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  1. #11
    Hanno assassinato Calipari
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    "Il programma YURI il programma"
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    Originally posted by Fecia di Cossato


    Il carro da spazzino usato per l?attentato di via Rasella del 23 marzo 1944

    RAPPRESAGLIA DELLE ARDEATINE: CONTESTO DEI FATTI E CAPI DI IMPUTAZIONE

    Per poter stabilire, senza che permanga ombra di dubbio in qualche modo giustificato, la legittimità della persecuzioni giudiziaria ordita dall?Italia cosiddetta ?democratica? contro Erik Priebke, come già asserito, non vi è nulla di più sicuro che rifarsi a documentazione che ha accompagnato i due procedimenti penali istituiti a carico di imputati per la strage delle Fosse Ardeatine, avvenuta a Roma il 24 marzo del 1944. Il primo di questi processi venne istituito presso la Corte d?Assise Militare di Roma nel 1948 e vedeva quali imputati in primo luogo il tenente colonnello Herbert Kappler, comandante della guarnigione delle SS che aveva sede in via Tasso, e i suoi sottoposti, anch?essi militari delle SS, maggiore Borante Domizlaff, capitano Hans Clemens, maresciallo capo Johannes Quap, maresciallo ordinario Kurt Schutze, sergente maggiore Karl Wieder. Il capo di imputazione pendente contro di essi è naturalmente contenuto nel dispositivo della sentenza che qui riportiamo [per chiarezza e per potere distinguere la documentazione ?ufficiale? da quella ?giornalistica?, d?ora in aventi il contenuto di documenti giudiziari sarà sempre riportato in rosso ]. Tutti gli imputati erano accusati:

    ?...del reato di concorso in violenza con omicidio continuato commesso da militari nemici in danno di cittadini italiani [artt. 110 e 112 n. 1 cp. 47 n. 2 e 58 cpmp.185, e II comma cpmg. in relazione all'art. 1 lett. a) R.D.L. 30-11-1942 n. 1365- 81 cpv. Cp.] perché, quali appartenenti alle FF.AA. tedesche nemiche dello Stato italiano, approfittavano di circostanze di tempo e di luogo e di persona tali da ostacolare la pubblica e privata difesa, verificatesi in Roma in dipendenza dello stato di guerra fra I'Italia e la Germania in concorso tra loro e in concorso con circa 40-50 altri militari delle SS tedesche appartenenti allo stesso Aussen-Kommando, la maggioranza dei quali aveva un grado militare inferiore al loro, agendo con crudeltà verso le persone, con successive azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, senza necessità e senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra e precisamente in esecuzione di sanzioni collettive stabilite per un attentato commesso il 23 marzo '44 in via Rasella (Roma) da due persone rimaste sconosciute, cagionavano, mediante colpo d'arma da fuoco esplosi con premeditazione, a cinque per volta, alla nuca di ogni vittima, la morte di 335 persone, in grandissima maggioranza cittadini italiani militari e civili, che non prendevano parte alle operazioni militari e precisamente:...?

    Il dispositivo di accusa è di una chiarezza esemplare e non si presta a nessun equivoco. In particolare è opportuno puntualizzare alcuni aspetti, che si riveleranno assai importanti in seguito:

    - i fatti nei quali si configurava il reato contestato agli imputati era avvenuto in presenza di uno stato di guerra esistente tra lo Stato Italiano e lo Stato Tedesco, in territorio italiano in quel momento sotto occupazione militare tedesca. Anche se non esplicitamente asserito, nel dispositivo di accusa sono evidenti due cose: a) per ?Stato Italiano? si intende il cosiddetto ?Regno del Sud?, con sede a Brindisi e sotto l?amministrazione del legittimo governo presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, b) nel dispositivo di giudizio per gli imputati si è fatto riferimento alla legislazione internazionale di guerra esistente al tempo della seconda guerra mondiale

    - la ?esecuzione di sanzioni collettive? [notate che non si parla di ?rappresaglia? per ragioni che saranno spiegate in seguito] che ha portato alla uccisione, mediante fucilazione, di 335 cittadini italiani, è avvenuta non per ?pura crudeltà? e per ?desiderio di persecuzione?, bensì per cause non estranee alla guerra, ovvero per un attentato [non si usa affatto il termine ?legittima azione di guerra? o un altro termine in qualche modo similare] , attentato commesso in via Rasella il 23 marzo 1944

    - il riferimento al fatto che l?attentato di via Rasella sia stato commesso da ?due persone rimaste sconosciute? è ovviamente alquanto singolare, dal momento che non si capisce bene in base a quali elementi, pur non essendo in grado di stabilire l?indentità degli attentatori di via Rasella, si poteva affermare con sicurezza che essi erano due. Sulla cosa si avrà modo di tornare.

    Il contesto nel quale si è verificato l?attentato di via Rasella e le ?sanzioni collettive? del giorno dopo alla Cava Ardeatina sono naturalmente specificate nel dispositivo di accusa:

    ?...pochi giorni dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, stipulato fra l'Italia e le Potenze Alleate, l'esercito tedesco, per un complesso di fattori sui quali non interessa indagare in questa sede, occupava militarmente l'Italia settentrionale e centrale. L'occupazione tedesca nella capitale italiana, malgrado la posizione di città aperta di questa fin dai primi giorni, si manifesta con un rigore più accentuato che in altre città, forse perché si sapeva che in essa si trovava la maggior parte delle persone che avevano tenuto la direzione dello Stato dopo la revoca di Mussolini a Capo del Governo, avvenuta il 25 luglio 1943, e la instaurazione di una nuova forma di regime. Inoltre era noto che subito dopo quel cambiamento di regime si erano raccolti a Roma molti esponenti di partiti antifascisti i quali, in maniera non del tutto palese per le norme emanate da nuovo governo, che vietavano I'organizzazione di partiti politici fino al termine della guerra e rimandavano a quest'ultimo periodo l'instaurazione di una forma di governo a carattere prettamente democratico, avevano iniziato un intenso lavoro di riorganizzazione politica ed una fattiva opera di sganciamento dell'Italia con l'alleanza con i Tedeschi. La caccia agli uomini a Roma era abile, continua e spietata. In questa città la polizia militare tedesca, sotto la direzione di Herbert Kappler, che in quel tempo rivestiva il grado di maggiore dello Stato, lavorava intensamente onde eliminare quanti erano contrari ai Tedeschi o si dubitava che lo fossero. L'attività di polizia allargava la sua sfera fino a procurare uomini che lavorassero per i Tedeschi in Italia o in Germania. E poichè l'arruolamento volontario dei lavoratori era quasi insignificante la polizia effettuava, per le vie di Roma e nei locali pubblici, rastrellamenti di persone idonee al lavoro Una categoria di persone, che fin dai primi giorni era presa particolarmente di mira da parte della polizia tedesca era data dagli Ebrei, contro i quali vigeva in Germania un inumano sistema legislativo. In questo quadro generale vanno posti i fatti oggetto del permanente giudizio che qui di seguito si espongono...?

    Anche a questo proposito non sarà superfluo sottolineare alcuni aspetti:

    - è ribadito che i fatti in questione sono accaduti in tempo di guerra e in territorio italiano soggetto regime di occupazione da parte tedesca

    - viene affermato in modo inequivocabile, ed è importantissimo, che a Roma nel periodo in esame agivano in maniera non del tutto palese [ovvero clandestina] alcuni ?partiti politici antifascisti? i quali svolgevano, oltre che ?intenso lavoro di riorganizzazione politica?, anche ?una fattiva opera di sganciamento dell?Italia dai Tedeschi? . E? appena il caso di sottolineare che dal Tribunale Militare non viene escluso in alcun modo che di questa ?fattiva opera di sganciamento? non facessero parte anche attentati contro militari e mezzi germanici.

    - in modo altrettanto inequivocabile viene affermato, ed è di importanza fondamentale, che tali partiti e movimenti dovevano agire nella clandestinità in seguito alle norme emanate dal governo Badoglio, che avevano vietato l?organizzazione di partiti politici fino a che la guerra non fosse terminata. Ciò significa, in parole un poco più esplicite, che tali organizzazioni erano illegali e pertanto il loro operato in ogni caso non poteva essere in alcun modo coperto o giustificato dall?avere ricevuto un qualsiasi tipo di mandato, nè da parte del governo legittimo, nè tanto meno dagli Italiani.

    Quanto riportato è più che sufficiente per stabilire le premesse indispensabili per i discorsi più impegnativi che saranno affrontati in seguito.

    --------------

    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato
    Il tuo patetico appellarti alla giurisdizione in guerra mi e' indifferente. Totalmente.

    Specialmente l'ultimo paragrafo sulla illegalita' delle formazioni e' ridicolo. Se qualcuno ci invade, io lo ammazzo con le mie mani e sta sicuro che ricevo solo applausi, clandestino o no.

    Nell tuo diritto, e' legittimo dichiarare guerra e bombardare, ma non dare un calcio sul sedere a uno che ti occupa. Patetico, ridiciolo e indifendibile.

  2. #12
    memoria storica di PoL
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    Predefinito guarda amico che...

    ...il tuo patetico appellarti alla giurisdizione in guerra mi e' indifferente. Totalmente.

    Specialmente l'ultimo paragrafo sulla illegalita' delle formazioni e' ridicolo. Se qualcuno ci invade, io lo ammazzo con le mie mani e sta sicuro che ricevo solo applausi, clandestino o no.

    Nell tuo diritto, e' legittimo dichiarare guerra e bombardare, ma non dare un calcio sul sedere a uno che ti occupa. Patetico, ridiciolo e indifendibile...


    caro amico
    se tu avessi appena la capacità di comprendere quello che ho scritto, ti accorgeresti che termini come 'patetico' e 'ridicolo' non li stai usando contro di me, bensì contro i componenti della Corte d'Assise di Roma che ha emesso la sentenza contro Kappler nel '48, di cui ho riportato, fedelmente e senza alcuna aggiunta, le motivazioni.

    Non credi di dover essere cauto prima di fare certe affermazioni?...

    stammi bene!...

    --------------

    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

  3. #13
    The Ghost of Tom Joad
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    Predefinito Re: Clemenza zero per Erik Priebke!...

    Originally posted by Fecia di Cossato
    [B]In perfetta sintonia con lo spirito di 'Bella Ciao!' e spronati dall'appello dell'ex-procutarore Generale Francesco Saverio Borrelli a '...resistere, resistere, resistere!...', i Giudici della Corte di Cassazione non hanno perso l'occasione della ricorrenza del 25 aprile, per ribadire a tutto il mondo che l'avversione al nazismo è insito nel Dna della Giustizia del nostro Paese.

    Erik Priebke, condannato all'ergastolo, dopo un mostruoso processo, per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, non potrà ottenere l'applicazione dell'amnistia emanata nel 1966 per estinguere i reati commessi dai militi della Rsi e da quanti altri si opponevano alla sacrosanta 'lotta di Liberazione dal fascismo'. Dopo la Corte Militare d'Appello di Roma, anche la Corte di cassazione ha infatti respinto la richiesta di Priebke. Secondo la Suprema Corte l'atto di clemenza invocato non si applica ai cittadini stranieri ma solo a quelli italiani,
    Ottimo lavoro. Quello della Magistratura. Tolleranza zero con i criminali.

  4. #14
    Rosso è bello
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    Non avrà l'amnistia? Ma davvero? Bhè vedi che ogni tanto arriva una buona notizia!

  5. #15
    memoria storica di PoL
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    Alcuni superstiti della compagnia del battaglione Bozen durante il rastrellamento in via Rasella alla ricerca degli attentatori. Si è scritto da più parti che la formazione tedesca era composta da ‘SS armate fino ai denti’. Si osservi con attenzione a questo proposito l’arma impugnata dal milite in primo piano: fucile Carcano-Manlicher mod.91, proveniente con ogni probabilità dalle requisizioni fatte dai Tedeschi nei magazzini abbandonati dall’esercito italiano dopo l’8 settembre, arma obsoleta non più in dotazione nel ‘44 a nessun reparto di prima linea,

    L’ATTENTATO DI VIA RASELLA

    Sull’attentato [o ‘azione militare’ che dir si voglia] di via Rasella del 23 marzo 1944 nel dopoguerra sono stati scritti autentici fiumi di inchiostro. Tutti gli estensori di tali scritti sono stati, e questo è pienamente comprensibile, in un qualche modo ‘di parte’ , gli uni preoccupati più di ogni altra cosa ad esaltare la figura eroica dei partigiani comunisti autori dell’attentato e legittimarne l’azione, gli altri a presentare l’attentato come opera di criminali e la rappresaglia tedesca che ne è seguita come legittima ed inevitabile forma di ritorsione, legittimata oltretutto dalla legislazione internazionale di guerra di allora. Come risultato di tutto ciò, non vi sono due descrizioni dei fatti, ovviamente scritte da due diversi autori, che concordino almeno nei particolari di maggior rilievo, e questo ancora oggi a quasi sessant’anni dai fatti. In questo contesto è chiaro che non ha molto senso da parte mia presentare, con tanta scelta a disposizione, l’una oppure l’altra versione, spacciandola magari come ’unica verità’. Per questa ragione, oltre che per coerenza con quanto mi sono proposto in precedenza, seguiremo rigorosamente la descrizione del fatto scaturita dal processo del ‘48, celebratosi presso la Corte d’Assise Militare di Roma. Da prima la Corte fornisce una descrizione, alquanto sommaria per la verità, dell’organizzazione del cosiddetto Comitato di Liberazione Nazionale e degli obiettivi che esso si proponeva:

    ’...subito dopo l'8 settembre 1943, nell'Italia occupata, sorgevano, in seno a gruppi e partiti politici o per iniziativa di civili e di militari, delle organizzazioni clandestine a carattere militare, che in proseguo di tempo dovevano svolgere un'azione di particolare importanza, specialmente nella liberazione dell'Italia settentrionale. Le più importanti di esse avevano un comune e superiore organo di coordinamento, la Giunta Militare, che era formata dai capi di sei di quelle organizzazioni [quelle che erano emanazioni dei sei partiti che avevano una più estesa organizzazione ed un più accentuato grado di penetrazione nella popolazione] e costituiva un organo del Comitato di Liberazione Nazionale; altre davano vita a diversi organi di coordinamento, sempre allo scopo di attuare in maniera unitaria e secondo alcune direttive generali una fattiva azione contro i nazi-fascisti...’

    Riguardo alle reali funzioni del CLN e dei cosiddetti ‘organi di coordinamento’ , almeno per quanto riguarda la città di Roma, è necessario spendere a questo punto due parole, giusto per rendere il quadro più chiaro. Da un punto di vista ‘formale’ il CLN, emanazione come si è visto di quei ‘partiti antifascisti’ che, seppure ‘illegali’, di fatto imponevano la loro linea politica al ‘governo legittimo del Sud’, avrebbe dovuto emanare unicamente direttive di carattere politico, demandando al comando militare clandestino il tradurre queste in azioni di guerriglia e sabotaggio contro Tedeschi e Fascisti.
    Per ordine del ‘governo legittimo del Sud’ il comando di queste organizzazioni era stato affidato, con giurisdizione su tutto il Lazio, al generale Quirino Armellini. E’ risaputo da tutti ormai che questo tipo di organizzazione in pratica non ha mai funzionato, per la ragione principale che nessuno dei ‘partiti antifascisti’ volle mai accettare di mettersi agli ordini di un ‘generale del Re’ e pertanto finirono sistematicamente per ignorare tutti gli ordini emanati da Armellini.
    Una riprova di questo si ebbe subito dopo che Roma venne proclamata ‘città aperta’. In seguito a questa soluzione, accettata e rispettata come vedremo dai Tedeschi, il generale Armellini aveva diramato l’ordine di evitare nel modo più assoluto di compiere attentati all’interno della città di Roma. Dal quel momento è evidente che l’attività terroristica all’interno di Roma sarebbe divenuta a tutti gli effetti illegale, ossia un atto di guerra non ordinato ed autorizzato da alcuna legittima autorità. Rendendosi conto sin troppo bene di ciò, i ‘partiti antifascisti’ del CLN, e in modo particolare il Pci che ne era il componente più ‘autorevole’, escogitarono un abile imbroglio per conservare ‘libertà di azione’ pur rimanendo, o almeno così credevano, nella ‘legalità’. valendosi dell’appoggio degli altri partiti del CLN, essi costituirono una ‘giunta militare’ la quale fu incaricata di ‘coordinare’ l’attività militare clandestina in Roma. In realtà questa ‘giunta militare’, formata dal socialista Sandro Pertini [il futuro ‘presidente più amato dagli Italiani’] e dagli ‘azionisti’ Emilio Lussu e Riccardo Bauer, altro compito non ebbe se non quello di avvallare, in nome del CLN, l’operato dei GAP, i terroristi del Pci. Dopo questa necessaria parentesi di spiegazione, tesa unicamente a rendere comprensibile il contenuto della sentenza della Corte d’Assise Militare di Roma, torniamo senz’altro la parola a quest’ultima.

    ’...l'azione di queste organizzazioni, che si manifestava con atti di sabotaggio ed attacchi di colonne militari tedesche, era continua fuori dei centri abitati onde rendere difficile ai Tedeschi L’opera di assestamento. Anche nella città di Roma si effettuavano, talvolta, azioni di sabotaggio ed attentati contro autocolonne o comandi militari, allo scopo, chiaramente manifesto a mezzo di volantini, di richiamare il nemico all'osservanza della posizione di città aperta della capitale d'Italia. Difatti, malgrado questa posizione internazionalmente riconosciuta, i principali comandi militari tedeschi si trovavano nell'interno della città aperta ed in questa erano frequenti i passaggi di truppe e di materiale bellico. Solo dopo vari atti di sabotaggio ed attentati [uno di questi contro l'albergo Flora dove si trovavano dei comandi militari] gli ufficiali militari venivano trasferiti fuori della città aperta. Continuava peró il passaggio di truppe e di materiale destinato alle truppe operanti...’

    Senza voler assolutamente sindacare sulla veridicità del fatto che i Tedeschi facessero a meno transitare nella città di Roma, come era ‘chiaramente detto sui volantini [comunisti]’, cosa di cui si potrebbe dubitare in assenza di altri riscontri, ‘truppe e materiale destinato alle truppe operanti’, è essenziale sottolineare che anche volendo considerare questo un valido motivo per trasgredire gli ordini perentori visti in precedenza che proibivano sabotaggi ed attentati all’interno della città di Roma [cosa per altro estremamente discutibile], tali azioni avrebbero dovuto in ogni caso essere dirette contro truppe combattenti oppure contro materiali ad esse destinato, e non, come di fatto avvenne, contro un reparto di polizia territoriale con età media superiore ai trentacinque anni. Precisato ciò andiamo senz’altro avanti:

    ‘...il 23 marzo 1944 alle ore 15 circa, nell'interno della città aperta, in via Rasella all'altezza del palazzo Tittoni, mentre passava una compagnia di polizia tedesca del Battaglione ‘Bozen’, che da quindici giorni era solita percorrere quella strada, scoppiava una bomba che uccideva ventisei militari di quelle compagnia ed altri feriva più o meno gravemente. Subito dopo lo scoppio della bomba alcuni giovani, che sostavano all'angolo di via Boccaccio, lanciavano delle bombe a mano contro il resto della compagnia e, quindi, si ritiravano verso via dei Giardini, allontanandosi immediatamente dalla zona. Elementi della compagnia tedesca sparavano in direzione delle finestre sovrastanti e dai tetti, un po' all'impazzata, poiché in un primo momento credevano che l'attentato fosse stato effettuato con lancio di bombe a mano da una delle case. Immediatamente giungevano sul posto il generale Maeltzer, comandante della città di Roma, il colonnello Dolmann ed alcuni funzionari di polizia italiani. Successivamente arrivava il console tedesco a Roma, signor Moellhausen, con alcuni gerarchi del partito fascista repubblicano i quali avevano sentito la detonazione dal vicino Ministero delle Corporazioni, dove avevano partecipato ad una cerimonia celebrativa della fondazione dei fasci di combattimento. II generale Maeltzer alla vista dei militari tedeschi morti e feriti era preso da una forte eccitazione. ‘...sul posto il comandante della Piazza - dichiarava il teste Moellhausen (vol. VII f. 4) - andava e veniva, gridava, gesticolava ed anche piangeva, non si poteva trattenere. Secondo lui si sarebbero dovuti fucilare sul posto individui arrestati nelle vicinanze e far saltare, con i suoi abitanti, il blocco di immobili davanti al quale aveva avuto luogo l'attentato. Intanto ufficiali e sottufficiali del comando di polizia tedesca di Roma, subito accorsi sul luogo, eseguivano un'accurata perquisizione nelle case di via Rasella e facevano scendere sulla strada tutti gli abitanti, che erano condotti in via Quattro Fontane ed erano allineati lungo la cancellata del Palazzo Barberini. Alle ore 15.30 circa il tenente colonnello Kappler giungeva al comando di polizia tedesca in via Tasso. Informato di quanto era accaduto si avviava subito verso via Rasella. Lungo la strada, in via Quattro Fontane, egli era fermato dal console Moellhausen, che ritornava da via Rasella dove aveva avuto un forte diverbio con il generale Maeltzer nel tentativo di fare procrastinare le intenzioni di vendetta che questi manifestava sotto l'impulso di una forte eccitazione, ed pregato da quel diplomatico di agire sull'animo del comandante della città quanto mai furibondo e capace di commettere una pazzia. Kappler, giunto in via Rasella s'incontrava con il generale Maeltzer ancora molto eccitato, al quale, dopo un fugace scambio di impressioni, rivolgeva preghiera di essere incaricato di quanto riguardava l'attentato. Avuta risposta affermativa, egli prendeva subito contatto con i suoi dipendenti diretti, fra i quali il capitano Schutz ed il capitano Domizilaff che già si trovava su posto. Nelle prime indagini venivano raccolte quattro bombe a mano del peso di circa quattro chilogrammi, colorate di rosso e grigio e munite di miccia. Dette bombe, che risultavano essere di fabbricazione italiana, venivano avvolte da Kappler in un fazzoletto e fatte portare su una macchina della polizia tedesca che, a dire del Kappler, poco dopo sarebbe stata sottratta da ignoti. Intanto Kappler, seguendo le istruzioni del generale Maeltzer, disponeva che i civili fermati nelle case di via Rasella fossero condotti in una vicina caserma della polizia italiana e di essi fosse fatto un elenco onde accertare quanti risultavano già segnalati negli uffici di polizia. Alle ore 17 circa, accompagnato dal capitano Schutz che aveva già interrogato i superstiti della compagnia, egli si recava al comando della città di Roma. Ivi, alla presenza del generale Maeltzer e di altri ufficiali di detto comando esprimeva l'opinione che l'attentato fosse stato effettuato da italiani appartenenti ai partiti antifascisti. Circa le modalità di esecuzione dell'attentato egli affermava che ‘esso era stato compiuto mediante lancio di un ordigno principale da una certa altezza e di bombe probabilmente lanciate da diverse persone dai tetti di diverse case’ (f. 5 vol. VII).
    Altro argomento di conversazione era dato dalle misure di rappresaglia da adottare in relazione all'attentato. Mentre si svolgeva la discussione il generale Maeltzer parlava spesso al telefono. In una di queste telefonate egli usava con frequenza le parole ‘misure di rappresaglia’. Ad un certo momento il generale tedesco faceva cenno a Kappler di avvicinarsi e quindi passatogli il ricevitore ed informatolo che all'apparecchio c'era il generale Mackensen, lo invitava a parlare con quel generale. Il generale Mackensen, dopo aver chiesto alcuni particolari in merito all'attentato, entrava subito in argomento circa le misure di rappresaglia intorno alle quali, a giudicare dal suo modo di parlare, egli aveva già discusso con il generale Maeltzer (dich. Kappler, f. 6 retro vol VIl) Alla domanda di quel generale, intesa a conoscere su quali persone potevano essere eseguite le misure di rappresaglia Kappler rispondeva che, secondo accordi con il generale Harste, la scelta avrebbe dovuto cadere su persone condannate a morte o all'ergastolo e su persone arrestate per reati per i quali era prevista la pena di morte e la cui responsabilità fosse stata accertata in base alle indagini di polizia. II generale Mackensen quindi, rispondeva di essere disposto a dare l'ordine, ove fosse stata data a lui la facoltà, di fucilare dieci persone, scelte fra le categorie indicate, per ogni militare tedesco morto. Aggiungeva che si sarebbe accontentato che venisse fucilato solo il numero di persone disponibili fra le categorie suddette. Una conseguenza logica di questo accordo, secondo l'imputato (f. 7 - vol. VII) era che non si sarebbe fatta parola né con il generale Maeltzer né con le autorità superiori e che si sarebbe cercato di far conoscere l'accaduto ai rispettivi superiori al più tardi possibile. Dopo questa conversazione Kappler si congedava dal generale Maeltzer senza comunicargli i precisi termini della conversazione ma con l'intesa di preparare un elenco di persone sulle quali doveva effettuare la rappresaglia, e si portava alla Questura di Roma onde controllare gli schedari in merito alle persone fermate in via Rasella. Comunicato lo scopo della visita al questore Caruso, lasciava alcuni suoi dipendenti negli uffici della Questura per il controllo degli schedari e di allontanava. Giunto in ufficio Kappler dava disposizioni perché fossero accelerate le indagini circa l'attentato con l'aiuto di tutti i collaboratori italiani. Poco dopo veniva chiamato al telefono dal maggiore Boehm, addetto al comando della città di Roma. Questo ufficiale lo informava che poco prima suo comando era giunto un ordine in base al quale entro le ventiquattro ore doveva essere fucilato un numero di italiani decuplo di quello dei soldati tedeschi morti. A richiesta di Kappler, il maggiore Boehm precisava che l'ordine proveniva dal comando del maresciallo Kesselring. Poiché il contenuto di quest'ordine si mostrava in contrasto con quanto convenuto nel suo colloquio con il generale Mackensen, il tenente colonnello Kappler chiedeva la comunicazione con il comando del maresciallo Kesselring. Dopo circa dieci minuti egli parlava con l'ufficio ‘I und T’, che si occupava delle questioni territoriali. L'ufficiale addetto a questo ufficio, alla domanda intesa a conoscere se l'ordine ricevuto in precedenza proveniva dal comando superiore sud-ovest, rispondeva: ‘...no, viene da molto più in alto...’. Alle ore 21 Kappler aveva una conversazione telefonica con il generale Harster, capo del BSS con sede in Verona, al quale riferiva in merito all'attentato ed al suo sviluppo. Gli comunicava pure che, in base ai dati poco prima fornitigli dalle sezioni dipendenti, egli disponeva di circa duecentonovanta persone, delle quali peró un numero notevole non rientrava nella categoria dei ‘todeswurdige’
    [candidati alla morte - n.d.r.] . Circa cinquantasette, infatti, erano Ebrei detenuti solo in base all'ordine generale di rastrellamento ed in attesa di essere avviati ad un campo di concentramento. Aggiungeva che delle persone arrestate in via Rasella, secondo informazioni dategli poco prima dai suoi dipendenti, solo pochissime risultavano pregiudicate ovvero erano state trovate in possesso di cose [una bandiera rossa, manifestini di propaganda, ecc...] che davano possibilità di una denunzia all'autorità giudiziaria militare tedesca. A conclusione della conversazione rimaneva d'accordo col suo superiore d'includere degli Ebrei fino a raggiungere il numero necessario per la rappresaglia. Dopo tali telefonate egli dava disposizioni perché il mattino successivo, i fermati di via Rasella fossero liberati ad eccezione di quei pochi che, per motivi vari, risultavano pregiudicati. Nella stessa serata egli chiedeva al presidente del Feldgericht Rome [Tribunale Militare di Roma - n.d.r.] di autorizzarlo ad includere nell'elenco le persone condannate dal Tribunale Militare alla pena di morte, le persone condannate a pene detentive anziché alla pena di morte per concessione di circostanze attenuanti inerenti alla persona ed, infine, le persone denunziate ma non ancora processate. Quel presidente autorizzava l'inclusione delle persone della prima e della terza categoria, ma, in ordine alle persone della seconda categoria, non intendendo assumersi la responsabilità, rappresentava l'opportunità di chiedere l'autorizzazione del Chefrichter dell'O.B.S.W. [Comando Superiore del Settore Ovest - n.d.r.] . Questa autorizzazione richiesta giungeva poche ore dopo. Nella notte l'imputato, con l'aiuto dei suoi collaboratori esaminava i fascicoli delle persone considerate ‘todeswurdige’ sulla base dei precedenti accordi. Intanto si aveva notizia che altri soldati tedeschi, fra quelli gravemente feriti, erano deceduti. Alle otto del mattino successivo il numero complessivo dei morti ammontava a 32...’

    Questa ricostruzione dell’attentato di via Rasella e delle misure di rappresaglia, con relativo scambio di ordini, intraprese di conseguenza dalle autorità germaniche, a parte alcuni dettagli non essenziali, nel complesso è ancora oggi, a 54 anni di distanza, da considerare veritiera ed attendibile, anche se incompleta [non vengono infatti citate le vittime civili di via Rasella, sul cui numero vi sono contrastanti opinioni; due, una dei quali un bambino di dieci anni tagliato in due dall’esplosione dell’ordigno, sono sicure, altre cinque o sei probabili]. Quello che più importa in ogni caso è il fatto che contiene tutti gli elementi idonei a fornire risposta ad uno dei nodi essenziali del procedimento giudiziario nei confronti del tenente colonnello Herbert Kappler: fu legittimo oppure no l’ordine di rappresaglia che venne a lui impartito?...
    A questa domanda, come vedremo, la Corte d’Assise di Roma fornirà una risposta inequivocabile, ma per il momento è importante focalizzare bene due punti, due soli ma essenziali:

    - il reparto tedesco vittima dell’attentato do via Rasella era composto da Altoatesini, in gran parte dichiarati inidonei, per età o altro, al servizio di prima linea e arruolati dopo l’8 settembre come elementi dei corpi di polizia territoriale. Pur portando mostrine similari, essi non facevano parte assolutamente delle SS ed il loro armamento, decisamente antiquato [vedi foto sopra], era appena sufficiente per i servizi loro assegnati: guardia a pubblici edifici.

    - l’ordine di rappresaglia, consistente nella fucilazione di dieci italiani per ogni tedesco deceduto in via Rasella, venne impartito a Kappler seguendo, sia pure non in modo esattamente lineare, la regolare prassi gerarchica consistente in: Comando Superiore del Settore Ovest [tramite il colonnello Beelitz] -> Comandante in Capo delle Forze Tedesche in Italia [maresciallo Kesselring] -> Comandante in Capo delle SS in Italia [generale Machensen] -> Comandante della piazzaforte di Roma [generale Maeltzer].
    Di conseguenza si trattava a tutti gli effetti di un ordine che, per il fatto di essere stato emanato dalla massima autorità militare germanica e confermato da tutta la catena gerarchica a lui superiore, non poteva che essere ritenuto dal tenente colonnello Herbert Kappler come un ordine tassativamente esecutivo. Per cinquant’anni l’opera di disinformazione di coloro che hanno voluto coprire le responsabilità degli attentatori di via Rasella ha voluto far credere che l’ordine di rappresaglia è stato impartito a Kappler direttamente da Hitler. Ciò è falso, come è falsa l’affermazione, e la descrizione degli sforzi fatti dello stesso Kappler e da altri per dissuadere il generale Maeltzer dal prendere iniziative irresponsabili è di ciò una eloquente conferma, che la decisione della rappresaglia sia stata presa dalle SS di stanza a Roma.

    Appurata la sostanziale consistenza e autorità insita nell’ordine di attuazione della rappresaglia in risposta all’attentato di via Rasella, sulle modalità con le quali quest’ordine venne eseguito si tornerà fra poco.

    --------------

    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

  6. #16
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    Predefinito

    - Quanti anni ?
    - 88
    - Possono aspettare ancora un po



    Ci ricordiamo solo e sempre dei morti del fascismo e del nazismo ma dei milioni di morti comunisti mai una frase mai un imputato





    ONORE A NOI!

  7. #17
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    Predefinito Re: caro il mio Mariuccio!...

    Originally posted by Fecia di Cossato
    Temo proprio però, e ti assicuro che di ciò mi dispiace vivamente, che la serie di notizie per te funeste stia per riprendere da qui a breve...
    Per ora c'è quella buona.

  8. #18
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    Predefinito



    Questa raccapricciante immagine, scattata alle Ardeatine quando furono riesumate le vittime della rappresaglia tedesca, immagine che mostra una catasta di corpi sepolta sotto le pareti franate della galleria, fornisce un’idea precisa dell’atrocità di quanto lì avvenne il 24 marzo 1944

    LA RAPPRESAGLIA TEDESCA DEL 24 MARZO 1944

    Veniamo ora, sempre prendendo dal dispositivo della sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Roma nel 1948 contro Herbert Kappler, agli ordini che furono a questo impartiti e alle modalità con le quali furono eseguiti. Un punto essenziale che ancora oggi non è stato definitivamente chiarito e che come vedremo rivestirà una importanza cruciale, è l’esatto tenore degli ordini che il tenente colonnello Kappler ha ricevuto. Si è visto che l’ordine emesso dal Comando Supremo del Settore Ovest e giunto per via gerarchica fino a Kappler stabiliva inequivocabilmente di dovessero fucilare dieci italiani per ogni militare tedesco deceduto in via Rasella. Dal momento che la sera del 23 marzo, quando l’ordine arrivò al comandante della guarnigione di via Tasso, le vittime dell’attentato di via Rasella erano arrivate a 32, ciò significava l’ordine di apprestarsi a fucilare 320 italiani. Il giorno dopo tuttavia , quando cioè l’ordine doveva divenire operativo, il numero delle vittime di via Rasella era già salito a 33, per salire poi salire qualche giorno dopo a 42. Tutto questo come vedremo costituirà un dettaglio non da poco. Dopo questa premessa lasciamo la parola ai giudici della Corte d’Assise di Roma:

    ’...il mattino successivo, alle nove, Kappler aveva un colloquio con il Commissario di P.S. Alianello, che pregava di chiedere, con la massima urgenza, al vice capo della polizia Cerruti se la polizia italiana era in grado di fornire cinquanta persone. Il Cerruti poco dopo gli comunicava che avrebbe mandato da lui il Questore Caruso perché prendesse accordi in merito alla consegna di cinquanta uomini. Alle 9,45 il Caruso, accompagnato dal tenente Koch, che in quel tempo svolgeva funzioni di polizia non ben definite, si presentava dal Kappler. Questi spiegava ai due come, per completare una lista di persone da fucilare in conseguenza dell'attentato di via Rasella, aveva bisogno di cinquanta persone arrestate a disposizione della polizia italiana e spiegava i criteri in base ai quali egli aveva già compilato una lista di 270 persone. A conclusione di questo colloquio si stabiliva che il Questore Caruso avrebbe fatto pervenire al Kappler per le ore 13 un elenco di cinquanta persone. Nell'elenco compilato da Kappler con l'aiuto dei suoi collaboratori numerosi erano i detenuti per reati comuni e gli Ebrei arrestati per motivi razziali; fra gli altri poi una persona assolta dal Tribunale Militare tedesco e due ragazzi di 15 anni, dei quali uno arrestato perché Ebreo. Alle 12 circa l’imputato si recava nell'ufficio del generale Maeltzer il quale qualche ora prima gli aveva fatto sapere che l'attendeva per tale ora. Mentre quel generale lo informava che l'ordine della rappresaglia proveniva da Hitler giungeva il maggiore Dobrik del battaglione ‘Bozen’, che era stato convocato qualche ora prima. Il tenente colonnello Kappler informava il generale di aver compilato una lista di persone che gli consegnava. A questa lista, diceva, dovevano aggiungersi i nominativi di cinquanta persone che, per le ore 13, gli sarebbero stati dati dal Questore Caruso, scelti fra i detenuti che questi aveva a sua disposizione. Complessivamente, quindi, si raggiungeva il numero di 320 persone, pari al decuplo dei militari tedeschi che fino a quel momento erano deceduti. Il generale Maeltzer, informato dall'imputato dei criteri adottati nella compilazione della lista, si rivolgeva al Dobrik dicendogli che spettava a lui eseguire la rappresaglia con gli uomini che aveva a sua disposizione Quest'ufficiale esponeva una serie di difficoltà [il fatto che i suoi uomini erano anziani, poco addestrati all'uso delle armi, superstizioni, ecc.] con l'evidente scopo di sottrarsi al compito affidatogli. Due giorni dopo, difatti, il tenente colonnello Kappler riferiva questo episodio al generale Wolf per fare un addebito al maggiore Dobrik. ‘...dissi - egli afferma parlando di questo colloquio (vol, V 37 retro) - che Dobrik, al quale sarebbe toccato di eseguire la fucilazione, si era tirato indietro, e con ciò io presentavo ufficialmente le mie lagnanze contro Dobrik a Wolf...’.

    Una delle motivazioni accusatorie più assurde che il pubblico ministero Intelisano escogiterà contro Erik Priebke è che egli, un semplice ufficiale subalterno, avrebbe potuto rifiutare di eseguire gli ordini del superiore [ossia Kappler] adottando come giustificazione, tra le altre, a questo inammissibile arbitrio il fatto che il maggiore Dobrik si era per l’appunto rifiutato di eseguire la rappresaglia. Per ‘confutare’ il Pm Intelisano è sufficiente riportare quanto è scritto sopra, ovvero che il maggiore Dobrik aveva fatto semplicemente presente che il proprio reparto, formato da riservisti anziani, del tutto inesperti oltre che inadatti all’uso stesso delle armi, non avrebbe potuto eseguire quel compito, per il quale indubbiamente erano necessari nervi e stomaco ben saldi e che tali motivazioni erano state accettate dal generale Maeltzer, che per questo aveva esonerato quell’ufficiale dall’incarico.
    Altro punto che si rivelerà in seguito di deleterie conseguenze fu la decisione di coinvolgere nella compilazione della lista delle persone da fucilare le autorità italiane, decisione la quale con ogni probabilità deve essere stata la causa primaria, come vedremo, della totale confusione che ha causato alla fine la fucilazione di un numero di persone maggiore di quello stabilito. Comunque andiamo avanti:

    ’...stante le difficoltà poste da Dobrik, il generale Maeltzer telefonava al Comando della 14.ma armata e parlava con l'allora colonnello Hanser, al quale, dopo aver prospettato quanto detto da quell'ufficiale, chiedeva venisse comandato un reparto di quell'armata per l'esecuzione. Hanser rispondeva testualmente: ‘La polizia è stata colpita, la polizia deve far espiare’. Il generale Maeltzer ripeteva ai due ufficiali presenti quella frase quindi dava ordine al Kappler di provvedere lui all'esecuzione. Congedatosi dal generale Maeltzer, Kappler si portava nel suo ufficio in Via Tasso. Qui chiamava a rapporto gli ufficiali dipendenti e li informava che fra qualche ora avrebbero dovuto eseguirsi la fucilazione di 320 persone in conseguenza dell'attentato di Via Rasella. Al termine della riunione Kappler impartiva l'ordine che tra tutti gli uomini del suo comando di nazionalità tedesca, dovessero partecipare all'esecuzione. Contemporaneamente ordinava al capitano Schultz di dirigere l'esecuzione e gli dava disposizioni particolari in merito alla modalità dell'esecuzione medesima. ‘Dissi poi a Schultz - egli afferma (vol VII f.29 ) - che per la ristrettezza del tempo, si sarebbe dovuto sparare un sol colpo al cervelletto di ogni vittima e a distanza ravvicinata per rendere sicuro questo colpo, ma senza toccare la nuca con la bocca dell'arma...’. Quindi s'iniziava l'esecuzione: cinque militari tedeschi prendevano in consegna cinque vittime, le facevano entrare nella cava, che era debolmente illuminata da torce tenute da altri militari posti ad una certa distanza l'uno dall'altro, e le accompagnavano fino in fondo, facendole svoltare in un'altra cava che si apriva orizzontalmente; qui costringevano le vittime ad inginocchiarsi e, quindi, ciascuno di essi sparava contro la vittima che aveva in consegna. Kappler partecipava una prima volta, alla seconda esecuzione, che egli racconta brevemente: ‘...vicino all'autocarro - egli dice (vol. VII, f. 31 retro ) - presi in consegna una vittima, il cui nome veniva da Priebke cancellato su di un elenco da lui tenuto [il corsivo è mio - n.d.r.] . Altrettanto fecero gli altri quattro ufficiali. Conducemmo le vittime sullo stesso posto e, con le stesse modalità vennero fucilate un pò più indietro delle prime cinque...’.

    Ecco dunque che nella documentazione del processo del 1948 compare il nome del capitano Erik Priebke, indicato da Kappler come l’ufficiale incaricato di controllare la lista delle persone fa fucilare e di cancellarne via-via i nomi. In base alla testimonianza di Kappler per quarantasei anni si è ritenuto che il capitano Priebke abbia dall’inizio alla fine controllato la lista delle persone da fucilare e pertanto che la responsabilità della fucilazione di un numero di ostaggi superiore a quello stabilito fosse da addebitare principalmente a lui. Come si vedrà più avanti però, ciò si è rivelato falso.

    ‘...narrazione analoga dell'esecuzione è fatta dall'imputato Clemens: ‘...quando sparai io - egli afferma (vol. VII, f. 108) - le cinque vittime furono portate nella cava da soldati noi ci disponemmo dietro e, all'ordine, sparammo un colpo solo. Le vittime erano in ginocchio e, dopo che caddero, alcuni soldati trasportarono i cadaveri verso il fondo delle caverne dove si trovavano già i cadaveri delle prime. lo poi uscii dalla cava e non rientrai più, ma ritengo che le altre esecuzioni siano avvenute allo stesso modo...’. Gli altri imputati confermavano sostanzialmente le modalità descritte. II tetro spettacolo dei cadaveri che, dopo le prime esecuzioni, si presentava alla vista delle vittime, quando queste entravano nella cava e s'inginocchiavano per essere fucilate, è espresso sinteticamente dal teste Amon, il quale fu presente all'esecuzione, ma non sparò perché non ebbe la forza: ‘...avrei dovuto i sparare - egli dice - (ud. del 12-6-1948 ) ma quando venne alzata la fiaccola e vidi i morti svenni... rimasi inorridito a quello spettacolo. Un mio compagno mi diede un colpo e sparò per me...’. Le vittime dei primi autocarri provenivano dal carcere di Via Tasso, le altre dal carcere di Regina Coeli. Ivi si trovava il tenente Tunàth accompagnato dall'interprete sottotenente Koffler, del comando di polizia tedesca di Roma, il quale provvedeva a fare avviare alle cave Ardeatine i detenuti del terzo braccio a disposizione dell'autorità militare tedesca. Ultimato il prelevamento di questi detenuti, il Tunath si rivolgeva al direttore del carcere [Donato Caretta, il quale, essendo a conoscenza di molti ‘retroscena’ dei fatti di via Rasella e delle Ardeatine che coinvolgevano pesantemente i comunisti, venne da questi eliminato sei mesi dopo. Recatosi a testimoniare nel processo contro il Questore Caruso, Caretta venne riconosciuto da una donna, identificata in un secondo tempo come un’attivista comunista, che l’accusò di avere fatto fucilare il figlio alle Ardeatine, accusa del tutto falsa poichè il figlio di costei si appurerà poi era morto durante una rissa scoppiata per questioni di donne. In esecuzione di un piano evidentemente preparato Caretta, indicato dalla donna, venne trascinato fuori dal tribunale da ‘sconosciuti’ e linciato a morte - n.d.r.] per avere i cinquanta che erano a disposizione della polizia italiana e che, secondo precedenti accordi, dovevano essere consegnati dal Questore Caruso. Poiché ancora non era giunta la lista se ne faceva richiesta telefonica Caruso, da cui si aveva promessa di un sollecito invio a mezzo di un funzionario. Il tempo trascorreva senza che giungesse tale lista. Tunath telefonava ancora alla Questura e parlava con il Commissario Alianello, al quale violentemente diceva ‘...che se non si mandava subito l'elenco avrebbe preso il personale carcerario...’ (dich. Alianello, ud. del 26-6-1948)· Dopo un po' di tempo il Tunath, stanco di aspettare, incominciava a prelevare dei detenuti maniera indiscriminata. Poco dopo, sull'imbrunire arrivava il Commissario Alianello con una lista di cinquanta nomi datagli dal Questore Caruso, che consegnava al direttore del carcere. Questi cancellava undici nomi, precisamente quelli indicati con i numeri progressivi da 40 a 49 e con i numeri 21 e 27 e li sostituiva con altri undici nomi relativi a persone che erano state portate dal tenente Tunath e che non erano comprese nella lista. La cancellatura degli ultimi nominativi della lista era determinata dal fatto che la compilazione di questa stata fatta iniziando dalle persone ritenute più compromesse per continuare con quelle che si trovavano in posizione migliore, il depennamento dei nomi indicati con i numeri 21 e 27 veniva effettuato invece perché l'una persona era ammalata grave all'ospedale e l'altra non si riusciva a trovarla [questa fantomatica persona che ‘non si riusciva a trovare’, si è saputo dopo trattarsi di Lionello Trombadori, membro della direzione del Pci, che il direttore Caretta ‘salvò’ nascondendolo e facendo crepare al posto suo un altro poveraccio. Per questo ed altri ‘favori’ elargiti ai comunisti, Caretta è stato ‘ricompensato’ nella maniera che abbiamo testè visto - n.d.r.] . Tutti gli imputati prendevano parte all'esecuzione sparando una o più volte. Kappler, dopo circa mezz'ora dall'inizio dell'esecuzione e dopo aver partecipato ad una fucilazione, si allontanava recandosi all’ufficio in Via Tasso. Espletate alcune pratiche ritornava alle cave Ardeatine e partecipava ad altra fucilazione. Gli altri imputati rimanevano sul posto sino alla fine dell'esecuzione. Questa aveva termine alle ore 19 circa. Subito dopo si facevano brillare delle mine, chiudendosi in questo modo quella parte della cava nella quale i cadaveri ammucchiati fino all'altezza di un metro circa, occupavano un breve spazio.

    Veniamo ora ad uno dei cardini, il più importante come vedremo, del processo contro Kappler e, di riflesso, contro Priebke: il numero delle vittime. Abbiamo visto che l’ordine impartito a Kappler contemplava la fucilazione di 320 ostaggi, dieci per ogni milite germanico morto in via Rasella. In realtà, come tutti sanno, alle Ardeatine furono fucilate 335 persone, ossia 15 in più. Vediamo cosa dice su questo punto la sentenza contro Kappler del 1948:

    ’...la popolazione, attraverso il citato comunicato del 25 marzo e la propaganda della stampa, sapeva che il numero delle vittime era di 320 e di esse qualche mese dopo l'esecuzione, conosceva i nomi a mezzo di elenchi compilati da funzionari italiani molto vicini al comando di polizia tedesco. Solo a seguito del dissotterramento delle vittime effettuato vari mesi dopo la liberazione di Roma, si scopriva che il numero di esse era 335. Si è esposto come si giunse a questo numero occorre ora determinare l'esatta causa che condusse alla fucilazione di 15 persone, di cui si è sempre taciuto da parte delle autorità tedesche. Kappler dichiara, come si è visto di avere ordinato la fucilazione di dieci persone in aggiunta alle 320 perchè aveva saputo, dopo aver dato le disposizioni per l'esecuzione, che era morto un altro soldato tedesco fra quelli rimasti feriti in Via Rasella. Accertata questa versione, è necessario stabilire se egli aveva la facoltà di ordinare questa ulteriore fucilazione.
    Dal complesso degli elementi scaturiti dal giudizio risulta che il Kappler non aveva quella facoltà
    [il corsivo è mio -n.d.r.]. Invero, il generale Maeltzer gli disse che l'ordine ricevuto, il cui contenuto relativo proporzione era stato notificato a Kappler dal maggiore perchè avesse modo di preparare la lista delle vittime proveniva da Hitler e, quindi, gli diede ordine di provvedere alla fucilazione delle persone delle quali si era discusso. Quest'ordine fu dato da Kappler, come si è visto, dopo che quel generale era stato informato circa i criteri adottati nella compilazione delle due liste e dopo che era stata scartata l'idea di fare eseguire la fucilazione da militari del Battaglione ‘Bozen’ o dalla 14.a armata. L'ordine generico ricevuto da Maeltzer si trasformò nei confronti di Kappler in un ordine concreto di fucilare le 320 persone comprese nelle due liste. Ciò trova una conferma nel fatto che la competenza di approvare la scelta dei fucilandi era del generale Maeltzer, al quale fu portata la lista di duecentosettanta persone. compilata con gli stessi criteri adottati per la prima. Inoltre, posto che il compilatore della lista poteva essere diverso da quello che provvedeva all'esecuzione [il che sarebbe avvenuto se l'esecuzione fosse stata effettuata dal Battaglione Bozen o da un reparto della 14.ma armata come era intenzione primitiva del generale Maeltzer] è logico dedurre che l'esecutore aveva solo la facoltà di fucilare il numero di persone ordinatogli da comandante della città di Roma e messogli a disposizione. Il che, d'altra parte, risponde alla pratica degli esercizi nei quali gli ordini possono essere generici per gli organi di comando o direttivi, mentre sono sempre tassativi per gli organi meramente esecutivi. Altra prova contraria alla facoltà assuntasi da Kappler è data dal comunicato del 25 marzo, nel quale il numero dei fucilati è dato come decuplo a quello del 32 soldati tedeschi morti. L'imputato afferma che dopo aver ordinato la fucilazione delle dieci persone in questione si dimenticò di informare l'ufficio stampa dell'Ambasciata per una rettifica del comunicato, che nella mattinata era stato completato in base ai dati da lui forniti. Ma questa giustificazione è un ripiego difensivo assai fragile, sia perché il fatto nuovo era di una tale importanza da non potere essere dimenticato come una qualsiasi banale pratica burocratica, sia perché l'imputato, sempre ordinato e preciso nell'espletamento delle sue funzioni, non era l'uomo che tralasciava di segnalare un episodio di grande importanza. L'imputato ha dichiarato che, alle ore 11 del 24 marzo, su richiesta dell'Ufficio stampa dell'Ambasciata tedesca, aveva informato che il numero dei soldati tedeschi morti era di 32. Ma questa affermazione, che vuole costituire il sostrato per fare reggere in parte la mancata rettifica è illogica ed infondata. É noto, difatti, che i comunicati relativi all'attività militare nella città di Roma venivano passati alla stampa dal Comando Militare tedesco di questa città. Di conseguenza se l'Ufficio stampa dell'Ambasciata intervenne in tale questione, sicuramente lo fece sulla scorta dei dati forniti dal Comando Militare della Città di Roma. Una prova della ingerenza di questo comando sui resoconti della stampa romana è data da un convegno di direttori di giornali romani che qualche giorno dopo l'esecuzione delle Fosse Ardeatine, si tenne presso quel comando, alla presenza del generale Maeltzer, onde discutere dell'attentato di via Rasella, delle misure adottate e dell'opportunità di esortare la popolazione a reagire contro gli attentatori.
    Va poi messo in rilievo che nei giorni successivi al 25 marzo la stampa romana [per esempio il Messaggero del 28 marzo, prima pagina], seguendo le direttive impartite in tale convegno dal generale Maeltzer continuò a parlare della fucilazione di 320 persone in relazione alla morte di 32 soldati tedeschi. Eppure era noto a quel comando militare che il numero delle vittime era di 335 e i militari tedeschi morti erano aumentati di una unità. Perché questo silenzio? Se la fucilazione delle Cave Ardeatine aveva avuto lo scopo, come dice Kappler, di prevenire altri attentati, con una durissima esecuzione in massa, non contrastava con questa finalità il rendere noto alla popolazione in numero inferiore a quello effettivo? Gli è che il comando militare di Roma non aveva condiviso l'azione arbitraria del Kappler, che si aggiungeva ad un atto di guerra di per se stesso inumano, e non aveva voluto rettificare le cifre date in precedenza per il completamento del comunicato. É bene notare che anche lo stesso Kappler alcuni giorni dopo il 24 marzo parlava della fucilazione di 320 persone. ‘...qualche giorno dopo [il 25 marzo]- dichiara il teste Alianello (vol. VIII f. 33) - in mia presenza e potendo io sentire, Kappler disse che lui e tutti i suoi ufficiali come pure i suoi uomini, avevano preso parte alla rappresaglia contro 320 uomini civili alle Fosse Ardeatine...’. Non è esatto, difatti, che le cinque persone fucilate in più siano fra quelle che erano a disposizione della polizia italiana e che esse siano sfuggite al controllo perché la lista di accompagnamento di Caruso indicava le persone senza numeri progressivi. In base al riconoscimento delle salme, che finora si riferisce a 332 persone, è risultato che 49 di esse sono di detenuti che erano a disposizione della polizia italiana e corrispondono a 49 nominativi della lista Caruso. Per il completamento di questa lista manca un nominativo, quello di De Micco Cosimo, la cui salma non è stata ancora riconosciuta ed è da presumere sia una delle tre non identificate. Devesi ritenere, pertanto, che le cinque persone in più provengono dai detenuti a disposizione dei Tedeschi. Va poi osservato che non è esatto che la lista di accompagnamento dei 50 detenuti a disposizione della polizia italiana provenisse dall'ufficio del Caruso essendo risultato che il commissario Alianello portò due copie della lista Caruso, e di esse una la diede al direttore del Carcere, l'altra la trattenne.


    Nelle righe che avete letto, cari amici, sta il ‘cuore’ dei due processi contro il tenente colonnello Kappler prima, e contro il capitano Priebke 46 anni dopo. E’ evidente dall’enunciazione fatta dai giudici del Tribunale Militare di Roma che le vittime delle Ardeatine, 335 in tutto, possono essere suddivise in tre gruppi :

    - 320 in seguito all’esecuzione degli ordini impartiti a Kappler dal Comando Superiore quale rappresaglia per l’attentato di via Rasella

    - 10 in seguito alla autonoma decisione di Kappler , non autorizzata però dal Comando Superiore, di elevare di tale numero la lista delle persone da fucilare in seguito alla morte, avvenuta nella notte tra il 23 e il 24 marzo, del trentatreesimo militare tedesco

    - 5 in seguito alla presenza di tale numero di individui in eccesso tra le persone trasportate quel pomeriggio alle Cave Ardeatine, individui che furono alla fine fucilati ugualmente

    Tale distinzione, a prima vista orripilante in quanto sembra voler suddividere i morti delle Ardeatine in tre categorie, è tuttavia essenziale perchè in pratica darà origine, come vedremo, a tre diversi capi di imputazione.

    --------------

    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

  9. #19
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    I cinquanta ostaggi prelevati dalle SS dal carcere di Regina Coeli in attesa di essere caricati sui camion che li condurranno alle Ardeatine

    LE RESPONSABILITA’ CONTESTATE AD HERBERT KAPPLER E AI SUOI SOTTOPOSTI

    Dopo aver esaminato nelle linee essenziali i fatti e le imputazioni pendenti sul tenente colonnello Herbert Kappler e sui suoi sottoposti, tra i quali il capitano Erik Priebke, veniamo alla definizione, da parte della Corte d’Assise Militare di Roma, delle loro responsabilità. Premessa indispensabile è naturalmente l’esame del diritto alla rappresaglia secondo le norme di diritto internazionale allora vigenti:

    ’...dopo questo accenno alla rappresaglia, prima di concludere sulla qualificazione giuridica della fucilazione delle Cave Ardeatine, il Collegio ritiene esaminare il problema, che molto spesso si è posto la dottrina, circa la possibilità del ricorso a tale istituto nel territorio militarmente occupato da parti dello Stato occupante per un torto subito ad opera dello Stato che ha perduto il territorio ovvero della popolazione civile stanziata nella zona occupata. Il problema va risolto avendo riguardo ai princìpi generali sulle responsabilità internazionali degli Stati. Invero, nel caso di occupazione militare, non si crea una situazione speciale la quale postula una diversità di princìpi, ma si determina uno stato di fatto al quale vengono collegati i princìpi relativi a tale responsabilità internazionale. Dopo le critiche del Trieppel, dell'Anzillotti, del Monaco, ormai puó dirsi superata la dottrina la quale faceva risalire allo stato la responsabilità di un atto individuale nel presupposto di una complicità fra l'individuo agente e lo stato medesimo, come pure può dirsi superata la dottrina della responsabilità oggettiva dello Stato, secondo la quale si risponde in base al solo danno, prescindendosi dal fatto che il danno derivi o meno da una attività illecita. La dottrina oggi comunemente accolta è quella che fa derivare la responsabilità dello Stato dal comportamento di questo, dal fatto cioè che si sia violato l'obbligo di prevenzione o quello di repressione, che sono sanciti da una norma consuetudinaria generale. Come è noto con l'occupazione militare lo stato occupante è investito dall'esercizio di funzioni sovrane nel territorio occupato. Senza soffermarsi sull'estensione di tali funzioni va posto in rilievo come l'obbligo di prevenzione e di repressione, da cui deriva la responsabilità internazionale per fatti individuali, può essere imposto al titolare di sovranità su un determinato territorio solo se questo sia unico ad essere investito d'imperio entro quel territorio. Ma quando l'esercizio di funzioni sovrane sia passato nell'occupante, non possono addossarsi allo stato occupato fatti individuali lesivi, in quanto manca l'accennato presupposto che qualifica la responsabilità internazionale. Si puó concludere, pertanto che nel territorio occupato non sono ammissibili rappresaglie relativamente ad azioni manifestatesi per la insufficiente attività di prevenzione o di repressione dell'autorità occupante; sono possibili invece, rappresaglie, quando la violazione del diritto internazionale verificatasi in territorio militarmente occupato si riporti direttamente alla volontà dello stato che abbia perduto quel territorio [il corsivo è mio - n.d.r.] . In questa ipotesi il criterio della insufficiente prevenzione o repressione non entra in funzione poiché vi è un'attività diretta a causare una violazione.

    Anche se ‘viziata’ dall’inevitabile stile ‘burocratico-giuridico’ il contenuto e la conclusione della premessa che avete letto appare del tutto comprensibile ad una persona di intelligenza media, ed è tale da non poter dare luogo a malintesi: la rappresaglia, proporzionata ben inteso all’entità dell’offesa patita, è legittima quando si è verificata una violazione dei diritto internazionale da parte di membri appartenenti per nazionalità allo stato occupato. Dopo questa indispensabile premessa la Corte d’Assise di Roma entra nel merito specifico della questione, rispondendo al quesito fondamentale circa la legittimità o meno della rappresaglia operata dai Tedeschi in seguito all’attentato di via Rasella.
    A questo proposito non è certo fuori di luogo ricordare i requisiti richiesti dalla Convenzione Internazionale dell’Aia del 1907, in vigore al tempo della seconda guerra mondiale, agli autori di un atto di guerra perchè questo possa definirsi ‘legittimo’. Sono in tutto quattro:

    a) devono essere inquadrati e organizzati militarmente in modo gerarchico

    b) debbono portare un’uniforme e dei gradi riconoscibili

    c) debbono portare le armi in modo aperto

    d) debbono obbedire agli ordini di un governo legittimo

    E’ più che evidente che, nel caso specifico dell’attentato di via Rasella, le condizione a), b) e c) non si erano verificate e già questo sarebbe stato per la Corte d’Assise Militare di Roma un criterio di giudizio ben più che esaustivo. Per un esame assolutamente completo ed ineccepibile sul piano formale tuttavia, la Corte d’Assise Militare di Roma ha ritenuto doveroso affrontare anche il punto d), vale a dire stabilire se l’attentato di via Rasella rientrava nelle direttive impartite dal ‘governo legittimo del Sud’ ai comandi militari del CLN. Abbiamo già visto che una delle disposizioni impartite dal generale Armellini, designato a dirigere l’attività militare clandestina del CLN in tutto il Lazio, aveva vietato tassativamente l’esecuzione di attentati e sabotaggi all’interno della città di Roma. L’attentato di via Rasella pertanto doveva configurarsi come chiara ed evidente violazione a quella disposizione, e pertanto poteva essere ‘legittimato’ solo dimostrando che esso, pur trasgredendo a quella disposizione, obbediva in realtà ad una disposizione di più alta priorità. Per poter fare luce su questa evidente contraddizione, la Corte d’Assise di Roma ascoltava allora la testimonianza di due membri, Sandro Pertini e Riccardo Bauer, della cosidetta ‘giunta militare’, l’organizzazione creata dal Pci per ‘coordinare’ l’attività dei partigiani comunisti, i cui veri scopi sono stati in precedenza descritti. Il contenuto in sintesi di questa ‘testimonianza’ è naturalmente è riportato nel dispositivo di sentenza e lo si può leggere qui di seguito.

    ‘...in merito alla preparazione ed alle modalità di esecuzione dell'attentato del 23 marzo 1944 si accertava [dich. Bentivegna, Salinari, Calamandrei] ciò che ormai era noto per le notizie pubblicate dai giornali dopo la liberazione di Roma, e cioè che in quel giorno una squadra di partigiani comandata da Carlo Salinari aveva avuto affidato il compito, in base ad ordine del capo della formazione militare di cui faceva parte quella squadra, di attaccare una compagnia tedesca che da diversi giorni era solita fare un uguale percorso attraverso il centro di Roma. Alle ore 14 del detto giorno il partigiano Rosario Bentivegna, travestito da spazzino, percorreva Via Rasella spingendo una carretta carica di 12 chilogrammi di esplosivo ed attorno a questa altri sei chilogrammi di esplosivo. Giunto a metà circa della strada, all'altezza del palazzo Tittoni, Bentivegna si fermava, in attesa che giungesse la compagnia tedesca, che soleva passare per quella strada alle ore 14,30 circa.
    Un po' in giù del posto in cui era stata fermata la carretta, all'angolo di Via Boccaccio, si trovavano altri partigiani compagni di squadra di Bentivegna. Con essi era anche il comandante della squadra Salinari ed il v.comandante Calamandrei. Alle ore 15 circa quest'ultimo si toglieva il cappello per indicare a Bentivegna che la compagnia aveva imboccato via Rasella e che la miccia per l'esplosione doveva essere accesa. Quest’ultimo accendeva la miccia, chiudeva il coperchio della carretta e si allontanava verso via Quattro Fontane. Appena egli imboccava questa strada avveniva lo scoppio dell'esplosivo contenuto nella carretta. La compagnia veniva investita dallo scoppio dell'esplosivo: molti soldati morivano immediatamente altri rimanevano più o meno gravemente feriti. Intanto i partigiani che si trovavano in via del Boccaccio attaccavano con lancio di bombe a mano la compagnia quanto mai disordinata e, quindi, si allontanavano...’


    Fin qui la descrizione di come si svolse dell’attentato, nella quale compare chiaramente la partecipazione ed il ruolo rispettivo svolto da tre persone: Bentivegna come esecutore materiale, Salinari e Calamandrei [che diverrà poi parlamentare del Pci] in funzione di supporto [in seguito si appurerà che, a parte i ‘partigiani di via Boccaccio’ la cui effettiva partecipazione all’azione è oggi messa alquanto in dubbio, la ‘squadra di supporto’ era formata anche da altri, tra i quali Carla Capponi, con ruoli però di secondo piano]. Si deve presumere che, alla luce di quanto scritto nel dispositivo di sentenza, il quadro dell’attentato di via Rasella, circostanze ed esecutori, dovesse pertanto essere assai chiaro alla Corte d’Assise di Roma, e ciò rende incomprensibile il fatto che nel dispositivo di accusa si affermi [vedi capitoli precedenti] che l’attentato di via Rasella sia stato commesso da ‘due persone rimaste sconosciute’... misteri della giustizia italiana!...
    Dettagli a parte, veniamo al sodo, ossia alle dichiarazioni rese da Pertini e Bauer. Un unico aggettivo può essere usato per definire la motivazione con la essi ‘giustificano’ dal punto di vista giuridico l’attuazione di un attentato che violava esplicitamente le disposizioni impartite dal generale Armellini: sconcertante. E di fronte all’enormità di quello che segue, non è necessario alcun commento [il corsivo è mio]:

    ’...risultava poi [dich. Amendola, Pertini, Bauer] che l'attentato rientrava in quelle direttive di carattere generale della Giunta Militare tendenti a costringere i Tedeschi a rispettare la posizione di città aperta di questa capitale, direttive che ciascun componente della Giunta era chiamato a fare attuare alla formazione da lui dipendente...’

    A fronte a questa ‘testimonianza’, è assolutamente fuori discussione il fatto che alla Corte d’Assise Militare di Roma non è rimasta neppure la più piccola parvenza di dubbio riguardo la ‘legittimità’ dell’attentato di via Rasella, a giudicare dalla conclusione cui perviene alla fine, qui sotto riportata con la parte in corsivo evidenziata e sottolineata dallo scrivente [chi ha la vista un poco incerta è pregato di strofinarsi gli occhi]:

    ‘...dall'accennato rapporto sussistente fra il movimento partigiano e lo Stato italiano deriva che, in conseguenza dell'atto illegittimo di via Rasella, lo stato occupante aveva il diritto di agire in via di rappresaglia...’

    Appurato questo in maniera inequivocabile, prima di dedurre la legittimità o meno della ‘misura di ritorsione’ [ho evitato di proposito il temine ‘rappresaglia’] che i Tedeschi attuarono alle Ardeatine, è necessario ancora percorrere un lungo cammino, irto di ostacoli ed asperità...lasciamo, tanto per essere sicuri, nuovamente la parola alla Corte d’Assise di Roma:

    ‘...la questione quindi, si risolve nell'accertare se la fucilazione di 335 persone alle Fosse Ardeatine costituisca una rappresaglia ovvero un'azione diversa. Prima di dare una risposta al quesito è necessario premettere che nell'esecuzione delle Fosse Ardeatine si devono distinguere due momenti ben distinti come si è chiarito nella esposizione del fatto. Difatti, mentre la fucilazione di 320 persone si riporta all'ordine dato dal generale Maeltzer, la fucilazione di altre 10 persone, in relazione alla morte di un 33.o soldato tedesco dopo la trasmissione di quell'ordine, costituisce un'attività diretta ed immediata di Kappler. La fucilazione, infine, delle altre 5 persone dipende da un errore di cui in seguito saranno valutate le conseguenze. Distinta la fucilazione delle Fosse Ardeatine negli accennati due momenti, ne viene come conseguenza che il quesito postosi dal Collegio si riferisce solo alla fucilazione di 320 persone, che si riporta ad un ordine emanato dall'Autorità competente a disporre rappresaglie, non alla fucilazione delle altre 10 persone, la quale, essendo stata disposta da un organo incompetente ad ordinare rappresaglie, costituisce un'attività che, sotto il lato oggettivo, è senz'altro fuori dell'orbita della rappresaglia. Al quesito per il Collegio deve darsi risposta negativa. lnvero, come s'è visto un' azione commessa da uno stato in violazione del diritto internazionale può assumersi come rappresaglia solo se costituisce la risposta ad una violazione subita e sia proporzionata a questa. Il principio della proporzione caratterizza il contenuto della rappresaglia, comunque questa si inquadri nella teoria del diritto. Difatti, se si riconosce nella rappresaglia un mezzo di autotutela, di sanzione o di legittima difesa, deve assumersi necessariamente a suo contenuto il concetto di proporzione fra violazione subita e violazione causata se non si vuole cadere nell'antigiuridicità. Chi agisce per autotutela, in via di sanzione o per legittima difesa di un suo diritto, quando la legge gliene riconosca il potere, solo in quanto proporzioni la sua azione alla violazione subita può accampare a sua difesa la causa giustificatrice dell'antigiuridicità. Oltrepassando volontariamente i limiti della proporzione egli risponde del fatto commesso poichè, traendo occasione da una situazione legittimatrice di un dato evento ne ha voluto causare un altro più grave. Fra l'attentato di via Rasella e la fucilazione delle Cave Ardeatine vi è una sproporzione enorme sia in relazione al numero delle vittime, sia in relazione al danno determinato [il corsivo è mio - n.d.r.]...’

    In altre parole, secondo la Corte d’Assise di Roma, per giudicare la legittimità o meno di una disposizione di rappresaglia, il criterio più idoneo sarebbe... il metro della proporzionalità. Ipotizzando senz’altro di potere accettare questo criterio, ci sarebbe da aspettarsi, come logica impone, che, giudicando ‘enorme e disumano’ il rapporto dieci a uno per una misura di rappresaglia, si indichi quale avrebbe dovuto essere, almeno nel caso in questione, una proporzione ‘giusta e umana’. Dal momento che la Corte d’Assise di Roma ha evidentemente giudicato ‘superfluo’ fornire questa indicazione, il sottoscritto, mi si voglia perdonare la presunzione, cercherà di stabilirlo per altra via.
    E’ superfluo dire che nessuna norma in tal senso è contemplata nè dal diritto internazionale nè dal diritto di un qualsiasi strato, ragion per cui non vi è altra alternativa che considerare quelle che in passato sono state le ‘consuetudini’ in uso nei vari eserciti. E a questo punto viene il bello...se uno qualsiasi facesse uno studio sistematico al riguardo e provasse a compilare una specie di ‘classifica’, finirebbe per trovarsi alla fine di fronte ad una verità ‘agghiacciante’: non andando mai, nelle misure di rappresaglia adottate, oltre il rapporto dieci a uno, che fu applicato per altro solo nei casi più gravi, l’Esercito Tedesco ha adottato le misure di rappresaglia più ‘miti’ di qualsiasi altro, compreso l’Esercito Italiano. Cominciando proprio da quest’ultimo, evitando, per puro amor di patria, di parlare delle terrificanti rappresaglie messe in pratica dall’Esercito Piemontese durante la campagna di ‘pacificazione’ dell’Italia Meridionale e della Sicilia, possiamo benissimo ricordare, esempio tra i tanti, le migliaia di Abissini, tra cui più di duecento preti Copti, fucilati all’indomani del [fallito] attentato al maresciallo Graziani, avvenuto nel 1936 ad Addis Abeba. La proporzione dieci a uno adottata dai Tedeschi alle Ardeatine, avrà fatto decisamente sorridere di compatimento gli ufficiali dell’Esercito Sovietico, dove [come per esempio a Soldin, nella seconda guerra mondiale] si arrivava di norma a proporzioni di centoventi a uno. L’Esercito di Sua Maestà Britannica dal canto suo, per ordine del generale Montgomery, è ricorso a Bengasi nel 1942, in seguito ad un attentato, alla proporzione di dieci Italiani per ogni Inglese, e la stessa proporzione gli Inglesi adotteranno poi a Cipro, nel Medio Oriente e in Malesia. Per quanto riguarda l’Esercito degli Stati Uniti, se da una parte il generale Clark ha ordinato, all’indomani dell’occupazione di Strasburgo, la fucilazione di cinque prigionieri di guerra per ogni americano ucciso dai cecchini filotedeschi, il suo collega generale Patton ad Annecy ha adottato la proporzione di ottanta tedeschi per ogni americano. Per finire con i nostri cugini di Oltralpe, nell’Alta Savoia alla fine del ‘44 i Francesi hanno ucciso ottanta prigionieri di guerra tedeschi solo perchè era ‘corsa voce’ che un francese era stato ucciso da una ‘ignota formazione irregolare filotedesca’. Considerando il fatto che sia nel processo del ‘48 contro Kappler, che in quello del ‘96 contro Priebke [e come pure nello stesso processo di Norimberga avvenuto nel ‘46] le difese degli imputati hanno presentato, invano, questi ed altri riscontri ai magistrati inquirenti, viene da pensare che la norma in questione debba intendersi in pratica nel modo seguente: una qualsiasi misura di rappresaglia risulta ‘inumana e sproporzionata’ se è stata applicata da chi ha perso la guerra, ‘giusta e proporzionata’ in caso contrario.

    Polemiche a parte riprendiamo il filo del discorso. Stabilito, in base ai criteri testè esaminati, non potersi definire rappresaglia o repressione collettiva [sulla differenza, dal punto di vista giuridico, tra le due non ci soffermeremo per non appesantire eccessivamente il discorso] la fucilazione di 335 persone avvenuta alle Ardeatine, per essa si deve parlare più propriamente, secondo la Corte d’Assise di Roma, di ‘omicidio continuato’. Anche però in quest’ambito si deve tenere bene a mente, come vedremo, la distinzione fatta in precedenza riguardo alle vittime della fucilazione, in particolare nel caso delle cinque persone uccise in più ‘per errore’.

    ‘...dimostrate infondate le tesi della rappresaglia e della repressione collettiva, la fucilazione delle Cave Ardeatine assume la qualificazione di un omicidio continuato. Difatti, è risultato pienamente provato che 330 persone furono uccise in conseguenza dell'attentato di Via Rasella, mentre le altre cinque furono fucilate per errore. Il movente relativo all'uccisione delle 330 persone collegato alla guerra porta ad esaminare il fatto alla stregua dell'ipotesi delittuosa prevista dall'articolo 185 c.p.m. di guerra, contestato agli imputati, il quale punisce gli atti di violenza o di omicidio commessi, senza necessità o senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra, da militari o nemici a danno di civili nemici che non prendono parte alle operazioni... per necessità bellica comunemente s'intende un pericolo grave ed attuale che impone un determinato comportamento perché un'azione militare, anche secondaria importanza, abbia successo. L'attualità e la gravità del pericolo deve essere preventivamente accertata e determinata. Mancando questi presupposti non può invocarsi la necessità bellica come causa giustificatrice di un comportamento illecito. La situazione determinatasi a seguito dell'attentato di Via Rasella non costituiva un pericolo grave ed attuale ai fini delle operazioni militari e per la sicurezza delle truppe in Roma. Invero, subito dopo l’attentato una calma assoluta regnava nella città. La sparatoria verificatasi nella prima mezz'ora in via Rasella e nelle vie adiacenti era opera di militari tedeschi e ciò era stato subito chiarito. Nella serata da parte della polizia non veniva segnalato alcun incidente o pericolo. Né può dirsi che il pericolo grave ed attuale fosse costituito dai vari attentati che si erano verificati in precedenza a Roma. É noto che nelle zone militarmente occupate gli attentati si verificano con frequenza per l'ostilità delle popolazioni contro gli eserciti occupanti [è evidente tuttavia che queste considerazioni della Corte d’Assise non tengono conto della necessità, da parte di un esercito di occupazione, di prevenire in qualche modo simili attentati e che questa opera di ‘prevenzione’ non può essere attuata se non con un’azione di ‘deterrenza’... i recenti avvenimenti in Cisgiordania illustrano purtroppo quanto ciò sia vero anche ai giorni nostri... - n.d.r.] . Ciò non costituisce un pericolo grave ed attuale fino a quando non si sia accertato che la popolazione agisca organizzata, sia bene armata e possa svolgere un'azione di particolare rilievo idonea a modificare l'andamento delle operazioni o di una qualche azione dell'esercito occupante... nella fucilazione delle Cave Ardeatine, nel modo in cui fu effettuata, va pure esclusa la sussistenza di un giustificato motivo. L'attentato di via Rasella giustificava, come si è detto, un'azione di rappresaglia o di repressione collettiva, a seconda della qualificazione giuridica che l'esercito occupante avesse attribuito all'attentato, condotta nel modo voluto dalle norme e dalle consuetudini internazionali; ma, dato che furono fucilate persone in numero di gran lunga sproporzionato a quello dei militari tedeschi uccisi nell'attentato e senza che avessero alcun rapporto di solidarietà con gli attentatori, l'esecuzione delle Cave Ardeatine rimase scissa dalla causa giustificatrice...’

    E così, dopo lunghe e estenuanti elucubrazioni giuridiche, la Corte d’Assise di Roma stabiliva che, mentre da parte tedesca la facoltà di attuare una rappresaglia per l’attentato occorso in via Rasella era da considerare legittima, l’ordine dato ad Herbert Kappler di fucilare 320 persone [non 330 e neppure 335...], per la [presunta] sproporzione tra Tedeschi e Italiani uccisi, era da condiderare in sè illegittimo. Il lettore a questo punto potrà ritenersi autorizzato a concludere che Kappler, avendo eseguito un ordine che si è dimostrato essere illegittimo, era da considerare colpevole dell’imputazione [omicidio plurimo] che gli era stata contestata. Come vedremo prossimamente, ciò
    non corrisponde al vero.

    --------------

    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

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    Proclama diffuso clandestinamente dal CLN alcuni giorni dopo la rappresaglia delle Ardeatine

    LA SENTENZA A CARICO DI KAPPLER E DEGLI ALTRI IMPUTATI

    Stabilita, con i criteri che abbiamo esaminato sui quali, ci sia concesso di dire, più di uno ha espresso qualche perplessità, la definizione giuridica della fucilazione di 335 persone avvenuta alle Cave Ardeatine il 24 marzo 1944, la Corte d’Assise Militare di Roma era in condizione di esaminare la posizione, di colpevolezza ovvero di innocenza, dei singoli imputati. Ovviamente il primo caso da esaminare era quello del tenente colonnello Herbert Kappler, il comandante della guarnigione di via Tasso e pertanto l’individuo sul quale erano maggiormente accentrate autorità e di conseguenza responsabilità. In definitiva si doveva fornire risposta ai seguenti due quesiti:

    - Kappler era o no colpevole?...

    - stabilito che Kappler era colpevole, esistevano circostanze aggravanti o attenuanti che potevano influire sulla pena da comminargli?...

    Per avere risposta non resta altro che dare ancora una volta la parola alla Corte d’Assise di Roma:

    ’...la difesa di Kappler ha sostenuto che, quand'anche si ritenesse l'illegittimità della rappresaglia o della repressione collettiva dovrebbe assolversi quell'imputato per avere egli agito in adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o, quanto meno da un ordine non sindacabile del superiore. In sostanza, l'assunto difensivo è il seguente: posto che l'ordine della fucilazione è stato emanato dal Fuehrer, quest'ordine, per la competenza legislativa, oltre che esecutiva, di cui quell'organo era investito nell'ordinamento costituzionale tedesco e per la preminenza, di esso sugli altri organi costituzionali, costituiva una vera e propria norma giuridica o, comunque, un ordine insindacabile. In merito va precisato che Kappler non fu chiamato ad eseguire un ordine di Hitler, ma un ordine di Maeltzer, che aveva a sua base un ordine di quel Capo di Stato e di cui egli era a conoscenza. In sostanza, come si è osservato dal momento che il generale Maeltzer ordinò al Kappler di fucilare le 320 persone delle quali si era discusso e ciò sulla base di un ordine di Hitler che dispone una rappresaglia da 10 a 1, non può affermarsi che l'ordine di quel generale relativo alla fucilazione di un determinato numero di persone avesse lo stesso contenuto dell'ordine del Fuehrer. Tuttavia, stante che l'ordine di Maeltzer prendeva le mosse da un ordine di Hitler e di ciò era a conoscenza l'imputato, la tesi difensiva merita di essere esaminata. Per le considerazioni già svolte, il Collegio ritiene che il problema prospettato dalla difesa vada posto relativamente alla fucilazione di 320 persone non alla fucilazione delle altre persone, la cui causale è scissa dall'ordine in esame.
    In merito alla tesi difensiva, il Collegio osserva come non sia esatto qualificare norma giuridica un ordine proveniente da un determinato organo solo perché questo abbia anche competenza legislativa. Non è la competenza di un organo difatti, che determina la natura di un imperativo, ma il contenuto di questo. Pertanto quando l'imperativo si rivolge ad un caso particolare, come nel fatto in esame, qualunque sia la competenza dell'organo che l'ha posto, va escluso possa trattarsi di precetto legislativo, la cui caratteristica principale è l'astrattezza. Infondata è pure l'altra tesi relativa alla insindacabilità dell'ordine del Fuehrer. Invero, pur non potendosi disconoscere la grande forza morale che l'ordine del Fuehrer aveva nell'organizzazione militare ed in modo speciale in quelle organizzazioni, come per esempio quella delle SS, che erano maggiormente legate a quell'organo, va esclusa sotto il profilo una insindacabilità di quell'ordine. Anche la legislazione penale militare tedesca difatti, alla stessa stregua dei moderni ordinamenti giuridici, pone il principio per il quale l'inferiore che abbia commesso un fatto delittuoso per ordine del superiore risponde di quel fatto, tranne che abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Principio questo sostanzialmente uguale a quello dell'art. 40 c.p.m. di pace, in base al quale va esaminato l'aspetto della colpevolezza. Quest'esame va fatto riportandosi ai princìpi che disciplinavano l'organizzazione delle SS, della quale il Kappler faceva parte. A quest'uopo bisogna tenere presente che in quell'organizzazione vigeva una disciplina rigidissima e veniva osservata una prassi che aggravava maggiormente i princìpi di quella disciplina. Dal dibattimento è risultato che le denunzie ai Tribunali Militari delle SS, per reati commessi dagli appartenenti a quest'organizzazione, non venivano trasmesse direttamente, ma tramite il capo di quell'organizzazione Himmler, il quale spesso in calce alle denunzie, spesso in quelle più gravi, esprimeva delle direttive, cui i giudici rigorosamente si attenevano. Questi elementi, i quali dimostrano il livello di degradazione cui avesse portato un sistema politico di accentuato statalismo, devono essere tenuti presenti in un'indagine sul dolo qualunque sia stata l'attività delle SS in tempo di pace ed in tempo di guerra, dato che la relativa organizzazione faceva parte dell'ordinamento amministrativo tedesco
    [il corsivo è mio - n.d.r.]...’

    Come è possibile constatare a chiunque, la Corte d’Assise di Roma, cinquantaquattro anni fa, ha valutato giustamente il pericolo gravissimo che comportava per i membri delle SS, organizzazione volontaria al cui interno esisteva una disciplina rigidissima che non ammetteva discussione di sorta, la mancata esecuzione di un ordine, specie se questo proveniva dalla più alta autorità dello Stato, ovvero da Adolf Hitler. Come fra poco vedremo invece, nel processo a carico di Erik Priebke tenutosi sempre a Roma quarantotto anni dopo, l’accusa ha sostenuto, portando a sostegno di ciò motivazioni semplicemente ridicole, che Erik Priebke avrebbe potuto tranquillamente rifiutarsi di eseguire gli ordini impartitegli dai superiori, senza tema di pericoli per sè o per i propri famigliari. Questo fatto già di per se stesso, anche in mancanza di altri elementi, illustra assai bene la fondamentale ingiustizia insita in un procedimento giuridico istituito decine di anni dopo i fatti contestati all’imputato, un periodo di tempo nel quale i criteri di giudizio comunemente accettati possono cambiare in modo basilare. Dopo questa indispensabile considerazione, procediamo senz’altro [il corsivo sottolineato è mio]:

    ’...ciò premesso, il Collegio ritiene che l'ordine di uccidere dieci Italiani per ogni tedesco morto nell'attentato di via Rasella, concretatosi, attraverso il generale Maeltzer, nell'ordine di uccidere 320 persone in relazione a 32 morti, pur essendo illegittimo in quanto quelle fucilazioni costituivano, per le considerazioni esposte, degli omicidi, non può affermarsi con sicura coscienza che tale sia apparso a Kappler...’

    Nell’ultima frase, che per la sua importanza ho voluto enfatizzare, sta il nocciolo dell’intero processo, il condensato di fiumi d’inchiostro e migliaia di pagine con centinaia di incartamenti: Kappler non fu in grado, per un complesso di elementi indipendenti dalla sua volontà, di giudicare circa la legittimità dell’ordine impartitogli [si badi bene che stiamo parlando dell’ordine di fucilare 320 ostaggi, non uno di più, impartitogli dal generale Maeltzer], ragione per la quale non ebbe alcuna ragionevole alternativa all’esecuzione di esso, come, a maggior ragione, del resto non l’ebbero i suoi sottoposti. Questo concetto è ribadito, per togliere qualsiasi dubbio legittimo, nelle righe successive [nuovamente il corsivo e il sottolineato sono miei]:

    ’...il modo dell'esecuzione, crudele verso le vittime, le quali, stando ad attendere sul piazzale all'imboccatura della cava sentivano, frammiste con le detonazioni, le angosciose grida delle vittime che le avevano precedute e di esse quindi, nell'interno della cava, scorgevano al chiarore delle fiaccole i cadaveri sparsi o ammucchiati costituisce un elemento obiettivo di prova circa la coscienza dell'illegittimità dell'ordine. Ma non è da escludere che queste modalità siano collegate, più che ad una volontà cosciente circa l'illegittimità dell'ordine, ad uno stato d'animo di solidarietà verso i Tedeschi morti anch'essi a causa della polizia, sfociato, per odio contro gli Italiani, concittadini degli attentatori, in una crudeltà nell'esecuzione. Questa deduzione, l'abito mentale portato all'obbedienza pronta che l'imputato si era formato prestando servizio in un'organizzazione dalla disciplina rigidissima, il fatto che ordini aventi lo stesso contenuto in precedenza erano stati eseguiti nelle varie zone d'operazioni, la circostanza che un ordine del Capo dello Stato e Comandante Supremo delle forze armate, per la grande forza morale ad esso attinente, non puó non diminuire, specie in un militare, quella libertà di giudizio necessaria per un esatto sindacato, sono elementi i quali fanno ritenere al Collegio non possa affermarsi con sicurezza che il Kappler abbia avuto coscienza e volontà di obbedire ad un ordine illegittimo...’

    In queste righe, con buona pace di quanti hanno ritenuto e ritengono tuttora che il semplice fatto di aver eseguito un’azione ‘orrenda’ come la fucilazione di 335 innocenti alle Cave Ardeatine [anche qui occorre intenderci, dal momento che dalla preistoria ad oggi, si pensi all’attentato al World Trade Center di New York o ai recentissimi fatti accaduti in Medio Oriente, nessuno ricorda una guerra nella quale non siano stati perpetrati ‘azioni orrende’ in misura di solito assai più grave che non quanto avvenuto alle Ardeatine] ovvero il fatto che gli autori di essa siano identificati per ‘nazisti’ comporti automaticamente riconoscimento di colpevolezza e disconoscimento di qualsiasi attenuante, la Corte d’Assise Militare di Roma stabiliva in modo inequivocabile il verdetto per il tenente colonnello Herbert Kappler e per i suoi sottoposti riguardo alla più grave delle imputazioni a loro mosse, ossia strage, un reato che già la legislazione nel 1948 dichiarava non poter essere soggetto a prescrizione: ...imputato non colpevole.

    Sfortunatamente per lui, questo verdetto di non colpevolezza che scagionava lui ed i suoi sottoposti dalla più grave delle imputazioni loro mosse, non ha evitato al tenente colonnello Kappler l’ergastolo, dal momento che, come si ricorderà, su di lui pendeva anche l’accusa di aver ordinato, senza essere in possesso dell’autorità per fare questo, la fucilazione di 15 persone in soprannumero rispetto agli ordini ricevuti, 10 aggiunte alla lista in seguito alla notizia, appresa nella prima mattina del 24 marzo, della morte di un altro militare germanico e 5 prelevate in più per errore, probabilmente dal carcere di Regina Coeli, e trasportate insieme alle altre alle Ardeatine. Ecco quanto è scritto nel dispositivo di sentenza a proposito della disposizione da lui emanata di fucilare dieci ostaggi in più. Le parole usate sono di una durezza tale da sembrare scolpite nella pietra [il corsivo è mio]:

    ’...diversa, invece, è la posizione dell'imputato per la fucilazione di dieci Ebrei da lui disposta, come si è visto, per avere appreso che era morto un altro soldato tedesco e senza che in merito avesse avuto alcun ordine [con tutto il rispetto dovuto alla Corte d’Assise Militare, non si riesce francamente a comprendere in base a quale criterio i dieci ostaggi da fucilare aggiunti da Kappler ai 320 stabiliti in precedenza sono stati identificati come Ebrei, tanto più che la decisione assunta unilateralmente da Kappler è antecedente alla definitiva compilazione della lista... - n.d.t.] . Per questa azione la sua responsabilità è piena sia dal lato oggettivo sia da quello soggettivo. Sotto il profilo oggettivo va escluso che si tratti di rappresaglia, in quanto, a prescindere da altre considerazioni, il soggetto che dispose la fucilazione delle dieci persone non aveva competenza ad ordinare rappresaglie. Queste, difatti, secondo l'ordinamento tedesco, alla stessa stregua di altri ordinamenti, possono essere disposte da comandanti di grandi unità. Intanto si può parlare se per un'azione sussista o meno una causa giustificatorie dell'antigiuridicità in quanto il soggetto che commise tale azione sia lo stesso facultato dalla legge a comportarsi, in particolari situazioni ed entro determinati limiti, nella maniera attinente a tale causa. Per la stessa ragione va negato che la fucilazione delle dieci persone costituisca una rappresaglia fuori dei casi consentiti, punita a norma dell'articolo 776 c.p.m. di guerra. Perché questa norma entri in funzione, difatti, fra l'altro, è necessario, che il comandante, il quale abbia ordinato la rappresaglia fuori dei casi consentiti, sia competente a disporre un atto del genere. Va pure escluso che l'esecuzione in questione rientri nella repressione collettiva, in quanto, come si è detto parlando dell'esecuzione in generale a proposito di quest'ultimo, non si è verificata alcuna delle condizioni del procedimento della repressione collettiva. Come si è detto nell'inquadrare giuridicamente la fucilazione in genere delle Cave Ardeatine, questa esecuzione rientra nell'ipotesi delittuosa prevista dall'articolo 185 c.p.m. di. guerra la cui concreta applicazione è stata oggetto di esame da parte del Collegio. Trattasi, difatti, anche in questa ipotesi di omicidi commessi in relazione all'attentato di via Rasella, cioè per una causa non estranea alla guerra, senza necessità, come si è dimostrato nel discutere della fucilazione in genere, e senza giustificato motivo dal momento che va negata, come si è detto, la sussistenza delle cause giustificatrici inerenti alla rappresaglia ed alla repressione collettiva. L'imputato ordinò la fucilazione dei dieci Ebrei in questione, come si è detto nella esposizione del fatto, sapendo di fare cosa che non rientrava nell'ordine ricevuto. Egli agì in maniera arbitraria sperando che le più alte gerarchie, attraverso quest'azione, avrebbero visto in lui l'uomo di pronta iniziativa, capace di colpire e di reprimere col massimo rigore. Non era questa la prima volta che Kappler agiva arbitrariamente ed illegalmente nell'intento di porre in rilievo la sua personalità come quella di chi è superiore ad ogni pregiudizio di carattere giuridico o morale, adotta pronte, energiche e spregiudicate misure. Anche per l'oro degli Ebrei, come si è visto, egli agì con la stessa spregiudicatezza ed illegalità [in queste righe ci si riferisce ad un’altra accusa diretta a Kappler, quella di aver estorto, nel settembre del 1943, cinquanta chili d’oro alla comunità degli Ebrei di Roma, in cambio della promessa di evitare la loro deportazione in Germania, promessa che poi Kappler non è stato poi in grado di mantenere. Per questo secondo capo di imputazione Kappler è stato dalla Corte d’Assise di Roma giudicato colpevole e condannato a quindici anni - n.d.r.] . La causale dell'uno e dell'altro delitto è nella sfrenata ed aberrante ambizione dell'uomo. Egli è nazista tipico: il suo interrogatorio ed il suo comportamento mettono in rilievo un uomo permeato di quei princìpi nazisti, che nella guerra, dovevano necessariamente sfociare nella non considerazione della personalità dei nemici e nella spietata subordinazione di tutti gli interessi a quelli della Germania delle forze armate tedesche. Su questo piano non c'è norma giuridica che possa frenare: il diritto esiste nei rapporti interni tedeschi; per le popolazioni nemiche c'è la legge della forza. É questo piano sul quale si muovono i nazisti in guerra. Kappler poi, intransigente, ambizioso e permeato fino all'esasperazione di nazismo, opera con grande libertà d'azione perché vuole essere un operatore di primo piano, non un semplice esecutore di ordini, e rompe gli inciampi che vecchi uomini della Wermacht, educati in base a princìpi meno spregiudicati, potrebbero eventualmente frapporre. Nella ricostruzione di un fatto delittuoso la personalità dell'imputato quale scaturisce dalle risultanze processuali costituisce l'elemento propulsore nella ricerca della verità. E’ sulla base di questa personalità e di tutti quegli altri elementi obiettivi, scaturiti dal giudizio e messi in rilievo, che il Collegio trae la sicura convinzione che il prevenuto nella fucilazione delle dieci persone in questione agì avendo la coscienza e volontà di operare in maniera arbitraria, non in base ad un ordine ricevuto. Le dieci fucilazioni, pertanto, concretano dieci omicidi volontari i quali, essendo stati commessi in conseguenza di uno stesso disegno criminoso, devono farsi rientrare nella figura giuridica dell'omicidio continuato...’

    Ed ora veniamo al caso delle cinque persone fucilate ‘per errore’ verso le ore 19, quando ormai erano trascorse cinque ore dall’inizio delle fucilazioni, era sera e la maggior parte dei militari tedeschi era rientrata nei loro alloggiamenti. Va subito detto, allo scopo di dissipare molti equivoci, che durante il processo lo stesso Kappler non solo aveva ammesso di aver dato l’ordine di fucilare quelle cinque persone, nonostante sapesse che già ne erano state fucilate 330 e pertanto la lista era stata oramai completata, ma altresì aveva scagionato da ogni responsabilità a questo riguardo i suoi sottoposti, dichiarando in più di una circostanza che tale decisione era stata assunta unicamente da lui. Queste sue dichiarazioni erano naturalmente volte soprattutto a mettere in chiaro le responsabilità degli ufficiali subalterni di grado più elevato, identificati dalla Corte d’Assise con il capitano Karl Schutz [colui che aveva diretto le fucilazioni, controllando nella circostanza il ‘comportamento’ delle SS da lui dipendenti] e con il capitano Erik Priebke [colui che aveva tenuto la lista delle vittime, stralciandone i nomi via via che queste venivano condotte all’interno delle cave per essere fucilate]. Nel 1995 tuttavia, cioè quarantasette anni dopo, come avremo modo di vedere doveva comparire sulla scena un nuovo ‘fantomatico’ personaggio, presente sul luogo nel momento nel quale venne decisa la sorte dei cinque sventurati, che rivestiva un grado militare più elevato dei due ufficiali testè indicati: il maggiore Kark Hass. Sui motivi per i quali di costui per più di cinquant’anni si è persa ogni traccia e di lui non si è mai neppure fatto il nome si avrà modo di tornare più avanti. Per il momento vediamo che cosa dice riguardo alle cinque vittime ‘in più’, e alle responsabilità di Erik Priebke in particolare, la Corte d’Assise di Roma [nuovamente il corsivo è mio]:

    ’...la fucilazione delle altre cinque persone fu dovuta come si è detto nella esposizione dei fatti, ad un errore che, per l'occasione in cui si manifestò, dimostra come in Kappler e nei suoi collaboratori più vicini sia mancato il più elementare senso di umanità. Queste cinque persone, prelevate in più del numero stabilito fra i detenuti a disposizione dei Tedeschi e portate alle Cave Ardeatine, furono fucilate perché il capitano Schutz ed il capitano Priebke, preposti alla direzione dell'esecuzione ed al controllo delle vittime, nella frenetica foga di effettuare l'esecuzione con la massima rapidità, non s'accorsero che esse erano estranee alle liste fatte in precedenza.
    Chiunque sia stato l'ufficiale od il sottufficiale che effettuò erroneamente il prelevamento delle persone in questione, è certo che la loro uccisione si riporta alle insufficienti ed inopportune direttive date dal Kappler per l'esecuzione ed alla straordinaria negligenza di quei due capitani, contro i quali in questa sede non si procede per essere stato il relativo procedimento stralciato in istruttoria.
    Kappler si preoccupò di raccomandare ai suoi inferiori di agire con la massima celerità nell'esecuzione, ma non si curò di controllare l'operato di quelli e di accertarsi che non si verificassero delle omissioni fatali, la cui possibilità non era difficile stante il ritmo acceleratissimo con cui i detenuti erano prelevati e fucilati. Vi è stata da parte di questo imputato un'omissione relativamente alle opportune misure per un'esecuzione in grande massa da eseguirsi in poche ore ed è a tale omissione che si riporta l'errore che condusse alla morte queste cinque persone. Essendo avvenuto che oltre le persone contro le quali era diretta l'offesa, siano state fucilate cinque persone per un errore nel controllo delle vittime, il Collegio ritiene che il fatto rientri nell'ipotesi delittuosa dell'art. 82, II comma c.p. Invero, l'errore del controllo delle vittime può ben farsi rientrare in quella causa generica, che costituisce una delle condizioni di applicabilità della norma in esame quando si sia cagionata offesa, oltre che alla persona alla quale essa era diretta, anche a persona diversa. Oltre che ai dieci omicidi dei quali si è ampiamente discusso, Kappler risponde, stante l'accennato rapporto di causalità, anche di questi cinque omicidi a norma dell'art. 82, II comma c.p....’


    Dal momento che l’importanza di queste righe è fondamentale per stabilire la stessa legittimità della messa in stato di accusa del capitano Erik Priebke per una colpa da cui, con sentenza passata in giudicato era stato scagionato quarantasette anni prima, sarà quanto mai opportuno rivedere e commentare alcuni punti salienti:

    - la sentenza della Corte d’Assise Militare del 1948 stabilisce, senza ombra di dubbio, che la morte delle cinque persone fucilate in soprannumero era da considerare attribuibile ad un errore causato da una presunta ‘trascuratezza’, ovvero a ‘fretta’, da parte dei capitani Schutz e Priebke, quest’ultimo preposto al controllo dell’identità delle vittime. E’ superfluo affermare che la morte di individui causata da errori e omissioni di altri individui, in qualsiasi ordinamento giuridico, nonchè in ogni tempo e luogo, è stato definito da sempre come omicidio colposo

    - la stessa sentenza stabilisce che la causa primaria del comportamento di quegli ufficiali era da attribuire proprio agli ordini ricevuti da Kappler, nei quali si raccomandava unicamente la ‘massima rapidità di esecuzione’ senza alcun accenno alla necessità di evitare ‘errori fatali’. Pertanto. in base alle norme contenute nel codice penale militare del tempo, la responsabilità primaria delle conseguenze scaturite dalla incompletezza di tali ordini è stata attribuita allo stesso Kappler

    - a riprova di quanto ora affermato, la sentenza stabilisce infine che non dovevasi procedere nei confronti sia del capitano Schutz, sia del capitano Priebke

    A ribadire ancora di più il fatto che, a meno di nuovi e significativi riscontri che rimettessero tutto in discussione, nessuna accusa poteva essere mossa e tantomeno nessun processo essere allestito contro il capitano Erik Priebke, vi è la parte conclusiva del dispositivo di sentenza, nella quale si stabilisce la sola ed unica motivazione di condanna all’ergastolo per Herbert Kappler, ossia l’aver portato, di sua iniziativa e senza autorizzazione, da 320 a 330 il numero di persone da fucilare per rappresaglia, e la non punibilità, poichè il fatto non costituisce reato, di tutti gli ufficiali e sottufficiali a lui sottoposti [sempre mio il corsivo]:

    ’...stabilito che dagli elementi emersi è dubbio se il Kappler abbia avuto coscienza e volontà di ubbidire ad un ordine illegittimo, quale era quello datogli per la fucilazione di 320 persone, ed accertata la responsabilità di questo imputato relativamente ai quindici omicidi, occorre esaminare la posizione degli altri imputati. Costoro ricevettero ordine dal Kappler di partecipare alla fucilazione di 320 italiani (dich. Kappler, vol. VII f. 28) in conseguenza dell'attentato di via Rasella ed in relazione ad un ordine che a lui era stato dato da un'autorità superiore, che alcuni ritennero, in base alle parole non chiare di quello, fosse il maresciallo Kesselring, altri capirono essere il generale Maeltzer. Alcuni di questi imputati, sebbene avessero presenziato alle prime indagini sul luogo dell'attentato, come il Domizlaff ed il Clemens, ovvero avessero collaborato con il Kappler nella compilazione delle liste, come il Quap, non erano a conoscenza di tutti gli elementi di fatto noti al loro superiore e tanto meno del contenuto dei colloqui che questi aveva avuto con le autorità superiori. Altri, come lo Schutz ed il Wiedner, non avevano svolta alcuna attività in merito all'attentato, ma erano stati riuniti qualche ora prima dell'esecuzione e ricevere l'ordine di partecipare a questa e quindi, assieme agli altri erano stati condotti alle Cave Ardeatine. Questi imputati non sapevano che dieci persone venivano fatte fucilare dal Kappler al di fuori dell'ordine ricevuto né intervenivano in quella attività che doveva determinare per errore, come si è visto, la morte di cinque persone. Sulla base di questi elementi, considerato che gli imputati appartenevano ad un'organizzazione dalla disciplina rigidissima, dove assai facilmente si acquistava un abito mentale portato alla obbedienza pronta, tenuto presente che il timore di una denunzia ai Tribunali Militari delle SS quanto mai rigidi ed ossequienti ai voleri di Himmler non poteva non diminuire la loro libertà di giudizio, valutata infine la circostanza che gli altri imputati erano ignari della esatta situazione che portava alla fucilazione delle cave Ardeatine mentre erano a conoscenza che gli ordini aventi lo stesso contenuto di quello ad essi impartito dal Kappler stesso erano stati eseguiti in zone d'operazioni, il Collegio ritiene debba escludersi che essi avessero coscienza e volontà di eseguire un ordine illegittimo. Il dubbio sulla colpevolezza, relativamente alla fucilazione di 320 persone, sussiste nei confronti del Kappler che ha potuto avere una tenue libertà di giudizio stante la conoscenza dei fatti inerenti all'attentato, non sussiste per l'esecuzione in genere relativamente a questi, che furono chiamati all'ultimo momento ad eseguire un ordine e non seppero che il numero delle vittime, dopo l'ordine ricevuto, era aumentato. Essi, pertanto, vanno assolti dal reato loro ascritto in rubrica per avere agito nell'esecuzione di un ordine...’

    Per quanto riguarda il processo del 1948, questo è tutto.

    --------------

    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

 

 
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