Tutti ricordano il severo giudizio che traspariva dai versi danteschi nei confronti di Pietro da Morrone che eletto Papa col nome di Celestino V rinunciò al pontificato per sfuggire alle manovre e alle ingerenze politiche.
Ma oggi, con buona pace di padre Dante, si parla di lui come di un uomo di straordinaria fede e forza d’animo, esempio eroico di umiltà e di buon senso.
Probabilmente dopo così tanto tempo è meglio smettere di compatirlo come un caro sempliciotto, vittima di cose “più grandi di lui”. Piuttosto, quelle “cose” che lo circondano – re, cardinali, intrighi – sono piccole e scadenti di fronte a questo Pietro d’Angelerio, molisano, papa per pochi mesi. Nato da campagnoli con molti figli, ha poi studiato dai Benedettini di Faifoli (Benevento) e più tardi va a Roma, dove riceve il sacerdozio nel 1239, con l’autorizzazione alla vita eremitica, che intraprende sul Monte Morrone, dominante la conca di Sulmona.
Ma tra quei dirupi la sua fama chiama altri solitari, che lui organizza in comunità come “Eremiti di San Damiano” (detti poi “Celestini” e durati fino al 1807). Nel 1273, poi, va al Concilio di Lione: e lì, trattando personalmente con papa Gregorio X, ottiene l’approvazione per la sua comunità. Sa spiegarsi e convincere, a tutti i livelli.
Morto nell’aprile 1292 papa Nicolò IV, i superstiti 12 cardinali riuniti a Perugia litigano due anni senza accordarsi per la successione, finché ricevono una lettera di durissimi rimproveri, con l’invito a dare subito alla Chiesa un capo degno. La lettera è di Pietro da Morrone, e allora i cardinali fanno Papa lui, eletto il 5 luglio 1294 col nome di Celestino V. Ma dietro l’iniziativa della lettera c’è un tipo di dubbia spiritualità: Carlo II d’Angiò, re di Napoli, che conta su un Papa accomodante per togliere la Sicilia agli Aragonesi. Infatti, eccolo gestire Celestino V a modo suo: il settantanovenne Pontefice accetta d’essere incoronato all’Aquila (territorio di Carlo II), di nominare 12 cardinali in gran parte francesi, e di risiedere a Napoli invece che a Roma. Prelati vecchi e nuovi continuano a far politica come prima; alcuni Celestini esagerano con le pretese, coprendosi con l’autorità papale...
Ma questo “semplice”, vacillante per l’età, capisce presto. Si scopre impotente, ingannato, usato. Riflette, interroga, si interroga... E decide, respingendo suppliche e intimazioni: il 13 dicembre ecco la rinuncia al pontificato, ecco Celestino che torna Pietro, ecco il vecchio saio al posto del gran manto. E finisce per ora tutto un giro di inganni e ipocrisie laiche ed ecclesiastiche, con questo “gran rifiuto” che Dante attribuirà a “viltade” (se è poi vero che il verso famoso si riferisse a lui). Ma per il protestante Gregorovius "in quel momento egli apparve in tutta la sua vera grandezza". Vorrebbe tornare al suo eremo, come gli ha promesso il successore Bonifacio VIII. Ma costui sporca il proprio nome facendo di lui un prigioniero in varie reclusioni, fino all’ultima di Fumone, presso Anagni, dove morirà. Rapidamente, come per un bisogno di riparazione, la Chiesa proclamerà santo Papa Celestino già nel 1313. E il suo corpo, dopo vari trasferimenti, avrà riposo definitivo nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio, all’Aquila, dov’era stato incoronato.