Chi si pone dinanzi al problema del mito in maniera oggettiva, consapevole che esso è realtà viva separata e diversa da quella umana, è sulla strada di padroneggiarne il segreto: non vicenda o affabulazione ma verità originaria, che classicamente è cosa degli Dei più che degli uomini. Questa la convinzione di Walter Friedrich Otto, il quale riconosceva in Schelling il solo suo precursore, che aveva compreso la natura primordiale del mito, rispetto a cui le raccolte mitologiche di poeti e filosofi non erano che la manifestazione tarda di un allontanamento dell'uomo dal divino e l'inizio di una lunga fase che avrebbe portato allo scetticismo e poi all'incomprensione della realtà ulteriore rispetto al mondo. Se il divino appartiene a una sfera indipendente dall'umano, vivente di vita propria al di là di ogni terrena coscienza, allora si è nell'ambito non tanto della fede quanto della verità, data una volta per tutte. " Mito è per Otto in origine la parola vera ", scrive il curatore Giampiero Moretti, " proveniente da un'autorità il cui dire non è suscettibile di essere messo in discussione "', una parola che ben si adatta all'uomo tradizionale, il quale, continua Moretti, " non ha una zona "profana" ed una "sacra" della sua esistenza, se è vero, e per Otto lo è, che il mito mostra la sua forza abissale proprio nell'afferrare totalmente l'esistenza umana, improntandola in ogni suo aspetto ". In questa raccolta di scritti e conferenze risalenti agli anni Cinquanta, il grande filologo ribatte sulla convinzione, già presente in altre opere più famose quali ad esempio Dioniso o II poeta e gli antichi dèi, che il mito è essenzialmente verità rivelata, che si offre all'uomo in virtù del genio racchiuso nel linguaggio originario. Dichiarandosi su posizioni opposte a quelle della moderna ermeneutica, che positivisticamente giudica il mito nulla più di una mentalità arcaica superata dai lumi del Logos, Otto torna a vedere nell'uomo una realtà condizionata dal dio perché a lui vicina, tanto vicina da non sentire in sé le scissioni volontaristiche, o peggio esistenzialistiche, che corroderanno l'antica fede. Il destino non è mai libero, impone le sue maglie all'uomo del silenzio, come Hólderlin definiva l'essere in puro contatto con l'infinito, quale doveva apparire nell'epoca principiale anteriore alla storia. Ma non solo al poeta della classicità arcaica e dell'incorrotta nobiltà ricorre Otto, bensì anche al profeta faustiano del Novecento, che tuttavia, di là dalle eccessive semplificazioni postume, seppe ricordare il valore greco del concetto di Hybris; Nietzsche infatti così scriveva ne La volontà di potenza: " La teoria del libero volere è antireligiosa. Vuole attribuire all'uomo il diritto di ritenersi la causa delle proprie condizioni ed azioni superiori: è una forma del crescente sentimento di superbia ". La soggettività — che celebra il suo trionfo con il primato del Logos, strumento calcolante della scelta — cede il posto all'oggettività, poiché liberare il mito dalle incrostazioni razionali significa restituirlo alla realtà, secondo il significato in cui i Greci lo identificavano con la storia: " Mythos è la "storia" nel senso dell'accaduto o di ciò che sta accadendo ", precisa Otto. L'intraducibilità del mito, il suo porsi oltre l'esattezza o la plausibilità, ne fanno un canone eterno e verace, cioè un sapere " che si sottrae all'assalto del pensiero logico e dell'esperimento, e vuole rivelarsi autonomamente ". Di fronte a questo convivere con significati fuori del tempo, indeformabili dal vorace decadimento della civilizzazione, si erge l'incomprensione moderna, l'agnosticismo progressista che spegno e avvilisce tutto quanto sa di grandezza. Contro questo mondo dell'informe, Otto non sa trattenere un moto di condanna: " Com'è folle la dottrina universale secondo cui il motivo va ricercato in un progresso spirituale che da inesperienza, mancanza di chiarezza, e goffaggine iniziali, conduce infine ad un sapere certo, alla chiarezza e ad una consequenzialità rigorosa! ". La teoria di Otto sui tré livelli nei quali si attua la rivelazione mitica è sintomatica dell'alto grado di comprensione della mentalità antica, cui lo studioso era pervenuto in forza della sua capacità di sottrarsi ai vizi scientifici della modernità. Dal primo livello (tutto ciò che è più antico è eterno) al secondo (mito creativo grazie alla mano dell'uomo, che alza una pietra o un tempio dando forma al sacro), fino al terzo (il mito come parola e/o musica) si attua una scala di compenetrazione del divino nell'umano, ed è quello che anima questo. Il poeta non è che un mezzo, dunque, e spesso inconsapevole, per esprimere ciò che viene dal dio e che in lui è stato infuso. Ciò che discende dall'uranico al tellurico è una vera illuminazione, e il mito ne è la balenante rappresentazione. Qualcosa di simile, Otto lo rintraccia soltanto nella poesia, che in ogni epoca ha forgiato con parole e immagini ingiudicabili quel che appartiene all'ispirazione, alla vena non indagabile che scorre tra la sensibilità umana e il cosmo: ciò che chiama la " simpatia di uomo e mondo ". In questo intenso dialogo tra il creato e il creatore si attua la scena primordiale di un confronto tra l'essere e il poter essere, che è la lotta da cui scaturiscono i valori. " La tragedia greca ", afferma Otto, " non è infatti un dramma, come potrebbe esserlo anche un dramma borghese, ma il gareggiare possente fra uomo e dio ". Ed è, questo, un gareggiare sulle alte vette, a contatto con l'assoluto che impone il tragico ad un uomo compiuto e non ad un torbido automa. Per sottolineare quanto la corruzione moderna abbia manomesso il mito, facendone la parabola di turbe analizzate con compiaciuta perversione, per osservare quanto alla solarità originaria corrisponda la nebbiosità civilizzata, Otto prende degli esempi. Edipo è forse il più famoso. Trasformato dal freudismo in un fantoccio libidinoso, Edipo è in realtà il tipo dell'eroe che lotta per sfuggire a un destino sacrilego: abbandona i presunti genitori per sottrarsi a ciò che gli è stato vaticinato, e quando consuma l'incesto non sa di compierlo, poiché non ha " mai conosciuto sua madre in quanto madre ". Il freudismo pertanto non è una lettura legittima del mito, ma una sua psicotica deformazione. L'incapacità moderna di capire la grandezza e di intuire il sublime ha reso un luogo comune — buono tutt'al più per adescare la miseria morale borghese — ciò che in origine era racconto simbolico di quanto la tragicità e la regalità siano intrecciate. " Edipo ", spiega Otto con linearità, " dopo infinite pene, che in quanto tali lo consacrano, accede ad un essere superiore, nelle vicinanze degli dèi ", esempio eterno del " carattere tragico di uomini grandiosi, regali — chè soltanto i re sono materia, per le tragedie greche ". Il mito non vive nella lettera di un racconto che può essere irreale o anche contraddittorio, ma nella sua capacità di esprimere situazioni, stati d'animo, sogni che abitano l'uomo ogni volta che è in grado di rimanere fedele a se stesso e alla sua ispirazione vergine. Otto ce lo rammenta anche citando la frase di Sallustio che più di ogni altra compendia superbamente la stringente presenza di quello che non c'è: " ciò non è mai accaduto, è però sempre! ".