati a spendersi per ricreare il fascino di una piazza mitica e buona da contrapporre ai luoghi deputati della politica e agli uomini che li abitano. Dopo anni di tirocinio e di scimmiottamento Old London, è rispuntata una sinistra chiaramente e decisamente extra-parlamentare, autoreferenziale e agitatoria che si sente investita direttamente del compito di realizzare ciò che il processo storico necessariamente prepara. Déjà vu, naturalmente, anticipato dai no global e completato dai «nannisti», ai quali si sono aggiunti i giustiziasti e quei mutanti ai quali non è riuscita la trasformazione in socialdemocratici. Il vero dramma è che questo processo di regressione tocca anche gli apparati e vertici dei partiti (vedi Violante) che fin qui erano sembrati sensibili al bon ton parlamentare.
    Dal punto di vista sociale, la sinistra dei girotondi e dei raduni non ha nulla di popolare in senso tradizionale: è una condensazione di ceto medio, piuttosto, che dalle sue qualificazioni professionali e dalle sue abitudini di comunicazione avanzata (fax, internet, esplorazioni di nicchie) trae alimento per le sue pretese elitarie: essendo sinistra, dice di lottare nell'interesse del popolo, ma non è per niente convinta che in democrazia debba valere il principio «una testa, un voto». Vedrete, presto salterà fuori, compiutamente enunciata, la distinzione fra democrazia sostanziale e democrazia formale, che tanta parte ebbe nel duello fra Occidente e universo comunista. Sotto il profilo umorale, è una sinistra splenicoipocondriaca, animata da un ceto medio che riteneva di poter pascolare per anni e anni sui prati del potere e che non è più abituato all'esercizio civile dell'opposizione. Alternanza? No, grazie.
    Qui sta il punto. L'alternanza diventa un delitto contro la storia: in quanto portatori (sedicenti) di un ideale superiore, fatto di risentimento pseudo-etico e massimalismo politico, gli aspiranti timonieri di questa sinistra vecchia-nuova ritengono che i conti con il «nemico» vadano regolati in sedi diverse da quelle parlamentari. In altre assemblee, che consentano alla vera volontà del popolo (che poi coincide perfettamente con la loro) di fluire liberamente senza l'impaccio delle urne, dei voti, dei gruppi parlamentari. Vecchia truffa. Rientra in questa logica di radicalizzazione voluta a tutti i costi la ricorrente denuncia di un inesistente «regime» cui avrebbe dato vita il centrodestra. E' ridicola l'evocazione di climi vetero-cileni, questo è un Paese in cui gli oppositori possono ballare il valzer o il girotondo fra le riverenze di gran parte dei mezzi di comunicazione. Questo è un Paese in cui persino Roberto Zaccaria può parlare di pluralismo nell'informazione senza che una risata lo sommerga.
    Perché questa nuova sinistra si arrocca su ciò che resta di Mani pulite? Questi intellettuali che non hanno mai creduto né difeso la «giustizia borghese» riconoscono che la degenerazione milanese dell'inchiesta sulla corruzione ha avuto un potere decisivo (extra-elettorale ed extraparlamentare) nel poi tare dopo tanti decenni i post-comunisti al potere. E s'illudono, ballando ballando, che il colpo miracoloso possa ripetersi.
    Ieri alla Camera si è scoperto che la dirigenza dei partiti di sinistra ha subito la pressione dei raduni e dei girotondi. Lo stesso tentativo fiorentino di D'Alema di contrastare l'arroganza degli intellettuali riottosi viene vissuto come una sconfitta. E i dirigenti cominciano a cedere. Si comportano esattamente come vorrebbe chi li insulta sulle piazze e negli stadi. Che brutta gara all'indietro.

 

 

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