Fonte: Annuario Pontificio per l’anno 1999 (sez. Note Storiche)
Libreria Editrice Vaticana



Il RITO significa comunemente l’ordinamento della preghiera ufficiale, ossia la norma dell’azione liturgica autorevolmente fissata e che ha la sua espressione pubblica e concreta nella liturgia.

Se la scarsità dei documenti dei primi due secoli impedisce di determinare con precisione quali e quante forme avesse allora il culto cristiano, già nel terzo secolo appaiono indizi di liturgie differenti nelle tre grandi Metropoli dell’Impero: ROMA, ALESSANDRIA, ANTIOCHIA. Nel quarto secolo sono già individuabili vere zone liturgiche costituitesi in relazione alle grandi divisioni politiche del tempo e dove finiscono col prevalere quelle forme liturgiche che sono alla base dei riti odierni.

Nell’occidente finì col prevalere universalmente la liturgia derivata da Roma. Anche l’antichissima liturgia gallicana, largamente diffusa e che fornì alle liturgie locali ed anche alla romana non pochi elementi, venne sostituita, all’epoca di Carlo Magno, con la liturgia romana. Similmente nel secolo XI successe per la liturgia ispana o mozarabica in certi elementi vicina alla gallicana (e che fu poi fatta rivivere nel secolo XVI dal Card. Ximénez de Cisneros in una cappella della Cattedrale ed alcune parrocchie di Toledo dove tuttora si conserva). Nell’Arcidiocesi di Milano (nonché in diverse parrocchie delle diocesi di Bergamo, Novara, Pavia e Lugano) sussiste attualmente la liturgia ambrosiana, riordinata da S. Carlo Borromeo.

Varie peculiarità di liturgie locali furono soppresse dal Concilio di Trento non avendo autorità da due secoli; ne sopravvissero invece alcune fino al Concilio Vaticano II nelle Arcidiocesi di Braga e di Lione ed in famiglie religiose, ad es. presso i Domenicani e i Certosini.



RITI ORIENTALI

Al concetto di "Rito", riservato alle azioni liturgiche, il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, promulgato il 18 ottobre 1990, sostituisce, in seguito alla codificazione canonica contenuta nella Lettera Apostolica Cleri Sanctitati dell’11 giugno 1957 e, soprattutto, all’operato del Concilio Vaticano II, evidenziato nei decreti Orientalium Ecclesiarum (nn. 2, 3, 5, 6) e Unitatis redintegratio (nn. 16, 17) una nozione di Rito molto più ampia, estendendosi a tutto il «patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare» (can. 28 § 1) delle singole Chiese orientali.
Questo patrimonio, per quanto riguarda le suddette Chiese, ha come origine primaria una delle seguenti cinque tradizioni (ca. 28 § 2):

1. Alessandrina,
2. Antiochena,
3. Armena,
4. Caldea,
5. Costantinopolitana.

Tre di queste tradizioni, capostipiti dei "Riti Orientali", sono sorte nell’ambito dell’Impero Romano: l’Antiochena a Gerusalemme, l’Alessandrina e la Costantinopolitana partendo dalla Cappadocia; mentre due di esse sono sorte ai margini dell’Impero: la Caldea in Mesopotamia e Persia, e l’Armena nelle regioni delle popolazioni Armene.
La tradizione rituale alessandrina ebbe uno sviluppo speciale in Etiopia, ove non andò esente da influenze antiochene, mentre quella costantinopolitana o bizantina si conservò, senza subire modificazioni profonde, nelle Chiese autocefale provenienti, nei secoli successivi, dal Patriarcato medesimo.
Si deve inoltre rilevare che tanto la tradizione rituale alessandrina come l’antiochena nelle comunità rimaste ortodosse (cioè fedeli ai Concili Efesino e Calcedonese) a poco a poco, qualche centinaio d’anni dopo le eresie cristologiche del secolo V, vennero sostituite dalla tradizione rituale costantinopolitana, che aveva il pregio di essere quella dell’Imperatore e della Corte, e perciò preferita dai funzionari imperiali, dimodoché, dal Medio Evo in poi, la liturgia di Alessandria non fu più praticata se non dai monofisiti d’Egitto e di Etiopia, e quella di Antiochia dai monofisiti di Siria, Palestina e Mesopotamia, nonché dai Maroniti, che vi apportarono poi alcune modifiche.
A coloro che a mano a mano ritornarono all’unità della Chiesa Cattolica, la Santa Sede, di regola, lasciò sempre il proprio patrimonio rituale, corretto soltanto nelle sue eventuali espressioni eterodosse. Questo principio, cui si deve la presente varietà di riti nella Chiesa Cattolica, venne già affermato da San Leone IX allorché scriveva a Michele Cerulario: «Scit namque (Romana Ecclesia) quia nil obsunt saluti credentium diversæ pro loco et tempore consuetudines, quando una fides per dilectionem operans bona quæ potest, uni Deo commendat omnes» (Mansi, XIX, col. 652).
Le comunità cristiane che appartennero all’Impero Romano d’Oriente hanno molto in comune nella loro disciplina, in quanto basata su concili ecumenici, su certi concili particolari antichi , sui canoni dei Santi Padri ed, in parte, anche sulle leggi imperiali, pubblicate in materie ecclesiastiche, prima della separazione. Avvenuta questa, per cause diverse, specie per il passaggio all’autocefalia, si svilupparono divergenze disciplinari, generalmente su punti secondari. Le discipline dei Caldei e degli Armeni, formatesi fuori dell’Impero Romano, hanno avuto uno sviluppo che li differenzia di più dagli altri orientali.



1. TRADIZIONE RITUALE ALESSANDRINA

Questa tradizione si è divisa in due rami: egiziano ed etiopico. Ebbe dominio esclusivo in Egitto fin verso il secolo XIII, tanto presso i monofisiti che presso i Greco-Melkiti; ma i Greco-Melkiti di Egitto, seguendo l’esempio di quelli di Siria, la abbandonarono in detta epoca per adottare la tradizione rituale costantinopolitana. Mentre nei tempi antichi i testi liturgici nelle Chiese di Egitto venivano letti tanto in greco che in copto, dopo la conquista musulmana vi si introdusse a poco a poco l’arabo. I Copti, tanto monofisiti che cattolici, usano testi dove sono rimasti pochi brani in greco , e tendono ad aumentare la parte in arabo.
In Etiopia la liturgia alessandrina ha subito profonde modifiche e si è arricchita di molti testi nuovi, dei quali alcuni dimostrano l’influenza di testi antiocheni, generalmente conosciuti attraverso traduzioni in arabo. Gli Etiopi, sia monofisiti che cattolici, usano come lingua liturgica il ghéez, che era lingua ufficiale già nel V secolo, quando si fecero in Etiopia le prime traduzioni dei testi biblici e liturgici.

Chiese cattoliche di rito alessandrino:

Patriarcato di Alessandria dei Copti – Il Cairo, Egitto



2. TRADIZIONE RITUALE ANTIOCHENA

Formatasi lentamente, dal punto di vista liturgico, prima a Gerusalemme, poi soprattutto ad Antiochia, e diffusasi nella Palestina, Siria e Mesopotamia settentrionale, questa tradizione si estese, gradualmente a partire dalla seconda metà del secolo XVII, ad una parte del Malabar. Fu la tradizione anche dei cristiani del patriarcato di Antiochia detti Greco-Melkiti, aderenti alla fede di Calcedonia, fino alla riconquista parziale e temporanea della Siria da parte degli Imperatori di Costantinopoli nel secolo X; nei secoli posteriori, però, questa tradizione presso i Greco-Melkiti venne progressivamente sostituita dal patrimonio rituale costantinopolitano. I Maroniti hanno conservato sostanzialmente la tradizione rituale antiochena, non senza qualche modificazione, in senso latino, di alcuni testi liturgici e di alcune forme esteriori. Praticata in origine tanto in greco che in siriaco, la liturgia antiohena oggi non è più celebrata che in siriaco, con molte parti in arabo, specialmente presso i Siri e i Maroniti. I Malankaresi, o cattolici di tradizione antiochena dell’India, usano oltre il siriaco, il malayalâm, lingua propria del Malabar.

Chiese cattoliche di rito antiocheno:

Patriarcato di Antiochia dei Siri – Beirut, Libano
Patriarcato di Antiochia dei Greco-Melkiti – Damasco, Siria
Patriarcato di Antiochia dei Maroniti – Bkerké, Libano



3. TRADIZIONE RITUALE ARMENA

La tradizione rituale armena si è sviluppata partendo dai testi antiocheni, con notevole influsso dei testi bizantini, ma con una considerevole parte totalmente originale, fin dai tempi più remoti. Nel Medio Evo, quando i "catholicos" di Sis furono in comunione con la Chiesa Romana, vennero introdotte alcune forme esteriori latine (come la mitra e il pastorale) rimaste anche presso i gregoriani (ortodossi). La lingua liturgica è l’armeno classico, lingua ufficiale dell’Armenia nel secolo V.

Chiese cattoliche di rito armeno:

Patriarcato di cilicia degli armeni – Beirut, Libano



4. TRADIZIONE RITUALE CALDEA

Questa tradizione si sviluppò, in modo indipendente, nell’antico Impero dei Sassanidi, donde la qualifica, talvolta adoperata, di "Rito persiano". Dal secolo XVII, prevalse a Roma la denominazione di "caldeo", mentre nelle regioni abitate dai Caldei si preferisce quella di "siro-orientale". Questo patrimonio rituale dai missionari della Mesopotamia fu portato in Asia centrale, nella Cina e nell’India. Fu conservato nella liturgia quasi esclusivamente l’uso del siriaco, scritto e pronunciato in modo alquanto diverso da quello usato in Siria. In Mesopotamia si è diffusa in certe chiese l’abitudine di leggere in arabo le pericopi scritturali e poche altre formule.
Il ramo più numeroso è la Chiesa siro-malabarese, che, secondo la tradizione, risale all’evangelizzazione di San Tommaso Apostolo.

Patriarcati cattolici di rito caldeo:

Patriarcato di Babilonia dei Caldei – Baghdad, Iraq
Arcivescovato Maggiore di Ernakulam-Angamalay dei Siro-Malabaresi – Kochi, India



5. TRADIZIONE RITUALE COSTANTINOPOLITANA O BIZANTINA

Questa tradizione, spesso chiamata, in Occidente, "Rito greco", si è sviluppata a Costantinopoli, l’antica Bisanzio, fondamentalmente da quella antiochena, ma con elementi provenienti da Alessandria e dalla Cappadocia. I testi liturgici e quelli relativi alla disciplina canonica di Costantinopoli, nel corso dei secoli, vennero tradotti dal greco nelle lingue dei popoli sottoposti alla giurisdizione dei patriarchi di Costantinopoli, Alessandria ed Antiochia, aderenti alla fede di Calcedonia, e ciò prima in georgiano, siriaco, paleoslavo ed arabo, poi in rumeno e, più recentemente, presso gli ortodossi ed i cattolici, in non poche altre lingue dei diversi continenti, per l’utilità dei cristiani appartenenti a comunità di questa tradizione nella diaspora.

Chiese cattoliche di rito costantinopolitano:

Arcivescovato Maggiore di Lviv degli Ucraini – Lviv, Ucraina