Tratto dalla mailing list del Movimento Giovani Padani
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> Si parlava qualche giorno fa degli articoli apparsi sulla versione Online
> della rivista "Indipendenza". Eccone l'unico a favore della Padania, ad
> opera di Sergio Salvi. Buona lettura.
> MC
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> Sergio Salvi è uno studioso dei movimenti nazionalitari. Tra le sue opere
> ricordiamo Le nazioni proibite (Firenze, 1973) dedicato alle nazioni senza
> Stato dell’Europa occidentale, Le lingue tagliate (Milano, 1975) incentrato
> sulle minoranze linguistiche della repubblica italiana e Patria e Matria
> (Firenze, 1978) uno studio sull’applicazione del principio di nazionalità
> nell’Europa contemporanea.
> Delle più recenti segnaliamo la disUnione Sovietica (Ponte alle Grazie,
> 1990), che ha come sottotitolo Guida alle nazioni del Non Russia, scritto
> poco prima dell’implosione -o, se si preferisce, dello scioglimento politico
> formale- dell’URSS, nel ‘91, in cui Salvi dedica a ciascuna delle nazioni di
> questa non-Russia un ritratto ‘dall’interno’, ricco di dati e di
> informazioni inedite o rare, facendo il punto sulla cultura, la storia
> secolare, la lingua e la cronaca politica più recente di ciascuna di esse.
>
La nazione padana
>
> Sul n.66/67 (1ª serie) di Indipendenza ho letto un articolo di Giulio
> Silvestri dove si afferma che la Padania, come nazione, non esiste. È
> sicuramente un’opinione condivisa dalla maggioranza degli italiani, sulla
> quale convengono e convergono non soltanto Fini e D’Alema ma anche Rauti e
> Bertinotti. L’opinione contraria sembra avere, al momento, soltanto la
> sponsorship, per giunta sospetta, di Bossi. Personalmente credo invece che
> la Padania, come nazione, esista. E mi dispiace che soltanto la Lega Nord
> sia di questo avviso. Vedrei volentieri una sinistra padana, anche di tipo
> tradizionale, che contendesse alla Lega il monopolio del padanismo. Anche se
> non escludo una sua prossima comparsa in tempi anche relativamente brevi,
> devo constatare che soltanto una ideologia apparentemente di destra
> fornisce, in questo momento, un supporto politico e culturale ad una realtà
> che mi appare sempre più inoppugnabile anche per una possibile sinistra al
> passo coi tempi. Del resto la nazione basca esisteva anche se il suo
> profeta, Sabino Arana Goiri, era un "reazionario" intinto di razzismo. Hanno
> creduto poi, ardentemente, nella nazione bretone tanto il "bolscevico" Yann
> Sohier quanto il filonazista Célestin Lainé.
> Ma torniamo alle argomentazioni di Silvestri che, per una parte almeno, sono
> le stesse di Veltroni e di Gasparri. Ciò appare evidente quando il
> collaboratore di Indipendenza ritiene impossibile che "la fantomatica
> Padania sia mai stata o possa oggi essere considerata un’entità nazionale
> distinta dal resto dell’Italia". La ragione addotta è "etnica", cioè, in
> fondo, linguistica: la supposta mancanza di una lingua propria e di una
> conseguente rivendicazione ("patrimonio imprescindibile di tutti i movimenti
> a base etnica") che caratterizzi i "nazionalisti" padani (cioè, attualmente,
> i leghisti). A parte il fatto che la Lega, ora che è possibile accorgersi di
> ciò che bolle nella sua pentola (grazie al quotidiano la Padania e alla
> maggior diffusione dei Quaderni padani), è piuttosto impegnata, sia pure in
> modo goffo, in rivendicazioni di questo tipo, mi sembra che gli argomenti a
> favore dell’esistenza di una lingua padana, sia pure priva di una forma
> standard, siano sempre più evidenti (anche se poco visibili sui mass media,
> del tutto trascurati dalla scuola dell’obbligo e pertanto ignoti, o quasi,
> all’opinione pubblica).
> Le lingue etniche dei cittadini italiani, tuttora vive e vegete col nome e
> il rango di "dialetti", sono sempre state celate dalle cortine di fumo e di
> incenso sprigionate dal culto e dall’uso (obbligatorio) della cosiddetta
> lingua italiana, in realtà il dialetto fiorentino del XIII secolo,
> normalizzato circa tre secoli dopo. Questo dialetto prestigioso si è imposto
> presso una limitatissima cerchia di intellettuali, soprattutto a causa dell’
> eccellenza della sua dimensione letteraria ed è stato poi imposto, per via
> politica e amministrativa, al resto degli italiani. Proprio a causa di
> questa dimensione letteraria esorbitante, i primi classificatori degli
> idiomi romanzi (Diez, 1836-43; Meyer-Lübke, 1890-1902; Wartburg, 1939), che
> non badavano troppo ai "dialetti" quando erano privi di rilevanza
> letteraria, parlano, nei confronti della penisola, soltanto di lingua
> italiana, anche se a partire da Meyer-Lübke il sardo e il retoromanzo (con
> il friulano) sono stati svincolati dal sistema dei dialetti italiani e hanno
> visto riconosciuta la loro identità.
> Come nelle scuole italiane non si insegna la musica, in esse non viene
> insegnata nemmeno la linguistica. A causa di questa situazione, pochissimi
> italiani colti, che pure mostrano di sapere che il francese e lo spagnolo
> non sono dialetti italiani, sanno che il sardo e il friulano sono lingue
> diverse dall’italiano. E soltanto qualcuno tra loro mostra di intendere, per
> questa ragione, l’esistenza di una nazionalità sarda e friulana distinte da
> quella italiana.
> Si contano forse sulla punta delle dita di una sola mano coloro che sanno
> come il linguista Clemente Merlo abbia (1924-37) ripartito i numerosi
> dialetti rimasti italiani (dopo la secessione classificatoria del sardo e
> del ladino-friulano) in tre gruppi: settentrionale, toscano e
> centro-meridionale. Tale tripartizione è diventata però canonica ed è stata
> accettata in quasi tutti i manuali di dialettologia. Ma le cose sono andate
> avanti, negli ultimi tempi, in modo forse imprevedibile. Nel 1952, un altro
> linguista, A. Monteverdi, ha riconosciuto al sistema dialettale "italiano
> settentrionale" una decisa e precisa autonomia, tale da separarlo dai
> dialetti fino allora considerati italiani. Nel 1972, un altro linguista
> celebre, G. B. Pellegrini, ha rilevato che, concessa a ragione un’identità
> precipua ai dialetti alto-italiani, non si capiva proprio perché una analoga
> autonomia non dovesse venire elargita anche a quelli italiani
> centro-meridionali. Ed ha stilato una classificazione autorevole (I cinque
> sistemi dell’italo-romanzo) secondo la quale i gruppi linguistici autoctoni
> del paese sono: 1) italiano settentrionale o cisalpino, nel quale vengono
> inclusi anche il ligure, il veneto e l’istrioto, che appaiono, a prima
> vista, dotati di una minore affinità con gli altri dialetti del gruppo; 2)
> friulano; 3) italiano centro-meridionale; 4) sardo; 5) toscano. L’"italiano
> settentrionale" o "cisalpino" può essere, oggi, definito "padano", in
> sintonia con la nuova terminologia politica.
> È ovvio che la lingua italiana (quella ufficiale dello stato) appare
> collegata, storicamente e strutturalmente, soltanto al sistema dialettale
> toscano, dal quale gli altri sistemi dialettali divergono in maniera
> cospicua così come divergono tra di loro. Durante le recenti elezioni
> politiche, un autonomista siciliano ebbe del resto a dichiarare che se un
> italiano meridionale dice, nella sua lingua parlata, iu aju per io ho, un
> settentrionale direbbe, nella medesima circostanza, mi go: a prova della
> radicale diversità fra questi due popoli, perlomeno come idioma. Questo
> aneddoto, più politico che linguistico, è sufficiente a fare intendere una
> differenza che sarebbe stolto, in questa sede, esplicare con un elenco
> esaustivo delle caratteristiche specifiche dei diversi sistemi linguistici
> che si spartiscono territorialmente lo stato italiano.
> Spero che i lettori di Indipendenza, approfondendo per conto loro i tratti
> distintivi dei vari sistemi enunciati da Pellegrini, siano convinti che il
> dialetto di Torino, quello di Milano e quello di Genova siano segnati sì da
> differenze ma anche da un grado di affinità assai maggiore di quello
> rilevabile da un confronto tra uno di questi dialetti e il napoletano oppure
> il trapanese.
> Ciò significa, lo ripeto, che il nostro paese è diviso, al suo interno, in
> cinque aree linguistiche e culturali e che ognuna di queste aree si trova in
> condizioni non dissimili da quelle che caratterizzano, nello stato spagnolo,
> i territori di lingua castigliana, quelli di lingua catalana, quelli di
> lingua basca e quelli di lingua galaico-portoghese. Se dalla lingua si passa
> alla cultura, dalla cultura alla storia, dalla storia alla società e all’
> economia, si vedrà come queste aree si qualifichino come sedi di autentiche
> comunità. Secondo alcuni costumi terminologici ormai inveterati, queste
> comunità si definiscono "nazioni". Se ci sono ragioni evidenti per sostenere
> (da parte, evidentemente, di chi lo sostiene) che esiste una entità
> nazionale catalana diversa dal resto della Spagna (sto parafrasando
> Silvestri) non si capisce perché lo stesso discorso non valga anche per la
> Padania. Almeno da un punto di vista linguistico. Anche se per molti la
> lingua non è tutto, essa è, a mio avviso, la spia di tutto (o quasi).
> Soprattutto della dimensione nazionale dei popoli (e mi sembra che questa
> opinione sia, almeno teoricamente, condivisa da Silvestri).
> Secondo un determinato filone ideologico, fatto proprio tra l’altro dal
> pensiero marxista (oggi piuttosto disprezzato), non è necessaria la
> consapevolezza di un popolo di far parte di una determinata nazione perché
> la sua appartenenza nazionale possa essere revocata.
> Appare tuttavia inspiegabile come una coscienza nazionale padana non sia
> sorta almeno attorno alla metà del XIX secolo, come è accaduto nel caso dei
> baschi o dei catalani, dei lituani e dei lettoni, dei bretoni o addirittura
> degli occitani. Le condizioni c’erano tutte (meno quella, appunto, della
> coscienza). Ad ogni modo, questa coscienza oggi esiste, non importa quanto
> diffusa. Anche se esiste da pochi anni (forse mesi). Tramite la Lega Nord,
> si è addirittura manifestata in termini perentori, rilevabili sul piano
> politico e su quello elettorale.
> Su questo piano, la Padania ha già battuto l’Occitania, che pure si è
> risvegliata un secolo e mezzo fa. I partiti occitanisti ottengono, nelle
> elezioni politiche francesi, percentuali da prefisso telefonico. L’unico
> partito padanista purtroppo esistente, la Lega Nord, nella tornata politica
> del 1996 ha ottenuto, in Padania, più del 20% dei voti qualificandosi, nel
> computo proporzionale, come il maggior partito dell’Italia settentrionale.
> Dal punto di vista culturale, l’Occitania appare invece in netto vantaggio
> sulla Padania. La riflessione storica, l’attività linguistica e letteraria,
> l’indagine accurata della propria identità hanno prodotto, in Occitania, una
> serie rilevante di studi ineccepibili e di affermazioni non aprioristiche. I
> padanisti appaiono, al confronto, ancora fermi al nastro di partenza, con l’
> aggravante di tutta una serie di false partenze che sembrano segnare
> itinerari confusi e contraddittori. Ma sono soltanto all’inizio. L’Occitania
> appare, tra le comunità nazionali prive di stato dell’Europa occidentale,
> come il caso più simile a quello padano. Padania e Occitania sono infatti le
> comunità maggiori sia per territorio sia per numero di abitanti (24.000.000
> di padani su 58.000.000 di "italiani"; 15.000.000 di occitani su 56.000.000
> di "francesi"): riconoscerle come nazionalità significa mettere radicalmente
> in discussione la liceità e la permanenza di stati che vengono abitualmente
> quanto erroneamente considerati "nazionali" (uno di essi, addirittura come
> il prototipo dello stato nazionale moderno). La fatica intellettuale che un
> riconoscimento di questo tipo costa al cittadino medio di questi due stati
> (e lo sconcerto che ne deriva) è sicuramente devastante e soprattutto
> superiore a quella relativa al riconoscimento delle abituali minoranze ormai
> note. I corsi sono appena 250.000; i valdostani 100.000.
> Un altro aspetto lega tra loro queste due realtà per tanti aspetti
> emblematiche. Trattandosi di due comunità relativamente vaste, le varietà
> regionali esistenti al loro interno appaiono sensibili. Ma non tali da
> negare un chiaro denominatore comune. Ciò appare evidente sul piano
> linguistico. Le affinità tra i diversi dialetti nei quali si articolano i
> due ambiti sono comunque maggiori delle diversità: il provenzale è infatti
> assai più vicino all’alverniate che non al borgognone (che è infatti un
> dialetto francese). È la stessa situazione del romagnolo nei confronti del
> piemontese (ma non nei confronti del pur limitrofo toscano, con il quale le
> divergenze sono nette). Padania e Occitania recano entrambe, nei loro
> sistemi dialettali, alcuni esempi di "minore affinità" che possono dare
> luogo a qualche dubbio (comunque risolvibile e in effetti risolto). È il
> caso del guascone nei confronti degli altri dialetti occitani. È il caso del
> veneto nei confronti degli altri dialetti padani. Qualcosa di simile accade
> anche alla Catalogna, qualora la si intenda in maniera corretta, cioè non
> solo come la "comunità" amministrativa autonoma di questo nome dello stato
> spagnolo ma come una comunità nazionale comprendente, in Spagna, anche il
> Paese Valenzano e le Baleari.
> Sul piano linguistico, tuttavia, questa più grande Catalogna (10.000.000 di
> catalani su 40.000.000 di "spagnoli") può contare su un fatto di importanza
> fondamentale. La lingua catalana non è più soltanto una "federazione di
> dialetti". Ha sviluppato, al suo interno, addirittura nel 1913, una forma
> standard che è diventata, grazie alla costituzione spagnola del 1978, la
> lingua ufficiale (insieme ovviamente al castigliano) della Comunità Autonoma
> di Catalogna, di quella delle Baleari e perfino della Comunità Valenzana, la
> meno cosciente della propria nazionalità catalana: al punto che Valenza, per
> una rivalità storica nei confronti di Barcellona, chiama questa lingua
> "valenzana", anche se è identica a quella chiamata catalana in Catalogna e
> nelle Baleari, anche se è assai più vicina al dialetto di Barcellona che a
> quello di Valenza.
> L’Occitania è ancora lontana da questo risultato. Ha comunque messo a punto,
> a cavallo dell’ultima guerra mondiale, una standardizzazione ortografica dei
> suoi dialetti, ispirandosi in larga parte alla grafia dei trovatori: è un
> sistema che riesce a diminuire considerevolmente le diversità registrabili
> al livello della lingua parlata. È ovvio che l’uso di questa lingua
> normalizzata soltanto ortograficamente non è ufficiale. La Francia è
> infatti, come e più dell’Italia, un paese rigidamente centralizzato.
> Tuttavia, in alcuni settori dell’educazione, questa lingua è riconosciuta e
> perfino impiegata. Dal 1951, con la Legge Deixonne, l’occitano è infatti
> riconosciuto dallo stato francese come una delle "lingue regionali di
> Francia" anche se si presenta come un ventaglio di dialetti (di cui si
> ammette evidentemente l’unità di fondo). Allo stesso titolo, concesso, ad
> esempio, al catalano di Francia (una parte del paese catalano fu annesso
> alla Francia del 1659, con la pace dei Pirenei) dove si parla, più o meno,
> il dialetto di Barcellona.
> La situazione linguistica della Padania è sicuramente peggiore di quella
> occitana in quanto non esiste ancora una minima standardizzazione
> ortografica tale da segnalare convenzionalmente l’affinità indubitabile tra
> i vari dialetti. La scrittura cervellotica con la quale si presentano i
> diversi dialetti sembra fatta apposta per celarne l’affinità. Manca poi, nel
> nostro paese, il riconoscimento da parte dell’opinione pubblica (e della
> maggior parte degli intellettuali) dell’unità strutturale della lingua
> padana. Se il parlamento di Roma approvasse una sua Legge Deixonne,
> probabilmente non vi parlerebbe nemmeno di lingua padana ma di "lingue"
> piemontese, lombarda, emiliana e così via. È come se la Francia non
> riconoscesse l’occitano ma ponendoli sullo stesso piano (e sul piano del
> corso, del bretone e così via) parlasse solo di provenzale, di gavotto, di
> linguadociano, di alverniate, di limosine e di guascone, ignorando la loro
> unità di fondo.
> È innegabile che l’Occitania gode di un atout di grande peso culturale: è il
> paese della lingua d’oc, nella quale si è espressa, molti secoli fa, una
> grande stagione della letteratura europea. Se i primi classificatori degli
> idiomi neolatini hanno tenuto separato l’occitano dal francese, nonostante
> la frammentazione dialettale dell’occitano, ciò dipende esclusivamente da
> questa ragione.
> La Padania non ha invece espresso, nella sua lingua autoctona, una
> letteratura paragonabile, per importanza e per notorietà, a quella dei
> trovatori. Eppure, nel XIII secolo, alcuni poeti come Bonvesin da la Riva,
> Ugo di Perso, Girardo Patecchio, Uguccione da Lodi, Pietro da Bersagapé,
> Giacomino da Verona e altri scrivevano in lingua padana. Afferma in
> proposito Gerhard Rohlfs che "in Alta Italia si era sviluppata una koiné
> padana, di tipo lombardo-veneto, di ampio uso letterario. Nel corso del
> Duecento questa koiné era già sulla via di assurgere a lingua letteraria
> nazionale". Di quale nazione? Di quella padana, ovviamente.
> Poi le cose sono andate diversamente. La politica e le armi hanno sconfitto
> la lingua occitana dei trovatori con la vittoria del francese, nonostante la
> sua grande letteratura; così come, con modalità diverse, hanno sconfitto la
> lingua padana con la vittoria dell’italiano. I due popoli hanno bensì
> continuato a parlare i loro dialetti precipui ma hanno perso ogni modello di
> riferimento e l’idea stessa della loro appartenenza ad un’unica lingua. A
> volerla dire tutta, dovremmo segnalare che i dialetti padani sono più vicini
> ai dialetti occitani che a quelli considerati tradizionalmente "italiani".
> Se dalla coppia nazionale Occitania-Padania si passa alla coppia statale
> Francia-Italia, si assiste ad un vero paradosso. Mentre in Francia esiste
> una nazione francese che, ingrandendosi territorialmente a spese di altre
> nazioni, ha formato lo stato francese, in Italia esiste uno stato italiano
> ma non una nazione italiana. La conquista franca della Gallia ha mutato, del
> resto, il nome di quella regione trasformandolo in Francia. La conquista
> franca dell’Italia ha impedito che essa diventasse Lombardia (cioè
> Longobardia) e alla regione è rimasto un nome soltanto geografico, privo di
> connotazioni etniche.
> In Francia abbiamo dunque una nazione francese ma anche una nazione
> occitana, una nazione bretone e frange delle nazioni olandese, tedesca,
> "italiana", basca e catalana. In Italia, oltre a frange delle nazioni
> francese, occitana, tedesca, slovena, croata, albanese, greca e catalana,
> nonché a piccole nazioni come la sarda, la friulana e la ladina dolomitica,
> esistono in realtà una nazione padana, una nazione toscana e una nazione che
> al momento si definisce come "italiana centro-meridionale" (Nicola Zitara
> vorrebbe chiamarla Magna Grecia, il microscopico Fronte di Liberazione
> Meridionale avanza il nome di Enotria, la neonata Lega di Melfi quello di
> Ausonia e qualcuno suggerisce, con un certo acume storico, Repubblica delle
> Due Sicilie). Manca dunque la nazione italiana, a meno di non ritenere tale
> la sola Toscana, che ha dato allo stato italiano la sua lingua ufficiale (ma
> sarebbe una forzatura). Del resto, lo stato italiano è sorto in tempi magari
> recenti (durante i quali la linguistica muoveva però i suoi primi passi),
> convinto che esistessero davvero una lingua e una nazione italiana. Oggi
> sappiamo che una nazione e una lingua italiana non esistono (se non come
> finzione giuridica ed invenzione letteraria) e che esistono invece una
> lingua ed una nazione padane. O almeno dovremmo saperlo. I nomi delle
> nazioni sono, ovviamente, artificiali e spesso appaiono inventati per
> ragioni di opportunità e di visibilità. Se Francia deriva dalla conquista
> franca della Gallia, Occitania (coniato sull’oc della sua lingua) è stato
> ripreso da alcune cronache medievali nel nostro secolo ed è stato accettato
> a partire dagli anni Cinquanta.
> Padania è un nome che deriva da una divisione ormai classica operata dalla
> geografia fisica. L’Italia, come forse non si sa ma si dovrebbe sapere, è
> formata da due regioni fisiche contigue: una parte continentale, che i
> geografi hanno chiamato in tempi non sospetti Padania, e la penisola vera e
> propria, chiamata invece Appenninia. La Lega Nord si è impossessata in tempi
> recentissimi del primo di questi nomi per dotarlo di connotati nazionali. È
> chiaro che la Padania fisica e la Padania-nazione non coincidono: terre
> geograficamente padane come la Valle d’Aosta, il Tirolo meridionale e il
> Friuli, per citare soltanto le principali, non fanno parte della nazione
> padana. Del resto, ciò che all’interno dello stato italiano è stato
> denominato Appenninia dai geografi fisici, appare diviso in due entità
> nazionali diverse: la Toscana e il resto della penisola. La divisione tra
> Centro e Sud, abituale a livello statistico e assai diffusa, da un punto di
> vista linguistico proprio non esiste. E nessun cittadino italiano si
> definisce, o si è mai definito "centrale", quando tanti altri cittadini si
> definiscono "settentrionali" oppure "meridionali".
> In Francia esiste dunque una nazione francese che attraverso lo stato ha
> imposto la propria egemonia ad altre nazioni e brandelli di nazionalità
> territorialmente limitrofi. Parigi, la capitale di quella nazione, è anche
> la capitale dello stato e il suo dialetto, che è stato alla base della forma
> standard della lingua francese, è la lingua ufficiale di quel medesimo
> stato. La nazione francese ha poi colonizzato, a livello sociale, culturale
> ed economico, in quanto titolare dello stato, le nazioni conquistate nel
> tempo.
> Vediamo ora la situazione dello stato italiano, privo di una nazione
> italiana. La nazione padana, attraverso un suo staterello periferico, ha
> fatto quello che in Francia è stato fatto dalla nazione francese e dal regno
> di Francia. Ha infatti colonizzato le altre nazioni presenti sul suo
> territorio servendosi di una lingua che non era la sua (cioè del toscano). E
> si è scelta come capitale, non appena le è stato possibile, una città
> situata fuori dal suo territorio. Ha tuttavia promosso e conservato per sé l
> ’egemonia sociale, economica e culturale sull’intero territorio dello stato
> (nell’interesse della propria borghesia). È ovvio che, di questo, le classi
> popolari padane non sono responsabili; le classi dirigenti, sì. Hanno
> ignorato la Padania e puntato sull’Italia.
> E qui le analogie tra Padania e Occitania terminano bruscamente.
> La Francia, che esiste davvero come nazione, ha brutalmente colonizzato, a
> tutti i livelli, l’Occitania (una volta chiamata Midi, "Mezzogiorno"). La
> Padania, travestita da Italia (che come nazione non esiste) ha, forse ancora
> più brutalmente, colonizzato il cosiddetto Mezzogiorno (che sembra non avere
> trovato ancora un nome nazionale nel quale riconoscersi). Soltanto che alla
> Padania, ora che ha costruito la propria dimensione economica inserita nel
> mercato globale, la colonia meridionale comincia a pesare troppo rispetto ai
> benefici che pure continua a trarne. Il cosiddetto Mezzogiorno, d’altra
> parte, si è prestato al gioco. Le sue classi dirigenti hanno aderito all’
> alibi dell’unità nazionale (che in realtà significava "unità statale": di
> uno stato che poteva esistere soltanto imponendo il sottosviluppo di una sua
> parte a vantaggio di un’altra parte, quella che è stata la costruttrice
> dello stato medesimo).
> Si è verificata, nel tempo, una divisione del lavoro tra le classi dirigenti
> dei due principali settori del territorio e della società dello stato (cioè
> delle due nazioni principali). I meridionali, anziché pensare alla
> liberazione della loro nazione, hanno cominciato a gestire in prima persona
> (e per "conto terzi") lo stato, collocandosi nell’ambito di una "nazione"
> presunta, quella italiana, rivelandosi così, in realtà, i dipendenti fedeli
> di una nazione reale, quella padana, che non era ovviamente la loro. Ne
> hanno ricevuto, in cambio, benefici personali e di classe. A favore del
> popolo da cui provenivano (e hanno tradito), dopo i ricorrenti (ed enormi)
> salassi dell’emigrazione, hanno ottenuto soltanto di ribadire la
> subordinazione attraverso la pratica dell’assistenzialismo. I
> settentrionali, nel frattempo, hanno continuato a fare i loro affari, all’
> ombra dei fedeli gestori meridionali dello stato, fino a quando il peso dell
> ’assistenzialismo non si è rivelato, per alcuni di loro, insopportabile.
> Soltanto allora questi padani hanno revocato l’appartenenza alla nazione
> virtuale cui avevano deciso di essere parte ed hanno scoperto la loro vera
> nazionalità, cominciando addirittura a progettare un proprio stato, questa
> volta "nazionale" per davvero, da realizzarsi tramite la secessione. Così
> facendo, hanno però avuto il merito oggettivo (paradossale ma indiscutibile)
> di innescare la possibile liberazione economica, sociale, "nazionale", della
> nazione meridionale, che può risollevarsi soltanto prendendo in mano le
> chiavi del proprio sviluppo, spezzando la logica perversa che ha originato
> il sottosviluppo ed è la logica dello stato unitario (non più necessario
> alla nazione dominante, quella padana, ma ancora meno necessario, anzi,
> nocivo, al popolo meridionale). Questo stato "unitario", seguendo la logica
> del suo sviluppo, mostra oggi il 5% di disoccupati sul territorio della
> nazione padana e il 25% sul territorio della nazione meridionale. La
> Padania, che ha la responsabilità storica di aver fatto l’Italia, si è ora
> assunta la responsabilità di disfarla. Nel suo interesse ma anche in quello
> dei meridionali.
> Anche per chi non crede al "nesso indissolubile lingua-nazione" la presenza,
> all’interno dello stesso stato, di almeno due economie e due società, tra
> loro contraddittorie e contrastanti, è un dato di fatto indubitabile. Ma ci
> sono altre differenze di fondo (di cultura e di storia) che non possono
> essere trascurate (e delle quali la scuola e i mass media non parlano). Ne
> accennerò soltanto poiché questa non mi sembra la sede adatta: questo è
> soltanto un intervento polemico che vuole ribaltare alcuni luoghi comuni,
> purtroppo, nel nostro paese, patrimonio anche della sinistra (tradizionale e
> non). C’è una differenza genetica tra Nord, Toscana e Sud che permane dall’
> epoca preromana (si leggano gli studi in proposito di Cavalli Sforza e di
> Piazza); c’è una differenza storica nella progressiva romanizzazione del
> territorio in questo momento appartenente alla repubblica italiana che vede
> l’Appennino tosco-emiliano ergersi come confine preciso e le Alpi
> occidentali giocare il ruolo di trait-d’union (i dialetti padani sono più
> simili a quelli occitani e francesi che non a quelli toscani e
> centro-meridionali); c’è uno sviluppo politico-istituzionale del Nord che
> con la disgregazione del regno longobardo e poi franco porta alla nascita
> dei comuni, profondamente dissimile dal percorso di riaggregazione del Sud
> in un regno unitario (il primo stato moderno in Europa), a partire dai
> normanni e soprattutto con Federico II (sia pure con ricorrenti divisioni
> tra le "due Sicilie"). C’è, infine, una vocazione mediterranea del
> Mezzogiorno che contrasta con l’europeismo delle regioni padane e indica la
> via di un profondo riscatto di tutti i popoli meridionali d’Europa. Come si
> vede, la mia apologia della Padania è indissolubile da una prospettiva
> globale di rinascita di quella nazione proibita (e ancora senza nome: il
> "Mezzogiorno") dallo stato italiano e dalle proprie classi dirigenti che può
> (e deve) uscire dal baratro dove è stata sospinta dai padani d’antan e può
> farlo solo grazie all’"egoismo" dei padani di oggi.
>
> Sergio Salvi