Lo scenario mediorientale ripropone la drammatica questione della «guerra ai civili», un concetto nato a ridosso della modernità, quando conflitti di massa e razzismo si saldano per demonizzare il nemico e renderne accettabile l'eliminazione. Da allora, sarà proprio la vita civile l'obiettivo principale delle azioni belliche

PAOLO PEZZINO

Che sempre in guerra le popolazioni siano state sottoposte a distruzioni, sofferenze, lutti è un fatto scontato, così come che queste abbiano assunto spesso dimensioni di massa. Per non andare troppo indietro nel tempo, nella guerra dei Trenta anni che sconvolse l'Europa dal 1618 al 1648, «la lunga durata della guerra e le continue migrazioni di truppe e mutazioni del fronte significavano una condizione di guerra civile costante e intollerabile. I viaggiatori che attraversarono allora le città tedesche videro spettacoli orrendi e indimenticabili: tesori d'arte e di cultura distrutti, saccheggiati, svenduti, una popolazione decimata e disperata, episodi di cannibalismo per fame» (Prosperi). Alla fine della guerra nell'Impero germanico la popolazione era diminuita, secondo alcune stime, da 15 a 10 milioni. Ma il concetto di «guerra ai civili» va al di là della constatazione che i civili in guerra soffrono, indicando una condizione nella quale scompare la distinzione fra civili e combattente, che è propria delle guerre dell'ultimo secolo: è solo in queste, infatti, che il peso della massa dei cittadini, il loro morale, il loro sostegno allo Stato in guerra, sono altrettanto essenziali, per il buon esito del conflitto delle capacità offensive degli eserciti.

Da questo punto di vista, è indubbio che il momento di svolta sia stata la prima guerra mondiale, definita da Furet la «prima guerra democratica della storia», dato che il conflitto «in ciascuno dei paesi interessati, vale a dire nell'Europa intera, colpisce l'universalità dei cittadini [...] E' una guerra democratica perché è fatta di numeri: dei combattenti, dei mezzi, dei caduti. Ma per questo motivo più che una vicenda militare è una vicenda civile; più che un combattimento di soldati, è una prova subìta da milioni di persone strappate alla loro esistenza quotidiana». Questo salto è la conseguenza della traduzione sul terreno di popolo della passione nazionale: ottenere la fedeltà alla nazione da parte di tutti i cittadini aveva rappresentato nel corso dell'Ottocento uno dei maggiori obiettivi degli Stati nazionali. L'aggressiva propaganda nazionalista che accompagnava le politiche imperialistiche delle grandi potenze era penetrata a livello di massa. Questo spiega perché la guerra abbia trovato, almeno inizialmente, vasti consensi in quasi tutti i paesi. Non furono pochi coloro che approvarono l'entrata in guerra della propria nazione anche a costo di rinnegare solidarietà, come quelle di classe o di religione, che avrebbero dovuto affratellare persone di differente nazionalità.

Élie Halévy, che in una lettera del gennaio 1915 aveva definito il conflitto «guerra di razze, molto sordida», in una conferenza del 1929 ricordava come comunque milioni di uomini si fossero dimostrati pronti a dare la vita per la propria patria, e come la guerra avesse unito «tutte le classi all'interno di ogni paese contro le classi, ugualmente unite, all'interno di ciascuno degli altri paesi». E proprio all'agosto del 1914 egli faceva risalire l'alba dell'«era delle tirannie», caratterizzata dalla statalizzazione dei mezzi di produzione (molti anni dopo Hobsbawm sottolineerà come la prima guerra mondiale fosse stata «la più grande impresa economica, coscientemente organizzata o diretta, che l'uomo avesse mai conosciuto») e soprattutto da quella che definiva «statalizzazione del pensiero», con la soppressione di ogni manifestazione di dissenso, perché contraria all'«interesse nazionale» e con quella che definiva «l'organizzazione dell'entusiasmo» (1936).

Il suo carattere di massa trasforma quindi la guerra moderna in guerra totale, sia perché i combattenti sono sempre più numerosi, sia perché «i civili e la vita civile diventano obiettivi diretti e talvolta principali della strategia militare, sia perché nelle guerre democratiche, così come nella politica democratica, gli avversari sono naturalmente demonizzati alla scopo di renderli odiosi o almeno disprezzabili» (Hobsbawm). La guerra acuisce ed esaspera i sensi di appartenenza e di polarizzazione tra «noi» ed i «nemici». La disumanizzazione dell'altro contribuisce al senso di distacco psicologico che rende possibili e facili le uccisioni e le «strategie di atrocità». Guerra e razzismo si rafforzarono vicendevolmente e rappresentarono il contesto generale che consente, unitamente al principio di conformità nei confronti dell'autorità, l'accettazione sempre più acritica da parte delle popolazioni dello sterminio delle popolazioni degli stati nemici. E' non è un caso che nel corso della guerra sia avvenuto il primo genocidio «moderno» (il prototipo dei genocidi del Novecento): la strage di armeni compiuta dai turchi nel 1915-1916. Furono uccisi circa due terzi della minoranza armena vivente nel territorio dell'Impero ottomano: da un milione a un milione e mezzo di persone.

Inoltre lo sviluppo dello Stato burocratico-amministrativo, e della correlata divisione del lavoro, ha favorito anche una conduzione impersonale della guerra, un distacco fra violenti e violentati, fra aguzzini e vittime, che rende possibile per uomini comuni e banali, niente affatto fanatici, in nome di principi di obbedienza all'autorità, conformismo e deresponsabilizzazione, commettere anche azioni moralmente ripugnanti.

La seconda guerra mondiale, più ancora della prima, rappresentò un salto verso la guerra «totale», nella quale scompare la distinzione fra civili e combattenti: era un conflitto che rappresentava non solo la lotta fra grandi potenze, ma anche fra due concezione diverse, ed alternative, della civiltà e dell'ordine internazionale, un conflitto cioè con una forte caratterizzazione ideologica.

Ma nel caso delle strategia tedesca ritroviamo anche il prodotto di un'ideologia, quella nazista, che rappresentava un qualcosa di unicum. Ai caratteri della guerra moderna, come guerra «totale», la mobilitazione bellica del nazismo aggiunse un tipo particolare di espansionismo, con una valenza specificamente razzista, che soprattutto nei confronti delle popolazioni slave si tramutava in azioni di pulizia etnica. «Quella condotta da Hitler non era stata una guerra di espansione in senso tradizionale. Il suo programma di sterminio, radicato in un'ideologia razzista, non prendeva di mira esclusivamente gli antagonisti politici o singole etnie e stati, ma prevedeva di ridurre in schiavitù o annientare intere nazioni, spopolando integralmente delle regioni per fare posto all'espansione della `superiore razza germanica'» (Müller e Ueberschär).

Quanto alle stragi di popolazioni civili in Italia che accompagnarono l'esercito di Hitler dopo l'8 settembre, i generali tedeschi non nascosero nelle deposizioni rese dopo la guerra un profondo disprezzo per i partigiani, dei quali forniscono un'immagine grottesca e deformata che ci restituisce, a guerra ormai finita, il vero e proprio odio nei loro confronti, non privo di un senso di rabbiosa frustrazione, suscitato da una guerra «irregolare» com'è quella per bande, che provocava all'esercito danni molto più ingenti di quanto non si sia in seguito ammesso (e non si continui ancora oggi a sostenere nelle ripetute quanto false affermazioni sull'inutilità militare della Resistenza). Quest'odio, alimentato anche dal complesso del «tradimento» subito, si nutriva di un'esplicita considerazione di superiorità etnica nei confronti degli italiani. L'orgoglio dei portatori di un nuovo «ordine europeo» è ancora avvertibile nelle dichiarazioni dei generali, sia pure ridotti in prigionia, insieme ai sentimenti di vendetta per l'asserito ulteriore tradimento dell'Italia.

Possiamo affermare che in Italia da parte dell'esercito tedesco, oltre che una guerra civile, si sia combattuta anche una «guerra ai civili», almeno da un certo momento in poi, con un sistema di ordini trasmesso dai livelli più alti dei comandi militari e ripetuto ai vari livelli gerarchici: si consentivano operazioni antipartigiane spietate, che tuttavia a volte prescindevano da una reale presenza dei partigiani, o da azioni di rilievo da questi compiute, e si presentavano piuttosto come misure preventive, o punitive, nei confronti di popolazioni che non accettavano di denunciare e isolare quei combattenti irregolari che i tedeschi consideravano nient'altro che «banditi». Il 9 luglio 1945 un ufficiale della British War Crime Section definiva la linea militare tedesca verso le popolazioni civili italiane «una sistematica politica di sterminio, di saccheggi, di pirateria e di terrorismo», ponendo l'accento proprio sull'aspetto della pianificazione delle operazioni contro i civili, che presupponeva una struttura di «organizzazioni funzionali» e «responsabilità per l'emanazione degli ordini».

Tuttavia il tema della violenza contro i civili non è circoscrivibile ai soli tedeschi: oggi gli storici tendono a valutare criticamente, come crimini, comportamenti che appartengono ad entrambi gli schieramenti in guerra. Basti pensare ai molti bombardamenti alleati sulle città europee (60.000 circa furono i caduti italiani, e 700.000 i tedeschi, dei quali circa 100.000 nel bombardamento di Dresda, città piena di profughi dai territori orientali, nella notte fra il 13 ed il 14 febbraio 1945), spesso privi di reali motivazioni belliche, se non nella concezione di una guerra globale in cui tutti i cittadini dello Stato contro il quale si è in guerra vengono ipso facto considerati nemici; o ricordare i bombardamenti atomici del 1945 sulle città giapponesi; o alle violenze verso i civili tedeschi da parte di soldati sovietici («le atrocità compiute dai soldati sovietici in territorio tedesco assunsero proporzioni inaudite. L'armata sovietica sottopose i civili tedeschi a un barbarico regno del terrore», Müller e Ueberschär) o alle deportazioni di intere popolazioni dalle regioni dell'Europa centrale e orientale dopo la fine della guerra, a seguito dei mutamenti di confini (durante le quali morirono circa 2 milioni di tedeschi).

Quanto accade oggi nei territori palestinesi si inserisce quindi in una costante dei conflitti moderni: da un lato l'esercito israeliano, ufficialmente impegnato non in una guerra, ma in un'operazione contro il terrorismo, non distingue fra combattenti e civili. Le sconvolgenti immagini del campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, distrutto dai bombardamenti e dalle ruspe dell'esercito - per il quale l'inviato speciale dell'Onu, Terje Roed-Larsen, ha parlato di qualcosa che «va oltre l'immaginazione» - ci ricordano fotogrammi già visti: di Marzabotto e Sant'Anna di Stazzema, dei villaggi vietnamiti distrutti dall'esercito statunitense, o ceceni distrutti dall'esercito russo. L'equazione fra popolazioni civili e combattenti è una costante quando questi ultimi tendano a muoversi, come pesci nell'acqua, fra territori amici sottoposti ad un'occupazione straniera.

D'altro lato la scelta del terrorismo suicida da parte dei palestinesi toglie ogni residua differenza fra civili e militari: indipendentemente dal fatto che gli autori degli attentati possano essere considerati «martiri» o «terroristi», va sottolineato come si tratti comunque per lo più di giovani non addestrati alle armi, e che i loro bersagli siano espressamente luoghi frequentati da civili: ristoranti, bar, autobus, mercati. Peraltro questa forma di lotta fornisce anche a combattenti enormemente più deboli rispetto ai loro avversari - come sono i palestinesi nei confronti degli israeliani, o gli autori degli attentati dell'11 settembre 2001 nei confronti degli Stati Uniti - una potentissima arma per controbilanciare le sorti di conflitti che altrimenti si risolverebbero inevitabilmente in una loro rapida sconfitta. E rende definitivamente obsoleta la definizione che il «Devoto-Oli» dà di guerra: «lotta armata fra Stati o coalizioni per la risoluzione di una controversia internazionale».

il manifesto 24 aprile 2002
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