Egregio dott. Galimberti,
ho appena letto la lettera di Enrica Mascoli e la Sua risposta e non so
perché mi è venuto in mente di definire un qualche concetto di "normalità".
La nostra società, tutti i nostri parametri cognitivi si basano, che lo si
voglia o no, che lo si confessi o meno, su un concetto "standard" di
normalità: alzarsi tutte le mattine, fare colazione, provvedere all'igiene
personale, prendere l'auto o i mezzi pubblici, andare al lavoro, parlare coi
colleghi, coi collaboratori o coi compagni, svolgere il nostro compito per
cui si viene retribuiti, pranzare in qualche modo, ricominciare e/o a
seconda degli orari, tornare a casa. Riposino? TV? Spesa? Moglie e/o marito
cui dedicare qualche affettuosità e/o qualche parola e riceverne, forse, in
cambio altrettanti e così valga per eventuali figli. TV, Cena e/o viceversa.
A letto a riposarsi o ad esplicare quelle attività che la fisiologia e/o
l'amore e/o l'affetto e/o il dovere ci impongono. Domani è un'altro giorno.
Beh questo è o non è il paradigma ideale della normalità?
Mi ricordo una bellissima posesia che Vittorio Gassman recitava parecchi
anni fa. Mi pare che avesse per titolo "Non vorrei crepare". Mi ricordo un
verso "le voraci scimmie dal sedere nudo" che faceva parte di un lungo
elenco di cosa da poter provare e vedere prima di tirare le cuoia. Ed era
un'elenco che prescindeva totalmente dal nostro "ordinario" concetto di
"normalità". Che fosse un desiderio di follia e di fuga da un simile orrore
quotidiano?
La ringrazio per la cortese eventuale attenzione e La saluto cordialmente.