dal libro"Bossi e la rivoluzione tradita"
COSA C’E’ NELLA TESTA DEL POPOLO DI BOSSI E NEL POPOLO DEL NORD

E’ difficile fare un quadro generale della mentalità leghista perché é sicuramente molto più articolata e complessa di quanto i mass media hanno sempre sentenziato. Il leghismo é stato descritto da sempre come una summa di razzismo, localismo, grettezza, attaccamento patologico ai propri interessi e ai propri privilegi economici, e per sottofondo una generale ignoranza. Gli intellettuali progressisti hanno riempito pagine e pagine con questa loro analisi superficiale e, come é nella loro indole, faziosa.
La realtà che ho conosciuto in prima persona é ben diversa, meno schematica, più caotica. La Lega Lombarda fece la sua fortuna essenzialmente nella guerra contro la tassazione da usura che lo Stato pratica dalla notte dei tempi: per vessare qualcuno con le imposte é indispensabile che costui lavori e produca, accumuli reddito e benessere, altrimenti non si può imporgli tasse su una ricchezza che egli dichiara di non avere. E’ indispensabile anche che le sue entrate derivino da lavoro lecito, controllabile, quantificabile: in tale condizione rientra oltre il 90% dei cittadini del Nord.
La rivolta contro questo sistema si fondava (e si fonda) sul fatto che lo Stato pretende buona parte del frutto del tuo lavoro e in cambio ti da servizi, strutture e infrastrutture fatiscenti, un’amministrazione da Repubblica Centroafricana. Inoltre i Lumbard ponevano l’accento sui “terroni”: luoghi comuni, e non, vedevano i meridionali come un ammasso di statali, politici, politicanti e mantenuti d’ogni specie. Dico luoghi comuni, e non, perché sfido chiunque dotato di un briciolo di onestà intellettuale a negare che l’ amministrazione pubblica o i posti di lavoro statali e parastatali sono appannaggio (sulla base delle leggi vigenti per tali concorsi) quasi esclusivo dei cittadini meridionali. Per la mentalità padana, su tale questione molto calvinista, lo statale non produce ricchezza, lavora il meno possibile, in ogni caso lo stipendio a fine mese lo prende, e alla società costa e basta. Se ben si guarda la realtà quotidiana dell’ Italia dei servizi pubblici, ci si accorge che tutto ciò non é una semplice massimalizzazione.
E’ chiaro che da queste premesse non può che derivarne il campanilismo, o razzismo come preferisce chiamarlo la cultura imperante. Allora ecco subentrare la visione della vita di un leghista: perché razzismo? Il razzismo implica la segregazione, l’esclusione sociale di una categoria di persone. Come può esserci un’esclusione in una realtà sociale come quella padana, dove meridionale é il prefetto, il capo dei vigili urbani, il magistrato, il giudice, il giornalista, la soubrette tette al vento della TV , il centroavanti della squadra del cuore, l’ultimo impiegato dell’ufficio postale dell’ultimo paese del bellunese? Campanilismo, certo, non possono togliergli anche quello: se al bar il leghista preferisce avere come compagno di una partita a carte o come moroso della figlia qualcuno del quale condivide mentalità, usi, costumi e lingua, é un umana aspirazione, e sotto molti punti di vista, anche una sorta di legittima difesa.
Punto cardine é il rifiuto del massimalismo sinistroide che vorrebbe una società globale dove le diversità devono essere radicalmente negate; il loro credo é che non bisogna cercare di articolare le differenze quanto più armoniosamente é possibile, ma bisogna annullarle. E’ il mito del sangue misto, del meticcio, della società senza classi, senza razze e ultimamente, visto l’afflusso incontrollato di immigrati, il mito del “buon selvaggio” rivisitato e banalizzato sino al parossismo.
Il leghista invece ha dei valori più semplici ma certamente più tangibili, come il lavoro, l’onestà e, perché no, il benessere. L’etica del lavoro é un metro molto più umano, più vicino alla realtà della vita vera, quella vissuta, non come quella di chi considera lavoro lo stare ad una scrivania a pensare come il mondo dovrebbe essere, come dovrebbe funzionare.
E’ pur vero che nel popolo di Bossi esiste un sostrato che può essere chiamato di sinistra: ma é una sinistra operaia che non crede più alle farneticazioni internazionaliste di Marx e dei suoi vari adepti, una sinistra a cui la fabbrica, l’impresa ha insegnato che il guadagno ottenuto con il proprio sudore é un merito, é un valore positivo, non un furto ai danni dei proletari del Salvador o della Corea. E’ una sinistra che si é fatta realista e pragmatica, una volta tanto imperniata sul principio di “quel che é mio é mio”, punto e basta, visto che me lo sono guadagnato. Una sinistra che non blatera più di mondialismo e anticapitalismo con lo schematismo storico di dinosauri della Storia quali Trotzkji o Lenin. ll mondo cambia, muta in continuazione e, sopratutto, é qui e ora. Sono quei leghisti che hanno lavorato 20 anni da impiegati o operai e che hanno una dannata paura che tra 15 anni la loro pensione se la sia bruciata lo Stato per mantenere la miriade di parassiti che lo compongono. Sono quei milioni di padani che sudano freddo al pensiero che andranno in pensione al pari di altri milioni di meridionali che però hanno versato 1/4 dei loro contributi o sono stati per 30 anni in cassa integrazione. Ci saranno soldi per tutti? La Lega glielo ha già detto, ma anche la matematica: no. Bisogna allora abbattere l’attuale sistema pensionistico e ciò vuol dire, in primis, ad esempio, mettere fine al sistema dei vasi comunicanti che vige tra le casse dell’INPS delle varie regioni. E questa é già secessione, ognuno pensa per sé, ognuno può contare solo sulle proprie forze. Costoro sono tutte persone che vengono dalla sinistra, culturalmente e ideologicamente cresciute con le lotte sindacali, con le rivendicazioni sociali ma che ad un certo punto si sono accorte che non c’é fede proletaria che tenga difronte ad una vita di scippi, una rapina permanente camuffata dietro la trita e ritrita scusa di andare incontro ai più sfortunati. Per dirla in modo più diretto e crudo, come avrebbe fatto il Bossi di 7 o 8 anni fa, essi sono quel Nord di impiegati e operai che si sono rotti i coglioni di dover con i loro soldi appianare la differenze che il Sud crea consumando quattro volte quello che produce; ergo se produci come un vietnamita fai la vita di un vietnamita, non di un belga. Liberismo? no, direi piuttosto giustizia distributiva.
Questo argomento meriterebbe ben più profonda analisi, cosa che a suo tempo la Lega Nord ha fatto, ma comunque si arriverebbe sempre allo stesso risultato: la classe lavoratrice dipendente della Padania se vuole affrancarsi dal latrocinio di Roma, si chiami esso trattenute salariali, sindacati, stato sociale l’unica strada é tagliare i ponti con il sistema Italia e adottarne uno tutto nuovo in cui la solidarietà viene sostituita senza mezzi termini o bizantine e capziose formulazioni con il principio di sussidiarietà. Queste era la propaganda leghista che in “gabina” elettorale ha sempre pagato meglio; i manifesti erano semplicemente: “Basta Roma, basta tasse”, “Via da Roma, secessione”. E lì la Lega vinceva nelle fabbriche del Nord, proponendo un liberismo che in realtà era solo l’ idea di un’ altra entità statuale che avrebbe applicato il sistema sociale italiano la differenza radicale e risolutiva stava nel fatto che in una macroregione con il PIL della Grecia puoi mantenere qualunque tipo di stato sociale senza scontentare nessuno. Egoismo? Da noi si chiama legittima difesa. Se poi alla base di quanto detto e descritto ci aggiungiamo una coscienza nazionale pressoché inesistente, un amore patrio mai sbocciato e una lotta di classe che già era poco convinta ai tempi di Autonomia Operaia, ecco che viene fuori il “Leghismo di sinistra”.
Il movimento operaio come lo intende la sinistra marxista per esistere ha bisogno di un fattore essenziale, irrinunciabile: la miseria generalizzata di suddetta classe, uno sfruttamento da dittatura guatemalteca, un trattamento sociale ottocentesco; solo così una classe resta unita e fedele ad un’ ideologia nel nome della propria liberazione dalle catene del bisogno. Ma se vive in una realtà evoluta e avanzata come quella padana ognuno procede solo per aumentare il già più che soddisfacente consumo di beni. Lotte chiave restano i diritti pensionistici e il diritto al posto di lavoro, ma in un Nord indipendente verrebbero risolte da una disponibilità pubblica di denaro a livelli certamente superiori anche a quelli dei paesi scandinavi. La ricchezza diventa la panacea per risolvere le questioni sociali: sarà cinico, poco poetico, poco progressista ma é così. E se nelle fabbriche di Meda o di Mestre quelli a cui non importa sinceramente niente né di Marcos o dei Tupamaros o delle ripercussioni del G8 sulla realtà socioeconomica della Nigeria sono sempre di più non é colpa di Bossi o della grettezza della sua politica, é un dato incontrovertibile di una società che deve pensare a garantirsi una vecchiaia decorosa e con un benessere proporzionato alle fatiche profuse per una vita intera, che vuole pensare a lasciare ai propri figli quanto più gli é, legittimamente, possibile in termini di benessere. Costoro sono quelli che la vita l’ hanno spesa in un ufficio, in una piccola-media impresa, in uno studio d’ avvocato o di medico, in un capannone ad incollare pellame, in un allevamento di vacche, a fare pulizie di pianerottoli e rampe di scale condominiali.
Costoro sono quelli che non hanno rinnegato un passato di sinistra ma rinnegano questa sinistra e pure quella di domani perché sanno totalmente incapace di superare impostazioni ideologiche che fanno a pugni con la vita di tutti i giorni, con la quotidianità di un dipendente qualunque di Treviso o di Alessandria. Costoro i piedi li hanno talmente piantati per terra che quando vedono le contestazioni di Genova per il G8 rimangono tra l’attonito e lo sconsolato. Basta entrare in un bar di Venezia e chiedere agli avventori cosa ne pensano dei Centri Sociali o di Casarini: otto volte su dieci ci si sentirà rispondere: “Devono andare a lavorare”. Altra panacea escogitata dal Nord per rinfrescare i bollori dei contestatori di professione: andare a lavorare. Certamente dopo otto-dieci ore ad una scrivania o su un muletto passa la voglia di bruciare la residenza dell’imperial-capitalista Benetton; ci si rende conto che con Che Guevara e Bertinotti non si pagano più facilmente le rate del mutuo sulla casa o l’assicurazione sugli infortuni. Per questo quando sentono i famosi slogans del Carroccio “Paga e tasi, muso del Nord!”(paga e taci, somaro del Nord) o il vecchio, ma ormai simbolo di un’ epoca, “ Eto votà Dc? Alora aeso paga e tasi!”(hai votato Dc? Allora adesso paga e taci!), sentono nascergli dal profondo del cuore il rifiuto e il disprezzo per chi ancora si ostina a parlare di solidarietà per il Meridione arretrato e attanagliato dalla disoccupazione.
E’ vero, la Lega Nord é entrata nei cuori di molti cittadini passando attraverso il loro portafogli; non vi é nulla da vergognarsi nell’ammetterlo perché in tale processo è stata intellettualmente molto più corretta degli altri venditori di utopie e di socialismi reali. E in fondo é più umano innamorarsi di una bionda tutta curve che parla poco e ti concede quello che mamma natura gli ha dato, piuttosto che tirarsi appresso una megera zoppa e con un occhio di vetro che ti parla solo di miserie e disgrazie: e così infatti se stavi con Bossi & Co. potevi sperare di tenerti i tuoi soldi, se andavi con i compagni progressisti dovevi rassegnarti a dover pagare per chi non lo poteva fare fino a quando la giustizia sociale non avesse rischiarato le tenebre dell’ egoismo capitalista. Direi che anche per uno che ha fatto il ‘68 sulle barricate ma che poi ha fatto il ‘70, l’ ‘80 e il ‘90 in fila agli sportelli dell’ erario per consegnare i 740, la scelta non era poi difficile. Se poi fosse stato amore vero, solo il tempo l’ avrebbe detto. Per alcuni fu solo una fugace infatuazione, per altri una speranza che vive tuttora, tra alti e bassi, tradimenti e mezze conciliazioni, ma resiste. Aveva ragione Max Weber quando, ai primi del ‘900, scriveva: “La sete di lucro, l’aspirazione a guadagnare denaro più che sia possibile, non ha di se stessa nulla in comune col capitalismo. Quest’ aspirazione si ritrova presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatori di bische, i mendicanti; si può dire presso all sorts and conditions of man, in tutte le epoche di tutti i paesi della terra, dove c’ era e c’é la possibilità obiettiva. Dovrebbe ormai entrare nei più rudimentali elementi dell’ educazione storica l’ abbandonare una volta per sempre questa ingenua definizione di capitalismo. Brama immoderata di guadagno non é affatto identica col capitalismo, tanto meno corrisponde allo “spirito” di questo”.
Poi c’é il “Leghismo di destra”, ma è una destra diversa sia da quella Europea sia dall’impostazione ideologica del vecchio Movimento Sociale; é una destra alla Latinoamerica, un po’ peronista e molto giustizialista. Chiede legge e ordine, pene esemplari e senza inutili pietismi per tutti i reati. Non perdona i politici che hanno rubato il denaro pubblico, patteggiando poi con la giustizia pene irrisorie e mantenendo tutti i loro privilegi. Per costoro vorrebbe ripristinare le educative istituzioni medioevali del pubblico ludibrio e della gogna. Odia l’ equivoco e parziale garantismo dello Stato, non crede nella possibilità di riuscire a rieducare stupratori, pedofili, pluriomicidi, mafiosi, spacciatori. E’ convinta che l’attuale sistema giudiziario italiano, i politici, che sono mafiosi o amici dei mafiosi, se lo siano costruito su misura per poterla fare sempre franca. E le cronache di Tangentopoli o i mega processi alla mafia con i loro esiti sembrerebbero in buona parte dar loro ragione. Qualcuno di loro sarebbe d’ accordo anche sull’ introduzione della pena di morte per i crimini più efferati. Sono quelli che hanno un debole per il populismo, per le sentenze sommarie, per la giustizia sociale, per uno Stato implacabile con chi sbaglia. Avevano, ad esempio, un debole per il Fini prima maniera, più che per lo stesso Bossi: aveva per loro più piglio autoritario, incarnava l’angelo sterminatore dei banditi d’ogni risma con la serietà e l’austerità di un antico lord, non di uno sgangherato tribuno della plebe, come a volte appariva il leader della Lega.
Posizioni molto vicine a queste avevano anche quelli più moderati, inquadrabili in un concetto di destra abbastanza fluido, i cui unici punti fermi erano un radicale anticomunismo e un’ educazione cattolica conservatrice. Il polveroso “Dio, patria, famiglia” era sostituito da un meno assoluto “Cultura cattolica, legge e ordine, famiglia”. Della patria italica ne facevano volentieri a meno visto che da sempre, al lato pratico, aveva significato unicamente tributi che lo Stato pretendeva per mantenere i suoi sudditi meno inclini a piegare la schiena. Questa non é altro che la buona borghesia del Nord, l’unica stratificazione sociale della Padania autenticamente liberista, che nelle proposte economiche di Forza Italia, reaganiane e tatcheriane, vedeva il vero cambiamento del paese, per cui ha salutato con incredibile e soddisfatta ostentazione l’asse Bossi-Berlusconi.
In quest’area, almeno fino al 1996, rientrava l’ 80% dell’elettorato democristiano, quello che a tutt’oggi si vergogna ad ammettere di aver votato o di votare Lega Nord. Ma questo non perché non si identificasse con le tesi e lo spirito leghista, ma semplicemente perché per molti anni i mezzi di informazione e spesso gli stessi parroci la domenica nell’omelia gli facevano capire che sì tanta mediocrità d’ animo non si addiceva ad un buon cristiano o ad un cittadino illuminato.
Restava infine quel manipolo che “Duri e puri” lo erano già quando Umberto Bossi forse la Lega Lombarda non l’aveva ancora immaginata: erano e sono quelli che l’Italia la odiano per dato caratteriale, rifiutano i partiti di Roma appunto perché si riconoscono sotto un tricolore che per loro é solo un cencio insignificante, utile nemmeno a coprire le patrie vergogne.
Sono quelli che si ostinano a non voler essere considerati italiani perché la Nazione nata dal referendum del 1866 altro non é che un’invenzione della massoneria meridionalista e protoafricana, un’associazione a delinquere di stampo cialtronesco-mafioso fondata sulla reiterata rapina del lavoro e della buona fede altrui. Costoro sono gli innamorati cronici del fulgido passato di una Repubblica Serenissima che aveva insegnato all’Europa dei piagnistei arabeggianti la civiltà che un’ amministrazione dovrebbe avere. Innamorati pieni di rimpianti per il Nord dei liberi comuni Lombardi e Veneti, nei quali istanze liberali e quello che oggi si chiama, con accento spregiativo, campanilismo, si conciliavano con un senso del progresso e della ricerca di un operoso benessere che nei confini dei loro territori vedevano la stessa logica in base alla quale una casa ha le mura. Sono quelli che hanno il coraggio di dire a gran voce che la mentalità borbonica ha prodotto generazioni e generazioni di parassiti, di menti affette da letargismo cronico, di cittadini eternamente prostrati a ossequiare, servire, obbedire, pietire, omaggiare e quanto altro possa rendere più agevole e veloce l’ottenimento di favori e clientele con la minor fatica possibile. Un atteggiamento che qui in Veneto si traduce nel detto: “Piansar el morto par ciavar el vivo”. Dialetto, o meglio, lingua autoctona, usi, costumi, modi di dire, quel modo di concepire il mondo e la vita intriso dell’antica saggezza degli antenati: ecco il loro orizzonte ideale, il passato che non deve morire, che non tollera le sentenze di intellettuali e politici al soldo di una retorica nazionalista da Basso Impero. Li si riconosce subito perché il loro rifiuto, il loro livore anti-italiano é vero, é sanguigno, é un bisogno dell’anima, uno sfogo imperituro contro un paese visto come la caricatura di una caricatura, come la brutta copia di un romanzo che era brutto già nell’impostazione. Sono quelli che si sono presi la briga di studiarla veramente l’Italia preunitaria e che poi l’hanno paragonata a quella attuale e si sono resi conto, usando il buon senso e una logica priva di padroni o pregiudizi ideologici, che si é passati dalla austera bellezza di stampo teutonico di una Claudia Schiffer al decadente e imbalsamato rachitismo della mummia di Similaun.
C’è in loro una nostalgia ingenua e romantica di un settentrione di celti e di nobili guerrieri, di crociati che liberano Gerusalemme dall’oscurantismo incivile e selvaggio delle orde ottomane; e oggi per di più vedono la loro terra invasa dalla genia direttamente discendente da quelle orde, ma più atroce, più ignorante e molto più pericolosa perché protetta ed esaltata dalla demagogia buonista delle sinistre. Tutti costoro videro in Bossi forse non un vate per un autentico Risorgimento Padano ma almeno l’uomo della rottura ideale con un sistema fondato sul niente, o alla meno peggio, su menzogne travestite da favole per babbei. Bossi aveva il merito incommensurabile di risvegliare le coscienze dal torpore unitario e dalla mitologia zoppa dell’italianità presunta dei popoli padani. Per questo merito sono e saranno quello zoccolo duro della Lega Nord che potrebbe essere scalzato solo dalla comparsa di un nuovo Attila, di un Unno pronto a trasformare il Pò in confine naturale e a popolare le sue acque di squali e barracuda.
Infine c’é quella categoria di persone che non hanno mai avuto una grande passione per la politica e per i suoi attori, la seguivano da lontano facendo fatica spesso a capirne svolte, compromessi, trucchi e trucchetti. Si erano fidati ora di un partito ora di un altro e dopo essere stati gallinati da tutti avevano visto nella chiarezza, nella schiettezza, nei modi popolani e assai distanti dal politichese del Carroccio e dei suoi esponenti forse il più genuino e sincero tentativo di riportare la politica da scienza per iniziati e negromanti a compartecipazione alla costruzione del destino di un popolo alla portata di tutti i cittadini.
Costoro furono colpiti dall’ essenzialità dei programmi, dal linguaggio incarnato nella realtà quotidiana delle botteghe, delle fabbriche, dei bar, della vita comune non dei salotti degli architetti dei massimi sistemi. Per essi andava bene anche la secessione perché erano quelli meno politicizzati, meno rincoglioniti dalle ideologie, meno inebetiti da parate davanti all’Altare della Patria o dalle virate delle Frecce Tricolori, a loro piaceva il dinamismo umano e strutturale che vi era in una proposta del genere; vedevano la separazione del territorio italiano senza i fantasmi della lesa maestà o gli spettri della guerra civile, ma semplicemente come una profondamente umana presa d’atto di una convivenza non riuscita, come un divorzio suggerito e consigliato da un’adulta obiettività e da una maturata saggezza. Senza troppa enfasi, senza pacchiane autoesaltazioni ma l’inizio di un nuovo percorso storico carico di lecite speranze e aspettative, ricco di ritrovate energie vitali e di prospettive attinenti ad un’esistenza concreta, tangibile, non più arroccata nell’iperuranio dell’ astratto che più astratto di così non si poteva.
Come si può ben vedere, esistono all’interno dell’universo leghista un coacervo di mentalità variegate difficilmente riconducibili allo stereotipato minimo comun denominatore dell’antimeridionalismo inteso nel senso becero di semplice razzismo. L’antimeridionalismo resta alla stregua di rifiuto di un modo bizantino e orientaleggiante di concepire la cosa pubblica, lo Stato, il diritto e l’approccio stesso alla vita che é sempre stato endemico non solo nella popolazione meridionale ma anche nella classe politica dell’ultimo Dopoguerra.
La Lega é stata l’unica forza politica ad aver avuto il coraggio di fare proprio questo malessere insito da sempre nella società padana, a ogni i livello e in tutti gli strati di essa: sbaglia grossolanamente il progressismo quando attribuisce l’antimeridionalismo solo alla ricca ed ignorante borghesia del Nord. In una sola affermazione riesce a sbagliare tre volte: primo perché la borghesia intesa nell’accezione che la sinistra vuole imputargli, cioé vivere di privilegi, improduttiva e in un certo qual modo avulsa dalla società e arroccata nel proprio mondo, in Padania non esiste più da mezzo secolo. La borghesia del Nord da un punto di vista prettamente economico si identifica con il Nord stesso: é, molto più semplicemente, la classe che produce benessere e ne gode, cioé la maggior parte dei settentrionali. Per cui le parole d’ordine della lotta di classe che certi figuri vanno ancora blaterando nella Padania delle piccole imprese e del benessere diffuso hanno lo stesso senso che parlare di desertificazione nella foresta pluviale. Secondo punto; l’antimeridionalismo nel senso di preclusione verso i portatori di uno schematismo mentale borbonico, é spesso più presente in quella che la sinistra chiama “classe operaia”. Perché? Forse perché tale categoria si é resa conto negli anni che il nemico non era tanto l’imperial-capitalista datore di lavoro ma lo Stato Italiano che della rapina del lavoro ha fatto un’etica amministrativa. Terzo, il binomio ricchezza e ignoranza riferito ad un ceto sociale, in ogni epoca ed in ogni civiltà nel corso della storia, é un non-senso: il benessere produce automaticamente cultura, o quanto meno la possibilità di accedervi e di avere le risorse per diffonderla. Le scuole funzionano laddove ci sono i vituperati soldi, perché é con essi che si pagano gli insegnanti e si acquistano i libri, non con le dichiarazioni d’intenti.
Si potrebbe anche dire che la società padana nel suo complesso ha paura dell’attuale sinistra, oggi in particolare, avendo visto all’opera la sua avanguardia di intellettuali, che usciti dai ghetti dei Centri Sociali, hanno reso pubbliche le loro teorie politico-economiche. Alla luce di tutto ciò però concorda con una loro teoria: la borghesia, suo malgrado, spesso genera mostri. Se ne rende conto ogni volta che li vede manifestare.
Sociologicamente Bossi é un’anticorpo e come tale molti lo considerano; non tanto come un’avanguardia reazionaria, ma piuttosto come una diga da frapporre al caos, una garanzia di una pace sociale che la Padania ha e che ritiene di dover legittimamente tutelare.
Ecco che il leghista si delinea in una categoria intersociale: il semplice lavoratore che si guarda intorno e che fa i suoi conti, non più sulla base di astratte ideologie, ma sul bilancio tra ciò che da e ciò che riceve in cambio. Una volta appurato che tale bilancio é perennemente in passivo ne trae le debite conclusioni.