TORNIAMO A MAZZINI
di TITO MANIACCO
UDINE - Leggo con malinconia istituzionale che il 13 marzo, 131 anniversario della morte di Giuseppe Mazzini, si sono riuniti ai giardini Ricasoli i soci dell'Associazione mazziniana italiana e, alla presenza del loro presidente nazionale, hanno deposto una corona d'alloro sotto il busto del vecchio patriota, nella più profonda indifferenza di un ceto dirigente repubblicano in tutt'altre e più concrete faccende affaccendato.
Quando fui promosso alla prima media secondo le disposizioni del ministro Bottai per la nuova scuola secondaria, dopo un durissimo esame in cui venni vivisezionato da spietati professori tanto disinteressati ad un ragazzino di 12 anni quanto interessatissimi al corpo vivo dell'analisi logica - correva il giugno del 1943 - mia madre mi regalò, in un periodo di grande criura (crïùre, in friulano = freddo fortissimo, che può valere per penuria) due libri: "Il bel paese" dell'abate Stoppani, straordinario viaggio scientifico nelle Alpi di fine XIX secolo, libro esaurito e sicuramente da ristampare almeno in una biblioteca degli italiani, e i "Doveri degli uomini" di Giuseppe Mazzini. Quel Mazzini di cui la mia maestra, la signorina Petri, risorgimentale e con la puzza al naso verso i fascisti, e per questo amatissima da mio padre, parlava con reverenza.
Ci leggeva di quel giorno in cui il piccolo Giuseppe, portato dalla madre a passeggiare lungo le rive del mare di Genova, s'imbattè con il destino nei panni di un uomo barbuto che chiedeva un obolo per i proscritti d'Italia, costretti a fuggire per le persecuzioni dei governi di allora, quello dei Savoia compreso.
La signorina Petri, monarchica, dimenticò o non sapeva - a quei tempi la cultura delle maestre era molto ristretta e superficiale - che Mazzini morì esule nell'Italia dei Savoia, nascosto sotto falso nome nella casa di un amico pisano nel 1872, dopo aver espresso il suo sdegno per il modo subdolo con cui gli italiani erano entrati in Roma.
Forse, gli stessi mazziniani in questi giorni si saranno recati alla tomba del dottor Andreuzzi, mazziniano e iniziatore di una guerriglia antiaustriaca sulle Prealpi carniche, a portare una corona a Navaróns in comune di Meduno, dove Andreuzzi esercitò nobilmente la professione di medico dei poveri, come, quasi un secolo dopo, il dottor Magrini, garibaldino, caduto combattendo contro i tedeschi e i fascisti nel 1944 nel canale del Bt. Ho visto una vecchia corona questa estate, passando accanto a quella tomba.
Mi parrebbe il caso d'incitare gli italiani, come fece il Foscolo invano, da par suo, quasi duecento anni fa, alle storie patrie.
Ad una classe politica mediocre, credo, non farebbe altro che bene.
Tito Maniacco