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Discussione: el portolotto

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    Predefinito el portolotto

    Tratto da:

    http://www.comune.rimini.it/cultura/passato/trad2.htm


    LA LINGUA "PORTOLOTTA"
    ncora agli inizi di questo secolo un certo numero di vecchi marinai riminesi parlava una lingua a sè, senza nessun rapporto col dialetto riminese, chiamata "portolotto", cioè, appunto, "lingua degli abitanti del porto". Il fatto che negli antichi Statuti della città il capobarca sia chiamato patronus (traduzione in latino di "parone") fa supporre che già nel Trecento i marinai, i pescatori e tutta la variegata umanità che viveva e lavorava nel porto di Rimini si esprimessero in quel dialetto veneto che è il "portolotto".
    ntorno al 1920 il "portolotto" si estinse del tutto. Di questa "lingua morta" sono rimaste tracce minime: di gran lunga inferiori (ci si passi il paragone azzardato) alle testimonianze in etrusco. Eppure nel 1850, e anche dopo, tutti gli abitanti del porto e dei borghi confinanti (il borgo di Marina e il borgo di San Giuliano) parlavano correntemente, e spesso esclusivamente, il "portolotto". Non era certo una minoranza trascurabile: nel 1864 Luigi Tonini censisce oltre cinquemila anime tra pescatori, naviganti, calafati, facchini, commercianti e "industrianti", ovviamente con le loro famiglie.
    l più lungo reperto in "portolotto" si trova nella farsa in dialetto riminese Nè vedva nè da maridè (Nè vedova nè ragazza da marito), scritta da Ubaldo Valaperta e rappresentata nel novembre del 1867. E' una battuta che pronuncia Bartulein, il marinaio redivivo che, dopo lunghe peregrinazioni, torna dalla moglie Sabèta (Elisabetta) e dalla figlioletta. Sono poche righe; ci limitiamo a trascrivere l'ultima frase: "Da sto momento dago un bon dì al mare per star colla mi fantolina e la mi Sabèta" ("Da questo momento do l'addio al mare per restare con la mia bambina e con la mia Elisabetta").
    el 1977 Gianni Quondamatteo ha pubblicato otto frasi in "portolotto", tutte molto brevi, riprese dalla tradizione orale; per esempio: "Porta e' lumèto" ("Porta la lanterna"), "Prista nu pavlo" ("Prestami un paolo"), "Aspèta che m'impiza la pipa" ("Aspetta che m'accenda la pipa"). Poche altre - quattro in tutto - si trovano disseminate nelle voluminose cronache manoscritte di Filippo Giangi.
    a prima è la supplica che, durante i moti del 1931, un vecchio pescatore rivolge alle nuove autorità: "Sior cavalier, ghe dimandèmo una grazia: non volèmo più pagar el pavolo che paga i barchèti ogni sitimana quando i va a pescar". Il senso è chiaro: si chiede di non pagare più la tassa settimanale di un paolo, moneta dello Stato Pontificio.
    a seconda è il grido di rivolta dei pescatori affamati che, nel 1845, assaltano e saccheggiano due barche cariche di grano: "Fora, gente tuta, portèmo el gran in tera! Fora, fora, no lasèmo andar via la grazia de Dio!" ("Fuori tutti, gente, portiamo il grano in terra! Fuori, fuori, non lasciamoci scappare la grazia di Dio!").
    e ultime due frasi in "portolotto" sono tratte dalla vivace descrizione della "terza festa di Pasqua" del 1841, una tradizionale festa marinara, non priva di tratti originali e stravaganti, che si celebrava tutti gli anni il martedì dopo la Pasqua. Tra le varie e singolari usanze spicca quella di montare, quanti più possibile, in groppa a degli asini e di girare intorno alla chiesa di San Nicolò. Come si può ben immaginare, erano frequenti le cadute dei "disadatti e malpratici" cavallerizzi, con gran divertimento dei "molti astanti, anche cittadini". Quando una comitiva di marinai noleggiava un asino, così si rivolgeva al vetturino: "Dèmelo longo, che semo in quatro; che semo in sie" ("Datamelo lungo, chè dobbiamo salirci in quattro; in sei"). Passando poi, a dorso di somaro, "avanti alle loro innamorate", i marinai lanciavano un richiamo galante: "Ciò, so mi che passe!" ("Ehi, sono io che sto passando!").
    enchè il loro numero sia ristrettissimo, queste citazioni provano l'esistenza di una vera e propria lingua "portolotta" che non ha nulla a che spartire col dialetto riminese, nè coi dialetti romagnoli, nè con quelli gallo-italici. E' senz'ombra di dubbio un dialetto veneto strettamente imparentato col chioggiotto. I secoli del dominio di Venezia e l'imporsi del suo dialetto come "lingua franca" di entrambe le sponde dell'Adriatico e l'assiduità dei contatti e degli scambi con le altre marinerie spiegano facilmente l'esistenza e la persistenza di un'sola linguistica autonoma dentro la città di Rimini. Quondamatteo e Bellosi dicono benissimo: "I marinai riminesi si intendevano meglio con quelli dell'isola di Veglia, nel Quarnero, che non con i contadini di San Vito, a due, tremila metri in linea d'aria".

  2. #2
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    Un linguaggio-fantasma
    Il portolotto è dialetto riminese con qualche zampata del leone di San Marco

    Tutti i fogli che avevo ordinato per supplire alla mia memoria e guidarmi in questa impresa, passati in mano altrui, non ritorneranno più nelle mie. Rousseau, Confessions

    Ricordando il capitano Marino Ghirardelli

    Quando il vecchio capitano Marino Ghirardelli, "Barche" per i pescatori riminesi, inizia a raccontare le sue avventure ormai datate, aventi per teatro luoghi tropicali, o quando rievoca incontri che hanno dell'incredibile, come quella volta a Roma nell'ufficio di Secchia incontrò nientemeno che Beria, o di quando doppiando Capo Horn trovò l'Oceano incredibilmente calmo, o quell'altra a Hong Kong dove, in quel bordello sul porto, trovò una sua compagna di scuola... Alto, massiccio, con le spesse lenti da miope che gli nascondono metà del volto, parla lentamente padroneggiando il dialetto. Un dialetto antico e ormai disusato. Per cui, fin dall'inizio, il narratore si presenta attraverso i vetri appannati di una memoria che è sonno e sogno. E quei suoni arcaici rappresentano qualcosa di più di una semplice nostalgia. Sono confusione, oscillazione, disequilibrio e l'ascoltatore viene trascinato in mezzo agli accadimenti, diventa attore di un fare, di un dialogo ai limiti della storia, e si chiede se quel mondo esiste o è esistito, oppure soltanto appaia. Certo, ha ragione Hjelmslev, quando dice che: "il linguaggio, il parlare umano, offre un'abbondanza inesauribile di molteplici tesori. Il linguaggio è inseparabile all'uomo e lo accompagna in ogni sua attività, il linguaggio è lo strumento con cui l'uomo forma pensieri e sentimenti, stati d'animo, aspirazioni, volizioni, azioni, lo strumento con cui influenza ed è influenzato... ma il linguaggio è anche il sostegno ultimo, indispensabile, dell'individuo, il suo rifugio nell'ora della solitudine, quando la mente lotta col problema dell'esistenza, e il conflitto si risolve nel monologo del poeta e del pensatore". (1) So bene, tuttavia, che definizioni di queste genere, nella maggior parte dei casi, non sono conformi all'uso quotidiano. I linguisti hanno l'abitudine di attribuire alla parola "linguaggio" un significato diverso da quello usato dai logici o dagli storici. Ma qui i campi si intrecciano, si sovrappongono. Nel linguaggio del vecchio capitano non bisogna ricercare le distinzioni fra i tipi di discorso, Bisogna accettarlo così com'è, prendere, far proprie, amare le forme più oscure, bisogna ignorare la sintassi bella e pronta con cui si ha l'abitudine di collegare tra loro i discorsi della realtà mimetica, le distinzioni, i principi immutabili, le regole normative, le tipologie istituzionalizzate. Quel dialetto portolotto doveva essere oltremodo affascinante. Non ne è rimasto nulla. Il portolotto oggi è come una fiaba che non si lascia raccontare.

    Quasi quasi ti dò uno strappo...

    Va da sé, che le figure di Battista e di Ninaza (due pescatori riminesi del primo novecento) che dialogano una domenica mattina, piccoli personaggi che attraverso la parola (la narrazione di Marino Ghirardelli) vengono ad assumere contorni prometeici, secondo la definizione di Durand (2), sono due intermediari del tutto e del nulla. Battista e Ninaza s'incontrano sulla Piazza della Fontana: B. - Du vatu ti? N. - A vag a mesa. B. - Du vel chi fa bein? N. - Ti Servi, i fa selpa e cala, te Domo i fa in tera e via. B. - Alora, a vag te Domo. Recatosi al Tempio Malatestiano, mentre la funzione sta per finire, si avvia verso l'uscita. Uscendo, incespica con le sue rozze scarpe nella vaporosa sottana di una signora, producendole un largo strappo. La signora si volta e con fare piccato apostrofa il marinaio: - Brutto villanzone! - Offeso, questi risponde: - Villanzone ma mi, anegada dona? Quant mi entri in porto al veli a li manticio. Ai faz regula me mestier. Ti invece tvein in porto a pataca verta fasèndo la pavona! Se a to de di dani va da Monaldi, fat tacà uno sferzo (3) (4). Traduzione: B. - Dove vai? N. - Vado a messa. B. - Dove fanno presto? N. - Ai Servi ne dicono una dietro all'altra e al Duomo una e basta. B. - Allora vado al Duomo. Signora. - Brutto villanzone! B. - Villanzone a me? Che potessi annegare. Quando entro in porto le vele le ammaino. Faccio regola a ciò che il mestiere insegna. Tu invece entri in porto facendo la ruota come fa il pavone. Se ti ho fatto dei danni va' da Monaldi che ti attacca una pezza. Senza dubbio si tratta di un dialetto diverso da quello puramente riminese e queste differenze si notano e a livello fonetico e a quello morfologico. Nel dialetto di Rimini la seconda persona del pronome personale è te o t (es: dove vai? = Du vet? - Te du t've?). In questo caso ci troviamo in presenza del ti e questo ti lo abbiamo in una forma soggettiva proclitica: Du vatu ti - che è forma mutuata dal dialetto veneto. (5) Altra testimonianza dell'influsso veneto è la degeminizzazione delle due esse di "messa": dial. riminese = messa e non mesa (6), e il mantenimento della vocale finale in "Domo" (dial. riminese = dom). Difatti nel dialetto romagnolo non si conosce generalmente in posizione finale né o né u, mentre il veneto mantiene l'o (es.: braccio = braso - gallo = galo). (7) E ancora porto per port, sferzo per sferz. E anche quel gerundio "fasendo", quando il romagnolo conosce la sola desinenza "end" (es: e vneva in qua d'iredénd = veniva in qua ridendo). (8) Il dialetto veneto, quindi, è l'elemento maggiormente inquinante di questa parlata. Prova ulteriore è il mantenimento della i come vocale atona nella sillaba finale (nel gerundio: fasendi = facendo). (9)

    Incontri ravvicinati di tipo linguistico

    Si potrebbe continuare in questa analisi e a ogni passo si troverebbero esempi che confermerebbero questa teoria. Ciò è dovuto a motivi commerciali, motivi di soglia, di contiguità con le marinerie di Chioggia e di Venezia che incrociavano le prue con i legni riminesi. Ma questo sarebbe tutt'altro discorso. Tuttavia il rimestare in una materia così lutulenta come il dialetto e per di più un dialetto scomparso, fa, alla fine, l'impressione di un arrogante e nello stesso tempo dissacrante tentativo di violazione, di volontà di sapere. Quando si cerca di definire come "proprio oggetto" un discorso di due poveri pescatori, ci si arroga il diritto di definire, per mezzo di astratte argomentazioni, l'intero mondo. E se il linguaggio è un insieme di segni, lo studio del linguaggio è lo studio che si interessa ad "ogni cosa che possa essere assunta come un sostituto significante di qualcosa d'altro". (10) Preferisco ricorrere all'immaginazione, e seguire il mio vecchio e amato capitano nei suoi viaggi ai limiti della storia. Del resto, come ci insegna Lacan: "si ricorre all'immaginario per farsi un'idea del reale - SE FAIRE scrivetelo SPHERE e saprete cosa voglia dire immaginario". (l1) Nella sfera di cristallo è rinvenibile la sola risposta a questo dialetto scomparso: "vaneggiar sì che il viver pare un gioco, / pensando pur: che sarò io? che fui?"

    Note: 1) L. Hjelmslev - I fondamenti della teoria del linguaggio - Einaudi, Torino, 1975, pag.5 2) G. Durand - Figures mitiques et visage de l'oeuvre. Science de l'homme et tradition - Berg. Paris, 1979 3) Striscia di tela di puro cotone per la fabbricazione delle vele. Tagliare le vele costituiva una vera e propria arte. A Rimini, fra i più noti e abili maestri, ricordiamo i fratelli Giuseppe e Flavio Monaldi. Cfr. G. Quondamatteo e G. Bellosi: Romagna Civiltà, vol. II, I dialetti: grammatica e dizionari. Galeati, Imola, 1977, pag.143. 4) Questo aneddoto è riportato anche da M. Macina: Rimini all'inizio del secolo, Zangheri, 1971, pag. 39. 5) G. Rohlfs - Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. (Morfologia), Torino, 1967, pag. 141 6) G. Rohlfs - id. (Fonetica) pag. 323 7) G. Rohlfs - id. (Fonetica) pag.186 8) G. Quondamatteo, G. Bellosi - Romagna Civiltà, vol. II, pag. 33 9) G. Rohlfs - id. (Fonetica) pag. 180 10) U. Eco - Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, pag.17 11) J. Lacan - La scission de 1953, Documenti a cura di J.A. Miller. Supplemento al n.7 di Ornicar, giugno-luglio 1976




    tratto da:
    http://www.chiamamicitta.com/n327/enzo.htm

 

 

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