STATI UNITI

Il rabbino americano , fondatore di Tikkun, una organizzazione progressista pro-Israele, denuncia la campagna «maccartista» in corso contro gli ebrei che sollavano dubbi sulla politica immorale e autodistruttiva di Sharon.

«Oggi essere pro-Israele vuol dire spingere per la fine dell'occupazione»


MICHAEL LERNER*

Ogni giorno ricevo telefonate, e-mail e lettere angosciate da membri della mia congregazione e da altri che sono stati etichettati come «ebrei che odiano se stessi». Il motivo? Aver sollevato interrogativi sulla politica di Israele nei confronti dei palestinesi. C'è qualcosa che ferisce profondamente in quel termine e nel modo in cui la comunità ebraica sta trattando chi dissente, qualcosa che ricorda la repressione del maccartismo negli anni `50 e il suo modo di etichettare chi dissentiva come «antiamericano». In America gli ebrei lo sono per scelta. Coloro che desiderano abbandonare la propria religione e l'identità etnica possono farlo agevolmente. Sempre più persone, quando vengono interpellate sulla loro identità etnica o sulla loro religione, rispondono «i miei genitori sono ebrei», non desiderano più sentirsi legati a tale identità. Ma la maggior parte degli ebrei non fanno questa scelta. Sentono una speciale assonanza con la storia e la cultura di un popolo che ha proclamato un messaggio d'amore, di giustizia e di pace mentre altri percorrevano strade di crudeltà e dominazione. Provano orgoglio nell'appartenere ad un popolo che ha insistito sulla possibilità del «tikkun», una parola ebraica che esprime il convincimento che il mondo possa essere fondamentalmente curato e trasformato. Sanno che gli ebrei hanno pagato a caro prezzo questo convincimento e, sebbene siano adirati per l'antisemitismo e credano che nessuno debba sopportare mai più ciò che noi abbiamo sopportato dall'Europa cristiana, sono anche orgogliosi che i valori ebraici ci abbiano impedito di diventare come i nostri oppressori. Nel 1988 un sondaggio di Los Angeles Times rivelava che circa il 50% degli ebrei intervistati identificavano «un impegno verso l'equità sociale» come la caratteristica più importante della loro identità ebraica. Solo il 17% aveva citato un impegno nei confronti di Israele. (...) Nessuna meraviglia, perciò, che questi ebrei americani sensibili alla giustizia sociale si sentano traditi dalla politica di Israele che appare con tutta evidenza immorale e autodistruttiva. Tutti noi siamo sconvolti per gli atti immorali dei terroristi palestinesi che fanno saltare in aria israeliani mentre sono a tavola per il Seder, o fanno compere nei negozi, o siedono al caffè o sono in autobus. Sappiamo che questi atti non possono essere perdonati, comunque siano stati provocati. Ma molti di noi capiscono anche che il modo di trattare i palestinesi da parte di Israele è immorale e offensivo.

Centinaia di migliaia di palestinesi sono fuggiti dalle loro case nel 1948, e la recente ricerca storica israeliana ha dimostrato che quasi tutti scapparono non per rispondere all'appello dei leader arabi, ma perché erano terrorizzati dagli atti di violenza dei terroristi israeliani di destra, o perché furono cacciati fisicamente dalle loro case dall'esercito israeliano. (...) I profughi palestinesi e le loro famiglie adesso sono oltre 3 milioni, e molti vivono in condizioni orribili in campi profughi che ricadono sotto il comando militare israeliano. Nonostante le promesse di Israele, fatte nel 1993 a Oslo, di porre fine alla sua occupazione dei territori palestinesi entro il 4 maggio 1999, la direzione intrapresa da Israele è stata in realtà opposta. Dopo che un israeliano di destra assassinò il primo ministro Yitzhak Rabin, un uomo di pace, Israele ha di fatto aumentato il numero dei coloni in Cisgiordania, portandoli da circa 120.000 nel 1993 a circa 200.000 quando il premier israeliano Ehud Barak incontrò il presidente dell'autorità palestinese Yasser Arafat a Camp David. E sebbene i media israeliani e statunitensi abbiano fabbricato il mito che l'offerta fatta ai palestinesi fosse «il meglio che potessero aspettarsi», e che dunque il loro rifiuto dimostrasse che essi non volevano niente meno che la completa distruzione di Israele, i fatti rivelano una storia piuttosto diversa. Non solo Barak offrì ad Arafat meno di quanto non gli fosse stato offerto nel 1993, ma rifiutò di fornire alcunché a titolo di riparazione o di risarcimento per i profughi. All'opposto, insisté perché Arafat firmasse una dichiarazione in base alla quale le condizioni offerte da Barak avrebbero messo fine a qualunque pretesa da parte del popolo palestinese nei confronti di Israele e avrebbe costituito la risoluzione di tutte le questioni in discussione. Nessun leader palestinese avrebbe potuto firmare quell'accordo ignorando le esigenze dei profughi. Sebbene si ritenga generalmente che i negoziati siano terminati lì, in effetti essi sono continuati a Taba finché l'elezione di Ariel Sharon non ha messo fine al processo che, secondo l'allora ministro della giustizia Yossi Beilin (come ha scritto recentemente sul New York Times), era molto vicino al raggiungimento di un accordo tra i due popoli.

Sharon non voleva l'accordo perché si era sempre opposto a qualunque intesa che potesse comportare l'abbandono degli insediamenti in Cisgiordania, che lui aveva contribuito a costruire negli anni '80 (...) Con il pretesto di rispondere agli atti di terrorismo (totalmente immorali e inaccettabili) di alcuni palestinesi, Sharon ha recentemente intrapreso la distruzione delle istituzioni della società palestinese, e lo ha fatto brutalmente, con grande danno per molti civili. Nessuna meraviglia, perciò, che molti ebrei si siano sentiti profondamente sconvolti dalla politica di Israele. Da una parte, essi si rendono conto che tale politica sta portando a una spaventosa ondata di antisemitismo. Dall'altra, capiscono che questa non sta dando sicurezza a Israele ma al contrario sta creando nuove generazioni di futuri terroristi e convincendo il mondo che Israele ha perso la sua bussola morale.

Eppure molti ebrei e non sono stati intimiditi dalla campagna lanciata in nome della «political correctness» israeliana. Sotto la spinta dell'Aipac (American Israel Public Affairs Committee) e di altre istituzioni ebraiche, coloro che criticano Israele vengono etichettati come «persone che odiano se stesse» se sono ebrei, o come antisemiti se non lo sono. (...) Molti rabbini e professionisti mi hanno detto recentemente di temere per il loro lavoro, se dovessero esprimere i loro dubbi sulla politica di Israele - per non parlare di sostenere esplicitamente le richieste di porre fine all'occupazione. Tuttavia, lungi dall'odiare se stessi, gli ebrei affermano i valori più alti della loro cultura e della loro religione quando concludono che essere pro-israeliani oggi significa spingere Israele a terminare l'occupazione e spezzare la spirale di violenza da entrambe le parti. Molti ebrei americani capiscono il bisogno nel mondo di oggi di abbandonare lo sciovinismo e l'insistenza sul carattere «speciale» degli ebrei. Noi dobbiamo affermare invece quella parte della tradizione ebraica che ci porta a saper riconoscere lo spirito di Dio in ogni essere umano sul pianeta, e a riconoscere che la nostra sicurezza verrà non da maggiori armamenti per Israele, bensì da più amore e dalla vicinanza tra il popolo ebraico e tutti gli altri popoli. Non c'è un cammino verso la sicurezza degli ebrei che non ci conduca anche alla sicurezza globale per tutti i popoli. (...) Gli orrori dell'Olocausto continuano a riapparire. Ma se permetteremo che la paura dia forma alle nostre attuali percezioni, ricreeremo lo stessomondo dell'antagonismo verso gli ebrei che temevamo - e questo darebbe ad Adolf Hitler una vittoria postuma. La migliore risposta all'odio del passato è la ricerca di un percorso che affermi l'amore, la giustizia e la pace, e respinga i «realisti» secondo cui la nostra sola sicurezza riposerebbe sulla dominazione militare nei confronti del popolo palestinese. E' tempo che gli Usa sponsorizzino una forza multilaterale che separi fisicamente e protegga Israele e la Palestina l'uno dall'altra, e che poi promuovano una conferenza internazionale per imporre un accordo definitivo. L'accordo deve contemplare la fine dell'occupazione, l'evacuazione degli insediamenti, i risarcimenti per i profughi palestinesi (e anche per gli ebrei che fuggirono dalle terre arabe), il riconoscimento di Israele da parte degli stati arabi che lo circondano e la fine di tutti gli atti di terrore e di violenza. Questo è l'obiettivo per migliaia di ebrei americani e per i nostri alleati non ebrei - che recentemente hanno formato la comunità Tikkun - un'organizzazione progressista pro-Israele. Non volendo essere considerati traditori e non essendo più sicuri che valga la pena di preservare l'ebraicità se questo significa l'ebraicità di Sharon, ci siamo riuniti perché non vogliamo permettere che la nostra cultura e la nostra religione perdano il loro messaggio profetico di generosità, compassione e bontà di cuore. («Tu amerai lo straniero»). Nessuna sorpresa che alcuni ebrei ci abbiano salutati con il loro mantra favorito: voi siete ebrei che odiano se stessi.

* Rabbino, direttore di Tikkun e autore di "Spirit Matters"