Oppure lo è solo quando giudici e PM sono dichiaratamente schierati con la sinstra? Per gli altri libertà di critica al limite della calunnia.
Le ambiguità del Procuratore
Giuseppe D'Avanzo
CHI ha alzato la cornetta del telefono per primo? Il procuratore di Napoli, Agostino Cordova, o il vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini? L'interrogativo ha qualche interessante succo da dare. Per mostrarne il valore, bisogna prima liberarsi dalla nebbia dell'ipocrisia. Non è la telefonata che suscita scandalo. Da un parte del filo c'è il governo. Il vicepresidente ha appreso che sei agenti e due funzionari di polizia sono stati arrestati per aver picchiato e abusato di 83 cittadini inermi, ai quali le forze di polizia non contestano in quel momento né contesteranno in seguito alcuna responsabilità o illecito. Fini ha già avventatamente preso posizione difendendo le ragioni dei poliziotti senza conoscere o approfondire i fatti, sollecitando - mentre infuria l'ammutinamento della Questura di Napoli - un pericoloso conflitto istituzionale tra gli apparati della sicurezza e la magistratura.
Ha chiamato il vicepremier per spiegargli la gravità del caso? O per prendere le distanze dai suoi sostituti? Il Csm gli ha attribuito la tendenza all'inquisitio generalis. E sono tante le sue catastrofi processuali. Ipotizziamo: il giorno dopo, ravveduto o anche preoccupato di quel che ha detto o gli hanno consigliato di dire, Fini può aver voluto accertare personalmente qualche dettaglio. Da chi informarsi in modo attendibile se non dal procuratore di Napoli? Capovolgiamo l'ipotesi. Non è stato Fini a telefonare, ma è stato Cordova ad alzare per primo la cornetta. Anche qui dov'è lo scandalo? Sullo sfondo - occorre ancora ricordarlo - c'è la polizia contro la magistratura, tutte le questure d'Italia contro tutte le procure del Paese (il 4 di maggio un irresponsabile sindacato di polizia circonderà per protesta i palazzi di Giustizia).
In questa pericolosa deriva della nostra democrazia, il procuratore di Napoli ascolta il vicepresidente del Consiglio difendere a occhi chiusi le ragioni dei poliziotti e criticare per traverso la magistratura. "Sarebbe gravissimo - dice Fini - se quei provvedimenti di arresto non avessero riscontro...". Immaginiamo che il procuratore di Napoli dica a se stesso: "È gravissima anche la violazione dell'habeas corpus di cui abbiamo traccia nell'inchiesta..."[bb] , e si convinca che, per evitare di aggravare la congiuntura già grave di un conflitto istituzionale, sia doveroso informare il governo dell'obbligo e della serenità dell'indagine; come è ovvio, senza sprecare dettagli riservati o particolari investigativi. Mossa responsabile, si potrebbe concludere.
Quindi, non è la telefonata lo scandalo. Lo scandalo - se scandalo c'è - può essere in quel che si è detto nella telefonata. Che si sono detti allora nella telefonata Fini e Cordova? Gianfranco Fini sembra rifiutare ogni responsabilità. Lascia intendere ("Le telefonate si fanno e si ricevono") che l'iniziativa di alzare la cornetta è stata di Cordova. Fini è un uomo d'onore e appare uomo e politico che assume la franca responsabilità dei suoi comportamenti. Concludiamo allora che la telefonata l'abbia fatta il procuratore di Napoli e adeguiamo la domanda: che cosa ha detto Cordova a Fini? Tre ipotesi. La prima s'è già affrontata. Cordova chiama Fini per informarlo della gravità dei fatti di Napoli. Svelare il contenuto della comunicazione non metterebbe in imbarazzo nessuno, tranne gli ipocriti. Quest'imbarazzo c'è. L'ipotesi va esclusa.
Restano le altre due. Che sono queste: Cordova chiama Fini per prendere le distanze dai suoi sostituti, magari dipingendo l'inchiesta come una manovra politica delle "toghe rosse"; Cordova chiama Fini per difendere il lavoro dei suoi e la coesione dell'ufficio. Il nodo non si sa come scioglierlo perché Agostino Cordova ha tre passioni robuste a cui cede volentieri. L'inquisitio generalis, innanzi tutto (la definizione è della X sezione del Csm). Prigioniero di una quadro culturale pessimistico (l'homo vesuvianus nasce colpevole), Cordova è convinto di vivere in un mondo infetto. Basta dunque scavare in un punto qualsiasi per veder affiorare il male. Tutti possono essere colpevoli. Poliziotti, carabinieri, finanzieri, impiegati del Palazzo di Giustizia, avvocati, magistrati, farmacisti, giornalisti, iscritti al Rotary e ai Lions, imprenditori, politici, pubblici amministratori, sindaco di Napoli e presidente di Regione, preti, vescovi, fattorini d'autobus e vigili urbani. "La radicata tendenza a trasformare meccanicamente l'illegittimità o l'anomalia amministrativa degli atti e delle procedure in illiceità penale" (sentenza della Cassazione) non gli ha portato fortuna. Non si contano le catastrofi processuali.
In un libro bianco (colpevolmente insabbiato cinque anni fa dal Csm), gli avvocati di Napoli rivelarono che per ogni richiesta di arresto avanzata dalla procura di Cordova, quattro sono statisticamente bocciate dal giudice. Curiosamente, la passione di Cordova per l'inquisitio generalis senza esiti processuali non ha mai sollevato le alte grida dei nostri garantisti à la carte. La ragione è nella seconda passione di Cordova. Furbissimo e scaltro, Cordova - anche se ama rappresentare se stesso come un indomito cavaliere che affronta solitario il mondo della corruzione - preferisce che la politica gli tenga la mano sulla spalla. Ieri, fu la sinistra (politica e togata) che lo appoggiò contro Giovanni Falcone nella candidatura alla Procura nazionale antimafia e nel contentino della Procura di Napoli.
Giunto alla falde del corrotto Vesuvio, la mano cambiò. Divenne quella della destra. Agostino Cordova tormentava, senza costrutto (purtroppo per lui) l'amministrazione di Bassolino "il rosso", e tanto bastava al centro-destra per non vedere le sconfitte incassate dal procuratore. Che intanto si circondava di toghe che avrebbero poi guadagnato uno scranno parlamentare nelle liste di An (Nicola Miraglia Del Giudice, Paolo Ambrosio, Luigi Bobbio), una responsabilità nel ministero di Giustizia di Roberto Castelli (Alfonso Papa, Arcibaldo Miller, Alfonso Barbarano, Luciano D'Angelo, Ugo Riccardi), in decisive commissioni parlamentari come l'Antimafia (Giovanni Russo). Naturalmente la passione discreta per l'attenzione politica, alla bisogna trasmutabile, impone una terza passione o virtù, chiamatela come volete: l'ambiguità. Mai scandire una parola nitida o inequivoca. Mai lasciarsi definire o imprigionare in una responsabilità diretta.
Molti ritengono che la distanza che Cordova scava tra sé e i suoi pubblici ministeri sia conseguenza di un carattere scontroso e di una diffidenza cromosomica. Può essere, ma c'è un'altra spiegazione possibile: quella distanza gli consente di non assumere in pieno le responsabilità dirette. Se necessario, di muovere un passo laterale e conservare libere le sue mosse. Ecco allora perché è difficile sciogliere il nodo se Cordova approvi o disapprovi il lavoro dei pubblici ministeri che hanno chiesto l'arresto dei poliziotti. Il Tg5 glielo ha chiesto: perché non ha firmato la richiesta d'arresto? "Non posso rispondere - ha opposto il procuratore - in quanto si tratta di dati concernenti il procedimento ancora in corso e quindi non sarebbe corretto da parte mia rispondere". Per ambiguità, una deliziosa variazione. Buona per i merli. Non c'è nessun segreto istruttorio da rispettare. Cordova non ha mai firmato nessun ordine d'arresto (nemmeno quello che cacciò in galera senza alcun fondamento il prefetto di Roma Giuseppe Romano).
Avrebbe potuto firmare l'arresto dei poliziotti di Napoli soltanto se avesse avocato a sé l'inchiesta insoddisfatto o preoccupato delle iniziative dei suoi collaboratori. Non l'ha fatto perché evidentemente non era né insoddisfatto né preoccupato. Ma allora perché non lo dice pubblicamente, come ha promesso ai suoi pm? Non lo dice infatti. Anzi, ambiguamente suggerisce in Porta a Porta: "Se gli organi istituzionali vorranno conoscere questa vicenda io sono a disposizione". Deliziosa variazione che insinua una qualche opacità nella vicenda. Ma allora, perché il Procuratore autonomamente non la svela secondo le regole? Pare soltanto una maligna idea suggerire che forse la risposta la conosce Gianfranco Fini. Senza dubbio, più accettabile l'idea di concludere così: Agostino Cordova o dell'ambiguità furbissima.
la Repubblica del 30/04/2002
E, tra l'altro, quale è una delle colpe peggiori attribuite a Cordova? Quella di aver veduto tre delle sue inchieste su quattro cadere nel nulla.
Ma D'avanzo ha mai fato il conto di quante sono invece le accuse di Borrelli e compagnia finite in una bolla di sapone?
Come al solito due pesi due misure....bell'esempio di giornalismo.