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La sinistra e l'identità nazionale

Enrico Landolfi

Abbiamo chiesto a Enrico Landolfi, giornalista e saggista attivo militante della Sinistra, una riflessione sul tema del rapporto storico della sua parte con i valori della identità nazionale e del ruolo dell’Italia. Ecco il testo che ci ha inviato.



Il dibattito culturale e politico italiano pareva lievitare con notevole ritmo propulsivo nella seconda metà degli Anni Ottanta. In tale contesto una meritoria associazione culturale di cui non ricordiamo il nome organizzò in un grande albergo romano un dibattito sulla Rivoluzione Francese. Uno dei relatori fra i più prestigiosi l’attuale Vice Presidente del Senato, prof Domenico Fisichella. Anche a noi toccò prendere la parola per difendere in ciò di cui erano difendibili - non poco a nostro giudizio - i Giacobini, vivacemente attaccati dai vari partecipanti di fede monarchica capetingia genericamente definibili come esponenti di una intellettualità targata “destra nazionale”.

Con somma sorpresa ed evidente disappunto di costoro il monarchico Fisichella - futuro ministro della Repubblica per grazia di Fini e per volontà di Berlusconi - ci diede ragione su di un punto capitale del nostro intervento.

L’autorevole uomo di cultura così testualmente, icasticamente, lapidariamente si espresse:

“Landolfi ha ragione. Il nazionalismo nasce a sinistra.”

Con un pur remoto viatico di tal genere, formulato a livello tanto accademico, mi accingo a stilare -ovviamente da sinistra, luogo politico della mia militanza - la risposta al quesito cortesemente propostomi da “Italicum” relativamente alla vexata quaestio del rapporto della Sinistra italiana con la identità nazionale e, più generalmente, con il molo mondiale dell’Italia e con i valori ad essa connaturati e con i valori di cui si fa portatrice.



Diciamo subito che detto molo e codesti valori vengono da lontano e vanno lontano; le loro radici affondano in un humus spirituale e ideologico larga parte del quale - forse, addirittura, quella maggioritaria - si identifica con l’elaborazione e la battaglia della Sinistra, di una Sinistra “plurale”, ossia fortemente differenziata al suo interno.

Ma a quali Sinistre stiamo accennando? Anzitutto a quelle del Risorgimento, a cominciare dal filone cattolico che si riconosceva nelle intuizioni e nel pensiero fondativo del Gioberti, il prete ex mazziniano e poi contestatore dell’Apostolo genovese, cui per certi versi si ricollega Antonio Gramsci, che, viceversa, aveva in uggia e dispetto il Mazzini. Di certo quanto testé scritto meraviglierà il Lettore, abituato da certi pessimi manuali scolastici a vedere nel figlio di Marianna Capra, la guardarobiera della Reggia Sabauda di Torino, soltanto il teorico del moderatismo filopapalino fidente nell’improbabile sentimento nazionale dei principi issati sui rispettivi troni mediante le baionette degli Asburgo o di altri sovrani resi tali dalla Santa Alleanza. In altri termini, i predetti testi scolastici si fermano al Gioberti de Il primato morale e civile degli Italiani, trascurando la successiva opera Del rinnovamento civile d’Italia, compilato dopo i disastri della prima guerra di indipendenza, con la quale attua una ampia ristrutturazione del suo pensiero approdando dapprima alla democrazia radicale e, quindi, al socialismo non marxista. Non marxista sì, ma non per questo meno rivoluzionario. Diciamo che condizionò l’ipotesi riformista alla disponibilità del Principe a realizzare le riforme. Altrimenti...

Questo approdo al “sociale” di Vincenzo Gioberti fu naturaliter da Lui inserito nel contesto di una primaria italiana più raffinata, pensata, concretamente europea di quella conclamata e acclamata nel Primato.

Dunque, l’indole più intima e profonda del giobertismo fu, e resta, nazionale-popolare. A chi volesse saperne di più consiglieremmo, oltre ai succitati volumi del Torinese, Il socialismo giobertiano di Widar Cesarini Sforza. Ma bisogna rivolgersi agli incunaboli delle grandi biblioteche statali per avere contezza piena delle geniali escogitazioni di colui che, significativamente, firmava

i pezzi giovanili sulla “Giovane Italia”, con il nome clandestino “Demofilo” cioè “amico del popolo”. Di quello italiano, va da sé...



Se il Lettore vuole conoscere il vero Mazzini, il Mazzini dell’ala sinistra del Risorgimento deve procurarsi un antico testo licenziato alle stampe nel remotissimo 1921. E’ un classico del pensiero italiano e non solo; assolutamente introvabile se non in qualcuna delle grandi biblioteche pubbliche. Il suo titolo è La filosofia politica di Giuseppe Mazzini. L’autore è Alessandro Levi, professore emerito di storia patria nella Università di Siena ove ebbe fra i prediletti allievi Carlo e Nello Rosselli. Tre cittadini di razza ebraica, dunque, esponenti di primo piano dell’antifascismo:

sicuramente i due fondatori di “Giustizia e Libertà”; con tutta probabilità anche il Levi. Richiamiamo questi dati solo al fine di meglio interpretare e valorizzare i contenuti dell’opera leviana, che qualcuno potrebbe giudicare filofascista, o filomussoliniana, tanto essa risulta omogenea alla piattafonna della componente di sinistra del fascismo, soprattutto della prima fase sansepolcrista e nell’ultimo periodo erresseista. Alla luce di tale considerazione come non convenire con Giovanni Gentile che nella sua opera Gioberti e Mazzini: i profeti del Risorgimento afferma, citiamo a memoria, che “il vero Mazzini non è quello dei repubblicani”? Il filosofo dell’attualismo era talmente nel vero che nell’Edera del secondo dopoguerra del grande elaborato di Alessandro Levi non c’è traccia veruna. Con l’eccezione di venature mazziniane niente affatto trascurabili ancorché non esaustive che solcano la complessiva esperienza personale - nell’esilio e nella sua vicenda postbellica - di Randolfo Pacciardi. Ma, appunto, si è trattato della solita eccezione destinata a confermare l’altrettanto solita regola.

L’illustrazione anche rapida delle coordinate che sorreggono il mazzinianesimo indiscutibilmente autentico perché suffragato da documentazione inoppugnabile, gestita con estesa sensibilità interpretativa e salda logica storiografica - non è qui possibile perché lo spazio è tiranno e la materia vastamente poliedrica, sfaccettata, articolatissima.

Pertanto non possiamo limitarci che a pochissimi accenni.

Il Mazzini sociale. Si mediti sui seguenti due moniti, che sono anche parole d’ordine, estrapolati dalla prosa del Genovese: I) “capitale e lavoro nelle stesse mani”; “si dia termine alla schiavitù del salario”. Insomma: siamo di fronte a due capisaldi della socializzazione. Non dice nulla ciò al lettori di “Italicum”?

Il Mazzini nazionale. Qui le “sorprese” più rilevanti. In brani da Antologia l’Autore de La filosofia politica di Giuseppe Mazzini si diffonde su quella che, nei nobilissimi vagheggiamenti dell’Apostolo ligure, potremmo ben individuare come “una certa idea dell’Italia”. Chiaramente, qui abbiamo parafrasato in salsa italiana una famosa locuzione di De Gaulle.

Dunque, dal grande saggista apprendiamo che il fondatore del repubblicanesimo italiano appare alla sua ricca tessitura teorica “nazionale popolare” il sigillo della romanità. In rapporto a ciò, egli ritenne irrinunciabile per l’Italia il versante africano del retaggio imperiale di Roma, soprattutto perché bagnato dal Mare Nostrum e calcato dalle legioni ivi inviate dall’Urbe. Con la parziale eccezione dell’Egitto, coabitabile insieme alla Gran Bretagna.



Veniamo ad Antonio Labriola, uno dei più grandi teorici del marxismo di tutti i tempi, lo straordinario intellettuale che introdusse il pensiero di Marx in Italia, il padre spirituale di Antonio Gramsci.

Vediamo come egli realizzò creativamente il principio della identità nazionale-popolare italiana mediante “una certa idea dell’Italia”. E vediamolo, per così esprimerci, in presa diretta, espungendo qualche sua affermazione dal contesto di una intervista rilasciata ad Andrea Torre, redattore de “Il Giornale d’Italia” pubblicata dal famoso ministro degli esteri dell’interventismo 15/18, autore del “Patto di Londra”, Sidney Sonnino, leader della corrente di destra del partito liberale. Trattasi di documento inerente la “questione di Tripoli” che meriterebbe di essere compulsato nella sua interezza, cosa ovviamente impensabile in una ristretta sede. Ne presenteremo, dunque, solo qualche elemento, in grado tuttavia di far intendere quanta sostanza “italianista” ci fu ai massimi livelli della sinistra rivoluzionaria, più e prima ancora che in quella riformista.

Correva l’anno di grazia 1902 allorché, nel numero del 13 aprile, il professore di Cassino avviava la sua interlocuzione con La Torre dichiarando:

“Gli interessi dei socialisti non possono essere opposti agli interessi nazionali, anzi li debbono promuovere sotto tutte le forme. Gli Stati d’Europa...sono in un continuo e complicato divenire, in ciò che ambiscono, conquistano, assoggettano e sfruttano in tutto il resto del mondo. L’Italia non può sottrarsi a questo svolgimento degli Stati che porta con sé uno svolgimento dei popoli. Se lo facesse, e potesse farlo, in realtà si sottrarrebbe alla circonlocuzione della vita moderna; e rimarrebbe arretrato in Europa. Il movimento espansionista delle nazioni ha le sue ragioni profonde nella concorrenza economica.! Economia e politica non sono due cose separabili a volontà e artificialmente. La lotta tra gli Stati per quella che si dice sfera d’influenza o raggio d’azione viene dall’intima struttura degli Stati stessi, e il più delle volte è la condizione del loro progredire, e il modo di avverarsi della consistenza di loro.”

Ergo, soggiungiamo noi, il via libera alle pulsioni coloniali, espansioniste e, se non imperialiste, certo “imperial-popolari”. Termine, questo da noi coniato non crediamo arbitrariamente. Quanto alla guerra, ecco la straordinaria formulazione labrioliana:

“Da noi è frequente la declamazione contro la guerra, mentre abbiamo continuo il fermento della guerra civile a casa nostra: da noi si protesta sempre contro le espansioni, mentre mandiamo in tutto il mondo le forze vive dei nostri lavoratori in servizio del capitale straniero...”

Quindi, per il Labriola la guerra di espansione non era intuita e vissuta in una chiave demoniaca. Tutt’altro. Anzi, ne dava una lettura di indole etica, sociale, antiplutocratica. E sempre collegato a tale ispirazione il puntuale ribadimento della versione nazionale-popolare del rivoluzionismo marxista da lui dottrinariamente e politicamente diffuso.

“...Pochi vedono a fondo la gravità della situazione del nostro paese, che è come rinserrato ed assediato da tre potenze internazionali ad una volta. E dico dalla papale, che invalida i titoli della nostra unità; dalla capitalistica, che asporta dall’Italia i profitti commerciali ed industriali; e dall’operaia, che riduce in condizioni di inferiorità all’estero i nostri emigranti.”

Ad Andrea Torre che gli chiede se ritiene “utile” la eventuale “impresa di Tripoli” il grande pensatore così risponde:

“Quanto all’utilità bisogna spiegarsi: certo che militarmente non ci compensa della minaccia che per l’Italia e sopra tutto per la Sicilia rappresenta la Tunisia armata dai francesi. La Tripolitania con tutta la Cirenaica è troppo in giù dalle grandi linee del Mediterraneo. Ma siccome non è ormai in poter nostro di togliere queste grandi linee né all’Inghilterra, né alla Germania, né alla Francia, non ci resta che accomodarci a Tripoli. Certo io sarei ben lieto che il nostro paese si trovasse nelle condizioni della Germania, ché col suo capitale, con la sua industria, con le ferrovie che costruisce, senza colpo ferire e senza impiego d’un solo soldato, si sta economicamente impossessando della Turchia asiatica. Ma visto che non c’è di meglio...”

Piccola ma non superflua precisazione: il Labriola non volle mal iscriversi al partito socialista, ad onta di qualche sollecitazione di Federico Engels, con il quale tenne sovente carteggio su temi di grande momento. Anzi, ebbe a dardeggiare il PSI con pesante, sprezzante ironia. Non di rado ingiusta e fuori luogo.

Enrico Landolfi (Dal numero 1-2 gennaio-febbraio 2001) di ITALICUM