ROVERETO. Il suo nome è nella lista dei carnefici "rossi" che si macchiarono di orrendi crimini sul confine jugoslavo alla fine della seconda guerra mondiale. Nerino Gobbo, conosciuto come "comandante Gino", nacque a Rovereto 80 anni fa ma in città è pressoché sconosciuto. A riportare quel nome alla memoria è stata un'inchiesta di "Libero", il giornale di Feltri, che ieri ha riesumato gli scheletri nascosti negli armadi dei partigiani. Accusando lo Stato di dare la caccia solo ai boia nazisti come Seifert.
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ROVERETO. Il suo nome è nella lista dei carnefici "rossi" che si macchiarono di orrendi crimini sul confine jugoslavo alla fine della seconda guerra mondiale. Nerino Gobbo, conosciuto come "comandante Gino", nacque a Rovereto 80 anni fa ma in città è pressoché sconosciuto. A riportare quel nome alla memoria è stata un'inchiesta di "Libero", il giornale di Feltri, che ieri ha riesumato gli scheletri nascosti negli armadi dei partigiani. Accusando lo Stato di dare la caccia solo ai boia nazisti come Seifert.
Gobbo ricopriva l'incarico di commissario del popolo delle milizie di Tito, che con il IX Corpus avevano occupato il capoluogo giuliano il primo maggio 1945. Fino a metà giugno fu responsabile di Villa Segré di Trieste, luogo di tortura gestito dai titini.
Era anche a capo della cosiddetta "squadra volante", un gruppo dedito a infoibamenti e torture.
Dopo la denuncia alle autorità alleate, riportata negli annali del Comitato di liberazione nazionale dell'Istria, fu condannato in contumacia dalla Corte d'Assise di Trieste a 26 anni di reclusione.
"Come risultò dalle deposizioni - scrivevano i giudici nel 1948, all'epoca della sentenza - tutti i detenuti venivano bastonati e seviziati, taluni costretti a bastonarsi a vicenda e persino a mettere la testa nel secchio delle feci".
Oggi il comandante Gino vive in Slovenia - denuncia "Libero" - dove percepisce pure la pensione erogata dallo Stato italiano, che gli fu riconosciuta negli Anni Ottanta.
Sconosciuto a Rovereto, Gobbo è ben noto a Trieste. Galliano Fogar, segretario dell'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione, ne traccia un quadro molto dettagliato. «Nel periodo dell'occupazione tedesca faceva parte dei "Gap", i gruppi di azione partigiana. Questi sorsero dopo l'8 settembre e avevano tra i loro compiti principali missioni di sabotaggio e di eliminazione degli avversari, soprattutto nelle città ma anche in campagna. Subentrata l'amministrazione jugoslava Gobbo entrò a far parte della "Difesa popolare", una polizia che doveva compiere operazioni repressive e di indagine nei confronti di persone e gruppi contrari all'annessione alla Jugoslavia od oppositori del regime comunista».
Ma quali furono i crimini di cui il "comandante Gino" dovette rispondere davanti alla Corte d'Assise di Trieste? «Lui comandava un settore di questa polizia. Fu accusato di avere lasciato mano libera alla squadra che si rese tristemente famosa per carcerazioni arbitrarie e torture eseguite a Villa Segrè. Sulla base di denunce generiche di antijugoslavismo e fascismo, raccolte senza compiere indagini serie, questa banda si era arrogata il diritto di vita e di morte. E Gobbo, pur non essendo direttamente coinvolto nelle sevizie, era il comandante del settore in cui operavano i seviziatori. Poi finì che la squadra fu perseguita dagli stessi jugoslavi. In un articolo pubblicato nel 1945 da "Il Nostro Avvenire", il giornale in lingua italiana che sosteneva l'annessione alla Jugoslavia, fu scritto che tra i membri vi erano criminali comuni ma anche ex fascisti ed ex Decima Mas. Uno di loro fu ucciso, non so in che circostanze, altri tagliarono la corda».
Ora Gobbo vive in Slovenia. «Sì, da parte jugoslavia gli fu imputato di aver lasciato troppa briglia sciolta alla sua squadra. Ma a livello non ufficiale. Non vi fu nessuna indagine nei suoi confronti».
E la pensione? «Certo che non è giusto che la percepisca. Ma questi sono i paradossi di una zona di frontiera. Tra i partigiani, chi aveva maturato un certo numero di anni di lavoro o per ragioni combattentistiche ne aveva diritto. Questioni politiche su cui se ne innestavano altre di tipo burocratico».

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