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  1. #11
    I Have a Dream
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    Pone delle condizioni inaccettabili, per l'esercizio di un nlrmale diritto, cioè quello di abitazione... Bah.
    Se vuoi amarmi, amami per null'altro che l'amore stesso.
    Non dire mai " io l'amo per il suo sorriso, il volto, il modo di parlare " perchè queste cose col tempo possono cambiare, o cambiare per te.

  2. #12
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    una bouna soluzione, quella svizzera, per un difficile problema.
    coniugare la libertà di moviemnto con il diritto alla propietà e alla discriminazione.
    saluti padani

  3. #13
    I Have a Dream
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    Diritto alla discriminazione?????

    Bah, !
    Se vuoi amarmi, amami per null'altro che l'amore stesso.
    Non dire mai " io l'amo per il suo sorriso, il volto, il modo di parlare " perchè queste cose col tempo possono cambiare, o cambiare per te.

  4. #14
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    Originally posted by Sir Demos
    Diritto alla discriminazione?????

    Bah, !
    Certo.
    Ricordi quell'articolo di Stagnaro che postai mesi fa?
    Se non sbaglio eri tra coloro che lo commentarono.

  5. #15
    I Have a Dream
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    Me ne potresti rammentare i tratti essenziali?

    Thanks
    Se vuoi amarmi, amami per null'altro che l'amore stesso.
    Non dire mai " io l'amo per il suo sorriso, il volto, il modo di parlare " perchè queste cose col tempo possono cambiare, o cambiare per te.

  6. #16
    Moderatore
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    sicuro, diritto alla discriminazione.
    Mi sembra di capire che tu non lo ritenga un diritto.
    Ad esempio, se io ho un bar e decido di vietare l'ingresso a quelli che hanno i capelli biondi, oppure a quelli vestiti con la pelliccia naturale, oppure di riservarlo solo agli omossessuli, io discrimino.
    dovrebbe essere un mio diritto, decide con chi avere a che fare.
    saluti padani

  7. #17
    I Have a Dream
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    Ad esempio, se io ho un bar e decido di vietare l'ingresso a quelli che hanno i capelli biondi, oppure a quelli vestiti con la pelliccia naturale, oppure di riservarlo solo agli omossessuli, io discrimino.
    No, perchè tu nell'esercizio di un Bar rendi un pubblico servizio e come tale devi osservare entro certi limiti, il principio "dell'obbligo di contrarre"....

    Questo in applicazione del principio basilare, che rpevede che la libertà di ogni cittadino debba finire dove pregiudichi quella degli altri...

    Prova ad applicarlo al caso in esame...
    Se vuoi amarmi, amami per null'altro che l'amore stesso.
    Non dire mai " io l'amo per il suo sorriso, il volto, il modo di parlare " perchè queste cose col tempo possono cambiare, o cambiare per te.

  8. #18
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    purtroppo infatti non potrei farlo. Considero assurdo l'obbligo di non discriminre la clientela. Io con un bar non offro un servizio in monopolio. Se io rifiuto una determinata tipologia di clientela, a rimetterci sono io.
    saluti padani

  9. #19
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    Originally posted by Sir Demos
    Me ne potresti rammentare i tratti essenziali?

    Thanks
    A grande richiesta lo ripropongo.
    Leggi e commenta.

    HANNO SFRATTATO LO ZIO TOM
    Carlo Stagnaro

    “Negare il diritto di dire fuck significa negare il diritto di dire fuck the government” Lenny Bruce

    Introduzione

    “Sai perché sul Titanic c’era un negro soltanto? Perché nessuno sapeva che sarebbe affondato”. Una barzelletta squallida? No, un reato. In tutto il mondo si sta diffondendo, nel corso di questi ultimi anni, una nuova interpretazione del diritto alla libertà di espressione e del diritto all’uguaglianza. Quest’ultimo, in particolare, a causa soprattutto dell’efficace penetrazione di alcune posizioni prettamente di sinistra, ha subito un profondo cambiamento di significato. Se i liberali classici sottolineavano che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge, con questo intendendo che quello che è reato per uno è reato anche per un altro (indipendentemente dal suo status sociale, colore, razza, sesso, religione, eccetera), la vulgata corrente interpreta invece il “diritto all’uguaglianza” (de jure) come un diritto alle “pari opportunità” (de facto): a prescindere da ogni altra considerazione particolare.

    E’ cronaca quotidiana l’incriminazione di questo o quello per violazione delle leggi sulla discriminazione o sul razzismo. In altre parole, lo stato diviene giorno dopo giorno sempre più “etico”. Esso, cioè, si ritiene autorizzato a dettare canoni morali e di comportamento che esulano largamente dalle attività comunemente riconosciute come aggressive. All’origine di tutto ciò si trova una errata comprensione dello stesso termine “aggressione”. A parere di molti, è “aggressivo” qualunque discorso marcatamente razzista, come lo è una qualunque discriminazione effettuata in base alla razza, al colore della pelle, alla religione, al sesso, eccetera.

    Anche i liberali si trovano talvolta a sostenere tale posizione. Essi ritengono che la tolleranza vada intesa in senso lato, e con essa l’accoglienza. Persone più sfortunate di noi (ad esempio quelle nate in angoli disgraziati del pianeta) o membri di minoranze bistrattate (come gli omosessuali) dovrebbero avere le stesse, identiche opportunità della “classe dominante”. L’unico modo di bilanciare la loro “debolezza” sarebbe quello di tutelarli per via legislativa: attraverso norme contro il razzismo, contro la discriminazione o a tutela della loro rappresentanza (ovvero col sistema delle quote). Chiameremo questo approccio di tipo “solidaristico”.

    Vi è poi un approccio più marcatamente socialista. Molti ritengono che, perché tutti abbiano pari opportunità, sia necessario sconfiggere ogni tipo di differenza. Per questa ragione sono favorevoli in genere a una gerarchizzazione e a una centralizzazione dei rapporti sociali: rendendo gli stati più forti rispetto agli individui e le organizzazioni sovranazionali più forti rispetto agli stati. Costoro non nascondono le proprie preferenze politiche e sociali: per la creazione di un governo mondiale, da un lato, e per l’annullamento delle differenze attraverso matrimoni misti e multiculturalismo di Stato dall’altro. Nei fatti, però, anche l’approccio di tipo “socialista” chiede una legislazione contro il razzismo e la discriminazione e l’istituzione di quote a favore delle minoranze.

    Su questo si incista il problema dell’immigrazione. Tanto i solidaristi quanto i socialisti ritengono che essa vada agevolata o, quanto meno, non ostacolata. Nel sostenere questa posizione si mischiano difese d’ufficio del “diritto all’accoglienza” e argomenti più gretti e utilitaristici. Spesso mi è capitato di sentir dire che gli immigrati “svolgono lavori che gli italiani non accettano più” o che gli extracomunitari servono da un lato a invertire le tendenze demografiche e, dall’altro, a pagare le pensioni ai nostri anziani. Argomentazioni che riportano alla mente un pensiero colonialista che sarebbe meglio lasciar riposare nella tomba della storia.

    Nel corso del presente scritto verrà affrontato il problema della discriminazione. In primo luogo si tenterà di definirla in maniera rigorosa e di dimostrare che, in realtà, essa è una manifestazione del tutto legittima delle preferenze individuali. Si proseguirà rispondendo alle principali tesi dei solidaristi e dei socialisti. Si tenterà di mostrare come le leggi a favore delle minoranze siano di fatto leggi protezioniste, che rendono difficoltoso l’ingresso di nuovi soggetti sul mercato: esse, in pratica, non tutelano le minoranze, ma quei membri delle minoranze che si sono già integrati. Si concluderà con la constatazione che la crociata contro le discriminazioni non è altro che l’enne più unesimo sintomo di un pensiero debole che non ha saputo resistere alle scorrerie dell’ideologia egemone, il marxismo.

    (Ri)definire l’aggressione

    Secondo i liberali, è “aggressiva” qualunque azione che impedisca a un individuo di esercitare i propri giusti diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà. Se Tizio colpisce Caio con un pugno, senza che prima Caio l’abbia a sua volta attaccato, Tizio compie un’aggressione. Se Tizio sfila il portafoglio a Caio, Tizio compie un’aggressione. Se Tizio costringe Caio a svolgere un lavoro per lui che non era stato concordato in precedenza, Tizio compie un’aggressione. Se Tizio entra in casa di Caio senza il suo consenso, Tizio compie un’aggressione. Al contrario, è legittima qualunque azione di Caio volta a impedire a Tizio di danneggiarlo: purché la reazione sia commisurata all’aggressione. Questa non è filosofia, ma buonsenso. In sostanza, “aggredire” significa dare inizio alla violenza.

    Avere “pari opportunità” o “essere uguali” significa, per un liberale, che Tizio ha diritto di reagire a prescindere dalle caratteristiche individuali (sesso, colore, religione, ceto sociale, eccetera) sue e di Caio e, parimenti, Caio non ha diritto ad aggredire Tizio a prescindere dalle loro peculiarità. Tutto quello che non viola questo assioma – tutto quello, cioè, che deriva dalla libera interazione tra i due – è per un liberale legittimo. In generale, come ha scritto Murray Rothbard, la libertà va definita al negativo: ognuno è libero di fare qualunque cosa che non violi qualche diritto altrui.

    In questo senso, e solo in questo, gli uomini “sono creati uguali”, come recita la Dichiarazione di Indipendenza americana. Gli stessi Padri Fondatori della nazione a stelle e strisce se ne erano perfettamente resi conto, allorché scrissero che “Alcuni diritti elencati nella Costituzione non potranno essere interpretati in modo tale da negare o misconoscere altri diritti goduti dai cittadini” (Nono Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti). Con questo intendevano stabilire un principio di non contraddizione: i diritti dei cittadini devono essere univoci, e non possono essere formulati in maniera tale da inibirsi l’un l’altro. Se questo accade, d’altra parte, delle due l’una: o la formulazione è errata; oppure uno o entrambi i diritti in questione non sono diritti.

    Nel tentativo di esaminare il problema della discriminazione, allora, vanno poste alcune premesse. In primo luogo, bisogna definire la parola. “Discriminazione” significa, secondo il Dizionario DIR, “dividere, differenziare. Nel linguaggio politico moderno, trattare in modo diverso, riferito a singoli individui o a minoranze etniche, per motivi religiosi, politici o razziali”. In generale, effettuare una discriminazione significa esaminare due o più alternative, fare una scelta ed esprimere una preferenza.

    Alla luce di quanto detto, bisogna allora chiedersi se la discriminazione sia illegittima a priori. Questo è un passaggio importante, perché potrebbe portarci a una rapida conclusione della nostra indagine. Qualora in effetti riuscissimo a dimostrare che la discriminazione è comunque illegittima, allora dovremmo prenderne atto e trovare un modo per impedirla. Dovremmo insomma interrogarci su come l’oggetto della discriminazione può tutelarsene anche in un mondo senza stati – nella società libertaria. Se questo non fosse possibile, significherebbe forse aver trovato una falla insanabile nell’intero sistema anarco-capitalista.

    Facciamo un esempio per spiegare meglio tale concetto. Tutti noi siamo concordi che l’omicidio è in sé illegittimo (a meno che non si tratti di legittima difesa, nel qual caso il discorso è più ampio; tralasceremo in questa sede tale problema). Se Jones aggredisce Brown e lo ammazza, egli viene condannato. Cambia poco se l’abbia ucciso con un colpo di pistola o con un bastone acuminato. L’unico fatto degno di nota è la morte di Brown e solo essa (insieme alle cause che l’hanno determinata) andrà presa in considerazione.

    Parlando di discriminazione il discorso è analogo. Se essa è illegittima sempre, allora ci chiederemo come sia possibile difendersi. Se invece emergerà che, in sé, non esiste alcun diritto a “non essere discriminati”, allora approfondiremo la questione e tenteremo di capire se vi sono casi particolari e ben definiti in cui invece tale diritto sussiste. Tizio è un individuo pacifico, laborioso, rispettoso della dignità altrui. Egli non farebbe male a una mosca, salvo per difendere se stesso e i propri cari. Un giorno si trova a dover esprimere un’opinione su Caio. Di quest’ultimo, Tizio non sa nulla, se non le poche informazioni che può leggere sul suo curriculum. Sa anche che Caio proviene da una determinata parte del globo.

    Tizio incontra Caio e gli parla. Al termine del colloquio, Tizio decide di non scegliere Caio, il quale se ne risente e sostiene che tale non-scelta sia dovuta a pregiudizi razziali. Se Tizio smentisce tale affermazione e convince Caio che le cose stanno effettivamente così, evidentemente non vi è alcuna violazione dei diritti di quest’ultimo. Se però Tizio non riesce a convincere Caio o, addirittura, ammette la propria “colpa”, cambia qualcosa? Certo che no. Di fatto Caio rimane non-scelto, e Tizio continua a non-sceglierlo. L’unica differenza tra le due situazioni prospettate è di ordine morale o, al più, di efficienza: il pregiudizio (ovvero il giudizio emesso a priori e a prescindere da altre valutazioni) di Tizio ha un costo – in questo caso l’aver rinunciato all’utilità di Caio. Il giudizio morale su Tizio potrà essere negativo ed eventualmente Caio potrà diffondere la voce sul suo cattivo comportamento e danneggiarlo ulteriormente. Ma non vi è alcuna motivazione razionale per ritenere la seconda situazione più aggressiva della prima – o aggressiva in senso assoluto.

    La discriminazione non è dunque un male in sé ma, anzi, ha dei costi. Come ogni altra azione umana, insomma, essa pone sul capo di chi la compie delle responsabilità che egli dovrà sopportare: ma non si tratta, né si può trattare, di responsabilità di carattere giuridico.

    Pensieri, parole, opere ed omissioni
    La discriminazione si può manifestare essenzialmente in quattro forme. La prima è quella del “pensiero”: io posso ritenere che, ad esempio, i tedeschi siano tutti degli ubriaconi. Lo stadio successivo è quello della “parola”: io affermo che i tedeschi sono tutti ubriaconi. Forte delle mie convinzioni, compio anche delle “azioni”: essendo proprietario di un appartamento, mi rifiuto di affittarlo a un tedesco. Da ultimo, le “omissioni”: sono a conoscenza che il mio barista si rifiuta di servire il caffè ai tedeschi e non intervengo per fare giustizia.

    La parte principale di questo scritto, allora, sarà dedicata a esaminare le situazioni appena descritte, tentando di mostrarne la piena legittimità. Se il tentativo andrà a buon fine, bisognerà allora imbastire un immaginario processo contro i nemici della discriminazione. Se un atto è legittimo, chi lo vuole impedire con la forza è un nemico della libertà e come tale va trattato.

    Pensieri
    “A pensar male si fa peccato”, recita una famosa massima di Giulio Andreotti. Pensare che una persona sia inferiore in virtù del colore della sua pelle è senz’altro un cattivo pensiero. Non solo: tale pensiero è indice quantomeno di una scarsa comprensione della natura e delle potenzialità umane. Ritenere vera una cosa simile significa fare un uso patentemente errato di quel procedimento mentale che spesso invece si rivela così utile: la generalizzazione.

    Spesso, però, la generalizzazione stessa viene additata come origine di tutti i mali. Bisogna qui soffermarsi un momento sul concetto e svolgere un paio di considerazioni. “Generalizzare” significa attribuire a fenomeni ignoti determinate caratteristiche, sulla base di una o più esperienze precedenti.

    Se io mi scotto e poi vedo un fuoco, suppongo che – mettendovi la mano sopra – mi scotterò nuovamente. In realtà non ho la certezza che questo accada, né potrò averla fino a quando l’avrò sperimentato. Decido però che non è il caso di correre il rischio: così facendo compio una generalizzazione. Generalizzare, allora, significa semplicemente imparare e dedurre insegnamenti generali dalle esperienze particolari. Una generalizzazione errata, tornando all’esempio appena proposto, sarebbe pensare che tutti gli oggetti rossi scottano.

    Si pone allora il problema: è possibile distinguere, in termini astratti, la generalizzazione “buona” da quella “cattiva”? La risposta è invero, e in tutta evidenza, no. Non lo è perché ogni individuo è unico e irripetibile: cioè giudica in base a criteri affatto personali e, in generale, non condivisi (ancorché condivisibili) da parte degli altri esseri umani.

    Non è possibile, dunque, rinvenire un criterio universale capace di distinguere i pensieri “buoni” da quelli “cattivi”, e già questo sarebbe sufficiente ad affermare che, se il pensiero può essere un peccato, di sicuro esso non è un crimine. In realtà, se anche tale criterio esistesse, bisognerebbe chiedersi se un pensiero “cattivo” è in sé una forma di aggressione. Anche in questo caso la risposta non può che essere negativa. Il pensiero è quanto di più privato esista: punire un pensiero (che non danneggia nessuno, in quanto non nega a nessuno i propri giusti diritti) significa destituire la libertà umana da ogni fondamento e inaugurare una nuova era in cui il “buon selvaggio” è in realtà un predatore affamato e privo di coordinate giuridiche o morali.

    Il pensiero, per quanto turpe possa essere, non è in alcun modo interpretabile come una forma di aggressione e, quindi, non può legittimamente essere punito o represso.

    Parole
    Pensar male, dunque, sarà anche peccato ma non è crimine. Ed esprimere quel pensiero? Affermare – per esempio – che “i carinziani sono nazisti” può essere considerato una violazione della legge? Apparentemente no. La larga maggioranza della stampa italiana, infatti, ha ripetuto e proclamato tale concetto in tutte le salse in seguito alla vittoria elettorale del partito guidato da Joerg Haider. Quella stessa stampa, e i politici che in essa si riconoscono, però, non esita a puntare scandalizzata l’indice tutte le volte che qualcuno afferma, per esempio, che un’ampia fetta di immigrati albanesi è costituita da criminali.

    Non risulta che tra le due affermazioni vi sia una grossa differenza. Certamente essere definiti “nazisti” non è offensivo in senso stretto. “Nazista” è solo segno dell’appartenenza politica a uno schieramento. Ma molti possono ritenerlo disdicevole e, almeno per loro, assume lo stesso significato che la parola “criminale” ha per gli albanesi onesti.

    Una prima constatazione, dunque, è che il dibattito sulle parole discriminatorie è viziato da una forte partigianeria. I “nostri” non possono essere offesi, gli “altri” sì. (E questa è invero una forma, a nostro modo di vedere perfettamente legittima, di discriminazione). Tutto ciò spinge ulteriormente verso il basso la nostra stima nei confronti degli oppositori per partito preso della discriminazione, ma non è questo il punto.

    Essi, infatti, sostengono che le parole possono ferire come e più delle spade e, quindi, andrebbero attentamente misurate. Anche a costo di sanzionarle. In questo una parte di verità c’è senz’altro. A volte certe parole dette da certe persone fanno davvero male. Uno sgarbo da parte di qualcuno che si stima o che si ritiene profondamente amico, una reazione brusca da parte di una ragazza, talvolta lasciano l’amaro in bocca. Ma, ancora una volta, bisogna chiedersi se questa forma di “danno morale” possa essere considerata un’aggressione.

    La risposta, anche in questo caso, deve essere negativa. Come argomenta in maniera irrefutabile Murray Rothbard, solo l’aggressione fisica può essere considerata aggressione. Esprimere un’idea, per quanto sbagliata essa possa essere, per quanto altre persone se ne possano risentire, non è mai una forma di aggressione. Fino alla noia, bisogna ripetere che “aggressivo” è qualunque atto impedisca a un individuo di esercitare i propri giusti diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà. Le parole non interferiscono con nessuno di essi. Nella peggiore delle ipotesi le parole possono danneggiare la reputazione di un individuo: ma, in ultima analisi, la reputazione è l’opinione che altri hanno di noi e, quindi, di fatto non ci appartiene.

    Questo scritto non è dedicato al buon nome delle persone, bensì alla discriminazione. Discriminare con le parole significa ad esempio affermare che “i neri sono più atletici dei bianchi”. Tale frase non può essere ritenuta aggressiva. In primo luogo, “i neri” e “i bianchi” non esistono in quanto tali. Essi sono categorie di comodo che godono di una essenza solo nel dialogo ma, nella realtà, altro non sono che insiemi di individui distinti e diversi. Vi sono bianchi atletici e bianchi meno atletici, e lo stesso può essere detto dei neri. In generale un’affermazione di questo genere non è vera, mentre può avere senso in termini statistici: se essa, cioè, viene letta nelle vesti della constatazione che “un nero preso a caso è probabilmente più atletico di un bianco preso a caso”.

    Ma, se anche l’affermazione in questione fosse oggettivamente falsa, essa non potrebbe essere considerata aggressiva. Dire bugie è sicuramente un peccato, e neppure dei più leggeri; ma non costituisce una violazione dei diritti naturali di altri individui.

    Opere
    In sostanza, si è arrivati ad affermare che la discriminazione non è un reato, a patto che essa resti confinata nel “mondo delle idee”. Pensare o parlare in maniera discriminatoria non porta ad alcuna forma di aggressione e quindi è lecito. Ma agire in maniera discriminatoria? Bisogna in primo luogo definire una “azione discriminatoria” e per farlo ci serviremo di due esempi, per poi generalizzarli e giungere a una conclusione unica. Prima di questo, però, va espressa una constatazione (in verità piuttosto banale): le azioni possono essere aggressive o non aggressive. Le prime sono comunque illecite, le seconde sono comunque legittime. Questa è la base del libertarismo.

    Partiamo dalle azioni non aggressive. “Discriminare”, in questo caso, significa rifiutarsi di fornire un servizio a una persona per ragioni di sesso, religione, colore, eccetera, oppure fornire quel servizio a una sola categoria di persone per gli stessi motivi. Per esempio un barista potrebbe rifiutarsi di servire clienti di colore, o un proprietario di appartamenti non voler affittare a persone provenienti dal Nord-Europa. O, ancora, un ristoratore potrebbe desiderare soltanto una clientela composta da ispanici e così via. Queste azioni sono evidentemente non aggressiva. Non è difficile dunque mostrarne la legittimità. Essere proprietari di qualcosa significa poterne fare qualunque uso non aggressivo. Se io sono proprietario di un ristorante, presumibilmente auspico di avere il maggior numero di clienti possibile. Rifiutarne una parte in base a considerazioni discriminatorie, allora, di certo danneggia me. In effetti, il cliente rifiutato non subisce alcuna perdita: il mercato offre molte alternative al mio ristorante.

    Non solo: egli può anche dare il via a una campagna di boicottaggio nei miei confronti e invitare amici e conoscenti a disertare il mio locale per protesta nei confronti della mia mentalità “reazionaria”. In tutto ciò non vi è alcun passaggio nel quale sia possibile notare una mancanza di legittimità. La discriminazione, dunque, è perfettamente lecita in questo e nei casi analoghi: ovvero quelli nei quali essa attiene a un uso affatto particolare della mia proprietà. Qualche estremista di sinistra potrà obiettare che bar, ristoranti, eccetera sono locali pubblici. Tale affermazione è falsa. Locali pubblici sono le biblioteche statali (o comunali, o regionali…) e i ministeri, poiché esse non hanno proprietario. (E meriterebbero invece di averlo, ma questo è un altro discorso). Tutto ciò che ha un proprietario chiaramente identificabile è privato per definizione: da questo punto di vista, non vi è ragione di ritenere che io posso liberamente discriminare entro i muri della mia casa e non posso fare la stessa cosa nel mio pub!

    Veniamo ora al più complesso caso delle azioni aggressive. Supponiamo ad esempio che io sia un naziskin che, per bizzarre ragioni, cova un odio profondo nei confronti dei musulmani. Come abbiamo detto, “odiare” non è reato e neppure lo è esprimere verbalmente quell’odio. Diciamo che una sera sono particolarmente agitato e mi trovo in una strada con un seguace di Allah. Prendo un bastone e lo malmeno. Ho compiuto un reato? Naturalmente sì. Ho effettuato una discriminazione? Certamente; se avessi incontrato un cattolico bianco avrei tirato dritto. Ma, e bisogna prestare particolare attenzione a questo passaggio, la discriminazione non rende la violenza più grave. Il mio reato è stato quello di aggredire un individuo pacifico, a prescindere dalle motivazioni per le quali l’ho aggredito. Se così non fosse, d’altra parte, si potrebbe facilmente dedurre un corollario terribile. Una volta identificata arbitrariamente una “minoranza”, la vita e i diritti dei suoi membri hanno un valore maggiore di quello della vita e dei diritti di tutti gli altri. Le leggi anti-discriminazione attualmente vigenti, in effetti, affermano proprio questo: che se aggredisco un bianco, allora merito X anni di prigione e Y milioni di multa. Ma se la mia vittima è di colore, o professa un culto diverso dal mio, allora merito pene di molto superiori. In altre parole, aggredire un bianco è “meno grave” che aggredire un nero. Il che non è certamente giusto e, men che meno, giustificabile in un’ottica liberale.

    In definitiva, le azioni che un individuo può compiere possono essere raggruppate in due grandi contenitori: le azioni aggressive e quelle non aggressive. Le prime sono illegittime sempre, a prescindere dalle cause che le hanno determinate. Le seconde sono legittime sempre, ancorché non siano necessariamente condivisibili da un punto di vista morale. Se esse siano ispirate da convinzioni di carattere discriminatorio è un problema che attiene alla sfera dell’etica, e non a quella della giurisprudenza.

    Omissioni

    Il problema dell’omissione è del tutto analogo a quello dell’azione. L’omissione, in sé, non rappresenta un atto aggressivo: dunque è legittima, anche se è determinata da pulsioni discriminatorie. Se io vedo un nero in difficoltà e non lo aiuto a causa del colore della sua pelle compio senz’altro un gesto riprovevole, ma questo non è sufficiente a definirlo criminale.

    Resta però aperto un interrogativo: vi sono dei casi in cui l’inazione può essere considerata essa stessa una forma di azione? Secondo la legislazione italiana, sì (e coerentemente essa contempla il reato di “omissione di soccorso”). Questo argomento è oggetto di dibattito tra gli stessi libertari. Murray Rothbard sostenne che l’inazione non può mai essere considerata azione. L’aggressione, infatti, si può concretizzare solo nell’intervento diretto.

    Per quanto concerne il nostro problema, però, l’esito di tale dibattito è del tutto ininfluente. Valgono infatti le conclusioni raggiunte nel paragrafo precedente. Qualora fosse possibile dimostrare che una omissione è una forma di azione, e di azione aggressiva, allora essa sarebbe senza dubbio alcuno reato. Se invece quella stessa inazione non fosse interpretabile in tale luce, allora non potrebbe essere neppure considerata illegittima. Ma in entrambi i casi la ragione all’origine dell’inazione è del tutto irrilevante, anche se si tratta di discriminazione.

    Fumi? Ti discrimino!

    La discriminazione, dunque, è perfettamente legittima. Poiché essa è non di rado condannata moralmente, assume una posizione molto importante: quella di “cartina al tornasole” di una autentica libertà. Un mondo, o un paese, nel quale sono concessi anche gli atti malvagi, purché non aggressivi, è libero al di là di ogni dubbio, perché a maggior ragione saranno liberi gli atti dettati dalla generosità e dall’altruismo. Vietare qualcosa sulla base di una non-approvazione, invece, crea un doloroso precedente e apre la porta a tutta una serie di sbocchi autoritari.

    Così, come hanno notato gli osservatori più acuti, è accaduto in tutto l’occidente “il fattaccio”. Le isterie salutiste di alcuni settori della sinistra più retrograda si sono saldati in un patto d’acciaio coi timori e gli scazzi delle ali più tiepide o più becere (ciò che può apparire, ma non è, contraddittorio) del conservatorismo. Nella maggior parte delle “democrazie occidentali” vigono ferree leggi contro la discriminazione (per quanto riguarda l’Italia bisogna fare i conti con la tristemente nota Legge Mancino). Tali leggi affermano, in termini più o meno espliciti, che discriminare non è un diritto di nessuno. Bisogna trattare in uguale maniera tutti gli individui, a prescindere dalla nostra volontà. L’effetto dell’incontro di queste norme con la legislazione (socialista) sul lavoro dà luogo a una miscela micidiale, ma non è argomento di questo scritto.

    Contemporaneamente all’evolversi e all’affermarsi di queste tendenze giuridiche, è anche rapidamente cresciuto il timore per gli effetti terribili di alcuni vizi: in particolare, il fumo. Fumare fa male, e passi. Ma fumare – così si è evoluto il ragionamento – fa male anche a chi non fuma. Fumare uccide il tuo vicino di tavolo e i tuoi figli. Quindi bisogna difendere tanto loro quanto te stesso dai tuoi vizi e dalla sconsiderata leggerezza con cui tu li coltivi. Ovvia conclusione: il fumo è un “nemico” e con esso va ingaggiata una vera e propria guerra.

    Gli statalisti avranno tanti difetti. Ma tra essi non compare certo quello di essere degli stupidi. Hanno azzeccato in pieno la campagna pubblicitaria da mettere in atto. Prima, hanno dichiarato nemico pubblico “il fumo” (astrattamente inteso) e non “i fumatori”. Che è lo stesso ma dà alla macchinazione le sembianze di una generosa e disinteressata lotta contro il male piuttosto che una crociata. Poi hanno spiegato che uno è libero (forse…) di ammazzarsi, perché il corpo è suo e lo gestisce lui, ma non è libero di ammazzare i suoi sodali. Ci mancherebbe, nessuno lo sostiene. Hanno fatto appello a tutte le corde più sensibili dell’animo umano e hanno propinato una quantità di suggestioni emozionali. I loro avversari, d’altra parte, hanno accettato pienamente il loro gioco: tentando di replicare sul loro stesso terreno. L’alternativa, in fondo, non era pubblicitariamente allettante: fare appello alla ragione attraverso noiosi, ancorché sensati, dati non pareva una strategia vincente. Nel momento in cui hanno operato tale scelta, la loro sconfitta è apparsa evidente.

    Sono sorte ovunque, come funghi, leggi che proibivano il fumo nei locali “pubblici”. Locali “pubblici” per loro sono anche i locali privati, come abbiamo già sottolineato, ma nessuno è sembrato accorgersene. Poi le leggi e le pene si sono inasprite fino ad arrivare al sostanziale bando dei fumatori, nuovi appestati e nuovi untori al tempo stesso, dalla vita civile.

    L’aspetto in questa sede interessante di quelle leggi è il loro aspetto apertamente discriminatorio. Esse, infatti, partono con l’individuazione arbitraria di un gruppo di persone: i fumatori. Ci dicono che il fumo “uccide” e che l’aspetto peggiore di tale vizio è il suo essere “mortale” anche per chi non lo coltiva. Già a questo livello si assiste a una mistificazione. C’è tutt’altro che concordanza di idee sul fumo passivo. In altre parole, la scienza non può dire con sicurezza nulla sugli effetti del fumo passivo. Alcuni studiosi hanno creduto di individuare correlazioni statistiche di qualche interesse, ma i loro scritti sono oggetto di forti critiche. Tutto questo, comunque, non è essenziale. Assumiamo pure che il fumo passivo sia più letale della cicuta.

    La legge afferma che i fumatori non possono accendere sigarette nei locali “pubblici” propriamente detti e in quelli “pubblici” che nella realtà sono privati. Non è questa una discriminazione? Non è un modo di dire a una persona, “in base a una tua scelta di vita, io Stato ti impedisco di fare questo, questo e quest’altro”? Naturalmente sì. Vi è ragione di ritenere, dunque, che lo Stato sociale sia in profonda contraddizione con se stesso, oltre che col diritto naturale.

    Da un punto di vista libertario le cose dovrebbero essere ben diverse. Spetta al proprietario del locale stabilire le regole a cui si deve sottostare per accedere in quel posto. A una discriminazione collettiva e imposta con la forza della legge, insomma, si sostituirebbero mille e mille altre discriminazioni individuali. Balza agli occhi senza bisogno di sottolinearla l’intima moralità di questo secondo sistema. Nel primo caso, infatti, il “discriminato” è un appestato da emarginare sempre e comunque. Nell’ottica anarco-capitalista, invece, non esiste il “discriminato” in quanto tale. Esiste semmai una persona discriminata da un’altra persona, il che non le impedisce di trovare un altro luogo in cui venire accolta senza problemi di sorta.

    Impedire la discriminazione
    C’è ancora un’altra questione, tutt’altro che secondaria, da mettere in rilievo. Nella discriminazione (intesa astrattamente e in senso lato) non c’è nulla di male. Questo è pacifico. Ma supponiamo pure, per un attimo, che tutto il ragionamento finora condotto sia errato. La discriminazione, quindi, è illegittima. Va perseguito qualunque pensiero, parola, opera od omissione che tradisca una atteggiamento discriminatorio. In realtà il pensiero non può essere preso di mira, perché è inconoscibile fino a quando viene comunicato, entrando così ipso facto nel dominio della parola.

    La caratteristica fondamentale di una legge è il suo essere valevole in ogni situazione che rientri tra le fattispecie contemplate. “La legge è uguale per tutti”, c’è scritto nelle aule di tribunale. Quindi, tutte le volte che un individuo fa affermazioni razziste egli deve essere punito, perché ha violato la legge. Nella società attuale questo è impossibile. La legge dunque, almeno per quanto riguarda la parola, è inutile perché inapplicabile. A meno che non si scelga una delle due seguenti linee di condotta. (Tutto questo vale anche per le azioni e le omissioni, quindi eviteremo di ripetere il discorso).

    O si decide che la legge deve essere resa applicabile con equità, e allora si innesta chirurgicamente un registratore in ogni individuo per controllarne movimenti, azioni e parole. L’ipotesi è assurda ma merita ugualmente di essere presa in considerazione. Voler applicare una legge sulla discriminazione significa sacrificare almeno un altro dei diritti che oggi vanno tanto di moda: quello alla privacy. In realtà non esiste alcun diritto alla privacy in quanto tale, ma questo è un discorso che non compete a queste pagine. In ogni caso sappiamo bene che la privacy negli ordinamenti attuali non si riferisce mai al governo, ma solo ai privati cittadini.

    Bisogna dunque accettare, se si vuole impedire la discriminazione nell’unica maniera efficace, di essere spiati e di spiare tutti i nostri simili. Perché questo accada bisogna postulare l’esistenza di uno Stato (in quanto “ente imparziale” e unico dotato della legittimità per farlo) che si occupi almeno del controllo della vita altrui. Ma non è sufficiente all’applicazione della legge: finora si è escogitato un modo per individuare l’avvenuto reato. Serve allora l’istituzione di un apposito corpo di polizia (o di militari…) preposto all’intervento. Tale corpo dovrebbe avere un organico sufficientemente numeroso per poter garantire il rispetto della legge in ogni situazione.

    Ma cosa ci dà la sicurezza che nessuno dei “controllori della discriminazione” si renda colpevole egli stesso di atti discriminatori? E’ inevitabile controllare anche i controllori. Si crea così un processo di costituzione di corpi sempre più elitari verso l’alto, fino a giungere (in quanti passi, Dio solo lo sa) a un unico controllore che eserciti le proprie funzioni nei confronti dello squadrone a lui immediatamente subordinato. Tale persona dovrà naturalmente essere un individuo di provata e ineccepibile moralità, spinto dalle migliori motivazioni e dai più onesti propositi. In omaggio alla letteratura, lo chiameremo Grande Fratello. Abbiamo appena descritto quello che avrebbe potuto essere (e, grazie a Dio, non è stata) l’Unione Sovietica.

    Vi è un’alternativa – quella comunemente scelta nelle tanto magnificate “democrazie occidentali”. Abbiamo detto che le leggi sulla discriminazione, a causa di ovvie limitazioni tecniche, non possono essere applicate uniformemente. Esse, allora, verranno applicate in maniera discriminatoria (!). Il target al quale farle rispettare andrà individuato secondo due criteri di grande semplicità: (1) le persone più in vista e (2) le persone più scomode. Trovare un nemico pubblico fa sempre comodo per mostrare quanto le forze dell’ordine sono efficienti.

    Ogni volta che il gruppuscolo nazista di turno viene “sgominato” assistiamo a servizi televisivi straripanti lodi per l’operato di magistrati e poliziotti. Invece di rallegrarcene, dovremmo tremare. Prima di tutto, è francamente grottesco preoccuparsi delle nostalgie bizzarre di qualche bulletto con la testa rasata mentre ogni genere di crimine è all’ordine del giorno nelle nostre città. Ma, soprattutto, impedire a loro di parlare significa impedire a noi stessi di parlare. Le leggi più fasciste presenti in Italia sono quelle contro il fascismo. Mi auguro che non esista un solo liberale disposto a sostenerle. La loro presenza è una spada di Damocle sulla testa di tutti, perché qualunque idea potrà in astratto essere ritenuta pericolosa e quindi soggetta a eliminazione. Un giorno tanto lontano, oppure domani.

    Solidarismo, socialismo e pensiero debole

    Da cosa nascono, allora, le leggi contro la discriminazione? Quali presupposti teorici le legittimano agli occhi dei politici e della gente comune che le accetta senza fiatare? Dichiararne l’ingiustizia, infatti, impone di puntare l’indice contro chi le sostiene. E’ evidente che esse vengano in primo luogo caldeggiate da quelle minoranze che aspirano a ricevere tutela. E’ piuttosto razionale da parte loro approfittare di una oggettiva disponibilità. Non bisogna comunque dimenticare l’effetto perverso di queste leggi: contribuire a consolidare una mentalità razzista e una serie di pregiudizi entro la “maggioranza”, cosa che è facilmente comprensibile. Ma, come spesso accade, questo è un altro discorso. E va anche sottolineato che le leggi contro la discriminazione “tutelano” (cioè garantiscono privilegi) solo chi si è già inserito nel mondo del lavoro, mentre costituiscono una barriera (se non altro psicologica) nei confronti degli altri.

    I più strenui sostenitori delle leggi anti-discriminazione, comunque, si annidano tra noi. Sono, come noi, bianchi, sono cresciuti in una cultura cattolica e in genere sono benestanti. Non di rado votano a destra ma più spesso sono di sinistra. Molti di loro sono professori universitari sinceramente preoccupati per il destino dei poveri cristi che fuggono dai loro paesi di origine e raggiungono le nostre coste in cerca di solidarietà.

    Quello che questi individui non comprendono è l’assoluto iato che divide il legittimo e apprezzabile slancio di generosità con l’imposizione coercitiva di uno stile di vita. Se una persona è mossa dal nobile ideale della generosità, tanto di cappello. Ma è ben diverso essere generosi mettendoci la propria faccia, ovvero rischiando in proprio, ed essere generosi coi soldi e alle spalle degli altri.

    La realtà è che i difensori delle norme contro la discriminazione si inseriscono pienamente e a buon diritto entro la corrente del “pensiero debole” che oggi sembra andare tanto di moda. Non essendoci più alcun valore assoluto cui riferirsi, è inevitabile la sottomissione a criteri di uguaglianza e, per loro tramite, di pianificazione statale. La loro condizione è quella così ben espressa da Woody Allen: “Dio è morto, Marx è morto e neppure io mi sento troppo bene”. C’è un salto, però, tra queste convinzioni individuali e la promulgazione della legge: un gap che si può colmare soltanto accettando presupposti di natura collettivista. “Se io non mi sento troppo bene – deve essere il loro pensiero – allora segue naturalmente che noi non ci sentiamo troppo bene”.

    E’ lì che nascono gli assurdi sensi di colpa dell’Occidente e dei figli dei figli degli eventuali responsabili di chissà cosa. Il libertarismo, come Murray Rothbard ha efficacemente affermato, è invece una forma di pensiero forte. Esso ha una propria stella polare, il rispetto dei diritti naturali, e una propria direzione chiara ed evidente. In questa prospettiva non ha alcun senso imporre un’uguaglianza che non può esistere. (Era lo stesso Marx, d’altra parte, a scrivere che gli individui nascono diseguali, e concludeva paradossalmente che allora hanno bisogno di diritti diseguali).

    Non si rendono conto, i nemici della discriminazione, che la loro crociata punta a un obiettivo sbagliato e oltre tutto, ben lungi dall’ottenere il proprio risultato, fomenta una nuova e più acida forma di razzismo e crea delle oggettive situazioni di violazione dei diritti naturali della “maggioranza” di “oppressori”. Bisogna invece tenere ben distinti i due piani della discriminazione individuale (legittima) e della “discriminazione dei discriminatori” esercitata dalla legge in maniera coercitiva. Non è esagerato neppure vedere nella legislazione sulla discriminazione una delle teste di ponte dell’ultimo assalto statalista alla libertà individuale. Essa si pone, teoricamente e praticamente, in un’ottica prettamente statalista – da Stato etico. Spetta allo Stato, infatti, il compito di dettare i canoni che devono essere seguiti dall’uomo “buono e giusto”. Non solo: quei canoni vengono anche imposti con la forza.

    Non è un caso, allora, che sia la sinistra a recitare la parte del leone a sostegno di tali leggi. Culturalmente egemone, essa ha tutto l’interesse a stabilire la way of life che i cittadini devono seguire. E’ sotto gli occhi di tutti che le leggi sulla discriminazione partono dall’intenzione di “difendere” talune categorie umane (chissà poi perché proprio quelle – nessuno si è mai reso conto che costituiscono un poderoso serbatoio di voti proprio per gli eredi del PCI?) e finiscono per punire chiunque esprima posizioni o pensieri non politicamente corretti. Io stesso, per aver scritto cose analoghe a queste, sono stato degnato dell’onore di finire in prima pagina sul quotidiano L’Unità, che ha estrapolato alcune mie parole travisandone il significato.

    La realtà è che il diritto di discriminare è davvero un diritto, perché fa parte del ben più ampio e più importante diritto a gestire liberamente la propria vita. Che poi significa stabilire liberamente quali principi morali seguire, quali comportamenti adottare, quali persone frequentare. Significa, come si è già detto e come non ci si stancherà di ribadire, poter scegliere. Negare il diritto di scelta è il sogno di qualunque dittatore sia mai comparso sulla faccia della terra. L’imposizione di un pensiero unico e di stili di vita standardizzati è esattamente l’incubo paventato da George Orwell nel suo capolavoro, 1984 (il cui titolo doveva essere, secondo la volontà dell’autore: L’ultimo uomo in Europa).

    Multiculturalismo o molte culture?

    Come si concilia, allora, tutto questo con la realtà in cui siamo immersi? Quotidianamente, per non dire più volte al giorno, veniamo informati da stampa e televisione che la società multirazziale è in arrivo. Essa sarebbe il nostro futuro inevitabile e, come tale, si sottrarrebbe a qualunque giudizio di valore. In realtà questo fatalismo non può essere accettato.

    In primo luogo, va riconosciuto un fatto se vogliamo banale, ma certo non secondario. Se migliaia (o milioni) di persone accorrono nel nostro continente dai quattro angoli del globo, allora significa che esse lo ritengono preferibile ai loro luoghi di origine. Questo tanto per confutare una certa tendenza all’autocommiserazione e al farsi venire i complessi di inferiorità. La nostra cultura, la nostra società, i nostri stili di vita (intendendo questi termini nel senso più ampio e più generale possibile: riferendosi cioè all’Occidente in quanto tale) sono in qualche modo migliori di quelli altri da noi. E’, questa, la più classica delle “preferenze dimostrate”. Premesso ciò, è comprensibile che persone oriunde di nazioni povere o dominate da regimi tirannici cerchino di approdare in un continente che gode di caratteristiche migliori.

    Bisogna dunque chiedersi se queste persone vanno accolte o rispedite al mittente. Non vi può essere, da un punto di vista libertario, una risposta univoca a tale domanda. Chi desidera accogliere (in casa propria e a proprie spese), accolga; chi non lo desidera, non lo faccia. E’ questa l’unica soluzione razionale a un problema che non può realmente essere considerato tale. O, meglio, un problema che assurge allo status – appunto – di “problema” solo nel momento in cui si pretende di individuare una regola valevole per tutti.

    Ammettiamo dunque che un certo numero di stranieri entri nel nostro paese. Essi costituiscono una “minoranza” soggetta potenzialmente a essere discriminata. Accanto a loro vi sono altre “minoranze” o categorie “deboli”: gli omosessuali, le donne, i tossicodipendenti… (Si noti: tali categorie sono state definite dai teorici dell’antirazzismo, i quali hanno ritenuto che fossero antropologicamente o culturalmente o geneticamente inferiori – altrimenti non avrebbero la necessità di una protezione esterna). Ma restiamo con gli occhi puntati sugli stranieri.

    Come è possibile garantire loro un processo di integrazione? La risposta è molto semplice. Non è possibile perché nessuno che non sia il Padreterno è in grado di fornire una risposta univoca e globale. Non esistono “gli stranieri” in quanto tali e, quindi, non è immaginabile integrare la loro “comunità” entro la più ampia comunità nazionale o locale. Esistono invece numerosi individui stranieri, ognuno dei quali ha particolari esigenze. Talvolta queste esigenze saranno compatibili con quelle degli ospiti, e allora integrazione sarà; altre volte le differenze saranno incolmabili.

    Quello che però bisogna accuratamente evitare è l’imposizione violenta di una cultura a chi non la desidera. Non si può pretendere di obbligare un musulmano ad accettare in toto la cultura cattolica, se non lo vuole. A patto, naturalmente, che egli non approfitti dei suoi giusti diritti per reclamare diritti che invece non gli appartengono: come l’invasione del territorio altrui, la costruzione di luoghi di culto da parte dello Stato, eccetera. Allo stesso modo non si può pretendere che i cattolici si lascino imporre una cultura che non desiderano. Uguale argomentazione si potrebbe condurre per qualunque specificità religiosa o di altro genere.

    Al multiculturalismo di Stato, invece, bisogna contrapporre le molte culture individuali. Il primo è un minestrone confuso costruito ad arte prelevando un po’ qua e un po’ là. Ma si tratta di una miscela esplosiva, perché nasce non dalla libera interazione tra individui, ma dalla pianificazione centrale. La convivenza di molte culture, al contrario, è qualcosa di storicamente e praticamente possibile. Ognuno di noi, ogni giorno, acquisisce nuove esperienze che lo cambiano. Se i rapporti con gli altri sono liberi e non soggetti a vincoli diversi dal rispetto dei loro diritti alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità, la società che ne emerge non può che essere libera e prospera – tanto più libera e prospera quanto più c’è una corrispondenza tra le aspettative e le esigenze di ospiti e immigrati.

    La società delle molte culture non è un’utopia né un esperimento disgraziato di ingegneria sociale. Essa non può e non deve essere progettata a tavolino perché nasce dalle relazioni pacifiche intrattenute dagli individui nell’unico luogo davvero paritario che esista sulla faccia della terra: il mercato.

    Conclusione: i nostri diritti e quelli degli altri

    “La più piccola minoranza esistente sulla terra è l’individuo” Ayn Rand

    Il quotidiano la Repubblica del 27 settembre 2000 riportava la notizia che “un giudice federale ha cancellato una condanna per omicidio inflitta diciassette anni fa al nero Curtis Harris. Motivo: non c'erano neri nella giuria che lo condannò a trentasette anni di reclusione per omicidio”. Evidentemente una giuria composta unicamente da wasp non garantisce l’obiettività necessaria. Per contro, un telefilm politicamente scorretto, Ally McBeal, nella puntata trasmessa il 22 agosto 2000 su Fox Channell alle ore 21,00, narrava la grottesca (ma tutt’altro che improbabile) storia di un cameriere licenziato in quanto non gay.

    Tra i due episodi testé presentati non c’è molta distanza. Il secondo è l’esito coerente della stessa mentalità che ha generato il primo. La discriminazione, o, meglio, la possibilità di discriminare è nel DNA di una società libera. Essa è infatti la necessaria garanzia perché ognuno possa vivere come meglio crede la propria vita. E’ la conditio sine qua non un uomo può esercitare la propria ricerca della felicità.

    Non riconoscere questo diritto significa creare un doloroso precedente che si può facilmente tramutare in negazione sistematica della libertà individuale. Impedire di scegliere le persone da frequentare, in fondo, non è qualitativamente diverso dall’impedire di frequentare una data categoria di persone. Le leggi che vietano la discriminazione e quelle che invece la impongono (le leggi antisemite emanate dal regime nazista, ad esempio) rappresentano due facce della stessa medaglia. La medaglia dello statalismo più selvaggio: quello di chi ritiene gli altri incapaci di decidere per sé, e se stesso legittimato a decidere in loro vece.

    In verità non esiste alcun diritto a non essere discriminati. Ogni diritto è legato al rispetto della vita, della libertà e della proprietà degli altri esseri umani. In casa propria, ognuno fa quello che vuole: compreso decidere a chi aprire la porta e chi tenere fuori. Ogni diritto, infatti, implica automaticamente una potenziale esclusione: essere mio significa essere non tuo, con tutto quello che ne consegue.

    D’altra parte, vige sempre la regola aurea dell’uguaglianza dei diritti. Affermare che un nero o un omosessuale hanno gli stessi diritti di un bianco o un eterosessuale, significa forzosamente ammettere anche il contrario. Una persona che appartenga a una classe sociale “oppressa” non ha diritti diversi da quelli del suo “oppressore”, e viceversa. Così come il cittadino wasp può legittimamente essere escluso da altre persone, così come nessun bianco può obiettare se un ispanico si rifiuta di accoglierlo, anche il presunto oppressore può fare lo stesso. Un gay ha gli stessi diritti di un non gay, un nero di un bianco: ha il diritto di escludere, e questo implica la possibilità di essere escluso.

    Non riconoscere questa banale verità significa riconoscere validità a qualunque abuso del governo sul cittadino, perché quest’ultimo viene ritenuto incapace e, anzi, non legittimato a scegliere che genere di persone frequentare. Col risultato che saranno i politici a fare quella scelta per noi, pretendendo in cambio il consueto pizzo che ormai, abituati come siamo a pagarlo, fatichiamo addirittura a riconoscere per quello che è.

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    L'articolo è interessante, però (ovviamente c'è un però) non considera il fatto che un atto aggressivo può anche solo limitare la felicità altrui, diritto che essenzialmente sostituisco a quello di proprietà fra quelli elencati come essenziali per i libertari.
    Come motivazione al fatto adduco che i diritti naturali sono quelli a cui nessuno rinuncerebbe mai volontariamente; ma qualora fossero garantita la vita, la felicità e la libertà di ognuno (cosa praticamente impossibile da fare senza includere anche il diritto alla proprietà, che può quindi ai fini pratici esservi incluso).
    Ovviamente, una volta stabilito che la felicità è un diritto essenziale e che essa è superiore alla libertà, il fare dipendere la propria felicità da un atto che distrugge quella altrui non è da considerarsi legittimo.

 

 
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