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    Impegno FEMMINILE nella societa' ... e Movimento Femminile Repubblicano (MFR)

    [mid]http://xoomer.virgilio.it/francesco.rinaldi29/KAR_ITALIANE/Camaleonti/Camaleonti_-_Eternita'.mid[/mid]

    Impegno femminile
    a cura di Gabriella Argnani

    Questa sezione, dedicata al dibattito attuale sul femminismo, nasce con la speranza che la conoscenza e il dialogo portino alla composizione di un tessuto sociale all'interno del quale interagiscano e cooperino individui consapevoli del fatto che le differenze rappresentano una ricchezza inesauribile per la comunità, così che sia più facile la soluzione dei problemi.
    Non è sempre immediato valutare i movimenti femministi in modo completamente positivo, perché, pur riconoscendo ad essi di aver compiuto una vera e propria rivoluzione che in pochi anni ha cambiato completamente la condizione femminile, sia in campo sociale e nella espressione della propria personalità, sia in quello giuridico e politico, questi movimenti (in questo caso si considerano solo le realta presenti nelle società democratiche occidentali) sono tendenzialmente rivolti a un esiguo numero di persone che quindi rappresentano una elite privilegiata, e fra questi vi sono i movimenti separatisti che rappresentano elementi di divisione sociale, mentre sarebbe auspicabile tendere a non discrimimare, non confondendo mai le differenze con le ineguaglianze.
    Le differenze sono infatti fonte incessante di arricchimento e di crescita, palestra privilegiata di dialogo, di tolleranza e di solidarietà, basi indiscutibili della moderna democrazia.
    In questi ultimi anni sono stati moltissimi i temi legati alle donne che hanno fatto discutere il mondo accademico e quello politico: uno fra tutti, quello della rappresentanza.
    Come e in quale percentuale le donne devono essere rappresentate?
    Un maggior numero di donne elette può essere davvero la soluzione dei tanti problemi?
    Quanto, le donne che raggiungono posti di responsabilità, hanno accettato e concesso alla logica "maschia" che governa la politica, per essere accettate?
    Come non notare che, in questo caso, anche l'abbigliamento ha mutuato forme e colori da quello maschile, divenendo via via sempre più rigoroso e disadorno, come se camaleonticamente dovessero mimetizzarsi con una realtà ritenuta inospitale e immodificabile?
    La risposta dovrebbe essere, prima che politica, culturale.
    Qualcuno potrebbe contrastare questa affermazione, dicendo che proprio i movimenti femministi hanno tentato di cambiare la condizione femminile attraverso un'operazione culturale e educativa e ciò è innegabile, se si accetta di identificare l'educazione semplicemente con la mera istruzione, con il sapere come tale.
    E così, come John Dewey afferma nel 1899 in Scuola e società, "ne consegue che scorgiamo dovunque intorno a noi la divisione fra persone colte e lavoratori, la separazione della teoria dalla pratica".
    Le cosidetete donne comuni, che affrontano coraggiosamente la maternità e seguono, accudiscono ed educano i figli, che più spesso di quanto non si creda subiscono violenze di ogni tipo confinate fra le mura domestiche, che lavorano e svolgono la loro professione con sforzi maggiori di quelli che dovrebbe fare un uomo nella stessa condizione, che curano la casa e che troppo spesso non riescono neppure a ritagliarsi mezz'ora per leggere un quotidiano, non si sentono certo capite da quella ristretta elite di intellettuali che studiano i loro problemi, né tutelate da chi nelle sedi preposte emana leggi.
    Queste donne, che rappresentano la stragrande maggioranza, sono sopraffatte dalla paura e la paura finisce per creare servi: persone che vivono con il capo chino e lo sguardo rivolto a terra, persone che per necessità di sopravvivenza apprendono l'arte della furbizia.
    È vero che oggi le donne sono più libere di fare cose che un tempo non molto lontano non potevamo neppure pensare ed è altrettanto vero che sono libere da impedimenti ed ostacoli un tempo insuperabili.
    Ma, pur essendo la condizione femminile migliorata non si deve cadere nell'inganno che questa sia una condizione di vera libertà.
    Sicuramente le donne non sono libere dalla volontà arbitraria degli uomini i quali, come afferma Elizabeth Kamarck Minnich, " avevano determinato che la propria esperienza dovesse rappresentare l'esperienza umana universale. Il fatto di rappresentarsi come l'intero è stata la via critica di una parte per mantenere il suo potere e la sua egemonia".
    Esiste una soluzione?
    È difficile sperare in soluzioni immediate. Si possono però proporre suggerimenti: se si provasse a far sì che cultura e lavoro, cioè teoria e pratica, coincidano?
    Se i cittadini pretendessero dalla scuola di fornire ai giovani "gli strumenti di un effettivo autogoverno" così da avere "la più profonda e migliore garanzia di una più grande società rispettabile, amabile e armonica."
    Da queste considerazioni e dalla magnifica disponibilità di Joan Tronto, di Julie Mostov e di tutti coloro che, per amore di educazione democratica, accetteranno di offrire il proprio contributo, è nata questa sezione dedicata all'universo femminile e ai suoi intrecci con quello maschile.

    Joan C. Tronto è Professor of Political Science e Coordinator of the Women's Studies Program all'Anter College, City University of New York. L'ultimo libro che ha pubblicato per i tipi della Routledge, New York - London, è "Moral Boundaries" dal significativo sottotitolo "A political argument for an Ethic of Care".
    Julie Mostov è Associated Professor of Political Science e Director of Institute of Umanities alla Drexel University.

    mga

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    tratto da il
    Pensiero Mazziniano

  2. #2
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    Dialogo fra Joan Tronto e Gabriella Argnani
    Femminismo e politica

    Joan, anzitutto: cosa ne pensi del femminismo e come hai deciso di dedicare i tuoi studi a questo argomento? Quali opere hanno influito maggiormente sulla tua biografia intellettuale?


    Ho deciso di occuparmi di questioni di genere una volta completata l’università. Fino ad allora avevo creduto che i problemi delle donne potessero essere risolti in maniera piuttosto semplice, con il solo aggiungere le donne a istituzioni e strutture preesistenti.
    In tutta onestà, penso che sia stata una questione di biografia personale, più che intellettuale, ad aiutarmi a fare questo cambiamento. Allorché ammisi a me stessa di essere lesbica, e cominciai a pensare più positivamente alla vita delle donne, mi accorsi quanto diffusamente i problemi, gli interessi, i modi d’essere delle donne fossero ignorati. Per questa ragione lessi i primi scritti femministi della seconda ondata: Simone de Beauvoir, Betty Friedan, di pensatrici più radicali come Shulamith Firestone, e il corpo emergente di scritti di femministe socialiste negli Stati Uniti. Ma fu il fatto di pensare alla vita delle donne che conoscevo, per lo più lavoratrici, appartenenti ad una varietà di gruppi religiosi, etnici, e razziali, a condurmi alla decisione di prendermene cura seriamente.
    Gli studi delle donne sono in sé una disciplina importante. Non esisteva quando ero studentessa: è uno straordinario fiorire di idee. Gli studi delle donne sono stati strumento per tre importanti interventi nella vita intellettuale: per prima cosa, il genere è una categoria che deve sempre rientrare nelle nostre analisi della vita umana; in secondo luogo vi si trova una fruttuosa interazione fra il sé, la soggettività e l’autoriflessione con la conoscenza “oggettiva”. Se è vero che questo ultimo punto non è peculiare agli studi delle donne, sono stati però questi i primi a portare questa idea alla vita accademica, riaprendo tutta una serie di questioni epistemologiche che erano date per risolte. Il terzo momento principale è stato descritto da Elizabeth Kamarck Minnich nel suo libro Transforming Knowledge, ove identifica il “problema radicale” che le femministe dovettero affrontare: alcuni uomini avevano determinato che la propria esperienza dovesse rappresentare l’esperienza umana universale. Il fatto di rappresentarsi come l’intero è stata la via critica di una parte per mantenere il suo potere e la sua egemonia.

    A tuo parere, quali sono stati i risultati più significativi e quali invece gli inconvenienti più gravi che il movimento femminista ha portato con sé?


    Vorrei parlare in primo luogo del movimento delle donne negli Stati Uniti, poiché è il caso che meglio conosco. Il risultato principale del femminismo della seconda ondata fu di porre fine alle barriere di casta che tenevano le donne al di fuori di molte sfere della vita. Professioni, circoli, scuole, e altre istituzioni, che prima erano esclusivamente o prevalentemente maschili, furono aperte. È difficile sottovalutare quanto questo abbia cambiato le cose, sia in termini di benefici alle donne (che hanno avuto più opportunità), sia nei termini di opportunità che prima esistevano per gli uomini in ambienti solo (o quasi solo) maschili, di prendere decisioni e formulare giudizi che si accordavano esclusivamente con la loro visione del mondo. La capacità delle donne di controllare il proprio corpo, la riproduzione, la sessualità, sono importanti manifestazioni del fatto che le donne non avrebbero più accettato un simile controllo. Il principale inconveniente di questo movimento è la sua continuata ristrettezza: le donne che sono riuscite a professionalizzarsi, o ad “avere successo”, spesso sono impegnate in pratiche oppressive simili, non appena ammesse alle istituzioni di potere. Le divisioni razziali e di classe rimangono forti negli Stati Uniti, ed ora le differenze di genere vengono rimodellate – ancora una volta – secondo quelle linee. Per questo, il compito femminista non è stato completato. Ora, ciò che è importante tenere presente, è che i movimenti politici realizzano i propri obiettivi non solo sul terreno di idee forti e di modi di essere nel mondo che siano convincenti, ma anche a seconda che le forze sociali, politiche, economiche che li circondano spingano nella loro direzione. Il fatto che i mutamenti dell’economia politica, negli ultimi trent’anni, abbiano richiesto più lavoratori altamente qualificati ha significato per le donne avere molte opportunità, ma non ha significato che le donne abbiano conquistato questo successo da sole.

    Pensando al futuro, quali sono le prospettive del movimento femminista? Temi degenerazioni o arretramenti di prospettiva?

    Il problema principale per il movimento delle donne è come andare oltre il proprio ristretto terreno di conquiste per abbracciare le istanze di donne e di uomini. Le organizzazioni nazionali delle donne negli Stati Uniti, per esempio, sono ancora piuttosto intrappolate dal tipo di idee che usavano vent’anni fa. Non vedono che alcuni mutamenti decisivi nella natura della vita sociale comportano una vita divenuta più difficile per alcune donne. Per esempio, l’opportunità per donne della classe media di lavorare al di fuori della ambito domestico è stato un grande miglioramento per alcune di esse. Ma questo vantaggio ha anche prodotto alcuni effetti negativi che i movimenti delle donne non hanno osservato. Come prima cosa, la diseguaglianza economica è aumentata: due professionisti ben pagati (i più si sposano all’interno della propria classe sociale) possono ora avere famiglia, mentre la condizione di disagio per una coppia di lavoratori meno retribuiti persiste. Inoltre, il lavoro di servizio sociale si è incessantemente modificato con gli eventi, ma il valore di questo lavoro non è salito: sono ancora le donne a lavorare in misura sproporzionata a supporto e nella cura di altre persone, e ricevono una paga sproporzionatamente bassa. Infine, i cambiamenti nella famiglia non sono solo il risultato di richieste di parte femminista, ma comunemente sono esse ad essere biasimate per ogni cambiamento negativo nella famiglia, e non si dà loro credito di alcunché di positivo. Alcuni uomini pensano anche di essere stati, come Susan Faludi ha chiamato il suo libro, “bastonati”. Hanno sopportato il peso della critica e non hanno avuto alcun beneficio anche quando hanno tentato di cambiare, e adattarsi alle donne nella loro vita, in larga parte perché il mondo intorno a loro è cambiato, diventando meno ospitale anche per gli uomini, fatta eccezione per i migliori professionisti. Uno dei primi argomenti usati dal femminismo era che gli uomini fossero condizionati e limitati, in qualche modo, dalle strutture della mascolinità quanto le donne lo sono per le strutture della femminilità. È una vergogna che le femministe non abbiano proseguito sulle linee di questa intuizione.

    Il movimento femminista ha chiesto e ottenuto il riconoscimento di importanti diritti, ma le teoriche del femminismo hanno riflettuto sulla stretta connessione fra diritti e doveri?


    Diritti e doveri: no, non molte femministe si sono interessate al tema dei doveri. In parte, perché nel contesto statunitense nessuno ne parla molto. Accade anche che i doveri di cui si discute non appartengano alla medesima sfera quanto i diritti. Il diritto all’occupazione senza discriminazione e il diritto al controllo della propria sessualità, per prendere due esempi, hanno dei doveri corrispondenti, ma al tempo stesso questi non sono doveri civili.

    Può esistere una “politica al femminile”?

    Certo, ci può essere una politica femminile, ma questa questione solleva un punto interessante: che cosa sarebbe una politica femminile? Credo che tu intenda qualcosa di più di una donna che continui ad agire in modo femminile anche quando ottiene il potere. Il che può certamente avvenire, ma c’è qualcosa di più sinistro nel “potere femminile”, sotto un certo aspetto. Sara Ruddick apre il suo libro Maternal Thinking con una poesia inglese della fine del diciannovesimo secolo, in cui l’autore narra la storia di un uomo che è stato dominato da una Madre soffocante. Quando si sposa, la moglie gli domanda fedeltà, e chiede che egli decapiti sua Madre. Egli la uccide, e a quel punto la testa della Madre gli domanda: “oh, figliolo, ti sei fatto male?”.
    Elizabeth Janeway ha trattato il tema che lei stessa ha denominato “il potere del debole”, e questa è una forma che il potere femminile ha spesso assunto. Nella mancanza di potere formale, le donne spesso ricorrevano a modi di detenere il potere che risultavano ingannevoli, manipolanti, forse persino aggressivi passivi. È un modalità di far politica, ma non una buona modalità, e non è raccomandabile certo in una società democratica.

    Quale interpretazione prevale negli studi femministi dell’espressione “eguaglianza sociale”?

    Buona domanda quella sull’eguaglianza. Ci sono un gran numero di definizioni femministe di eguaglianza: nel suo più recente libro, Love’s Labor, Eva Feder Kittay ne delinea alcune. L’autrice elenca quattro aree di disaccordo a riguardo del miglior modo di intendere l’eguaglianza. La critica della differenza, in primo luogo, sostiene che rendere le donne formalmente uguali agli uomini senza riconoscere le differenze fra uomini e donne, fa sì che queste si trovino a competere in condizioni di ineguaglianza. La critica del dominio, invece, vede il problema reale della maggior forza e del maggior potere che gli uomini hanno nella società; così che eguaglianza significa superare il loro dominio. Ed ancora, la critica della diversità vede il problema reale nell’assunto che tutti gli uomini sono uguali, tutte le donne sono uguali, ma si ignorano le differenze fra loro. Infine, la critica della dipendenza (è la visione di Kittay) nasce dal fatto che la maggior parte dei critici dell’eguaglianza presumono che coloro che sono resi eguali sono esseri autonomi, razionali. Ma tutti gli esseri umani, qualche volta – la maggior parte di essi spesso, e alcuni di loro per tutta la propria vita – sono altamente dipendenti dagli altri: che cosa può significare l’eguaglianza in una tale circostanza? Secondo me, una teoria femminista coerente deve tener conto di tutte queste nozioni di eguaglianza.

    Cosa si intende per “etica della cura”?

    L’“etica della cura” è stato usato, come termine, per la prima volta da Carol Gilligan, nelle sue opere fondamentali dei tardi anni ’70 e dei primi anni ’80. Per lei, un’etica della cura è caratterizzata dall’attenzione a preservare le relazioni piuttosto che dall’affermare diritti individuali; è basata cioè su un’analisi del bisogno piuttosto che su una lettura dei diritti. Altre ricercatrici da subito usarono questo termine in maniera leggermente diversa. Patricia Hill Collins, un’autrice afroamericana, lo utilizzò per fare riferimento all’impulso etico di permettere ad ogni individuo di svilupparsi nel proprio unico modo: un uso molto bello di questo concetto. Quando utilizzo io questo termine, mi riferisco ad un tipo di orientamento e di pratica politica e morale che riguarda la cura, ciò che facciamo per mantenere e dare seguito al mondo in modo da poterci vivere il meglio possibile; in questo senso, è un valore umano fondamentale. Non mi piace il modo che viene utilizzato, secondo cui il termine “etica della cura” implica che l’“etica” risulti essere più centrale della “politica”; la cura è un’istanza sociale e collettiva, non individuale. Ma continuo ad utilizzare questo termine come del resto hanno fatto altri.

    Esiste una relazione fra “cura” e “sympatheia”?

    La simpatia è una delle due: nel XVIII secolo, era intesa come un sentimento naturale che tutti avevano. In tempi più recenti, è stata riferita ancora ad un’emozione di “sentire con” gli altri, ma non è più comunemente percepita come naturale. La ragione per cui distinguo la cura dalla simpatia è che la cura consiste tanto in una serie di pratiche sociali complesse, quanto nella disposizione che ci consente di impegnarci positivamente in quelle pratiche. Una delle cose che impariamo dal lavoro di cura e di servizio sociale, è proprio come “prendersi cura”, provare simpatia. Ma, ancora una volta, non è il prodotto naturale dei lavori di servizio e di cura; ci viene richiesto di stabilire delle istituzioni appropriate.

    A tuo parere, i movimenti femministi creano distanza fra il mondo maschile e il mondo femminile?


    Il femminismo non dovrebbe allargare la distanza fra il mondo maschile e quello femminile, ma ciò che farà, nel migliore dei mondi possibili, sarà confondere la distinzione fra i due.

    Che cosa intendi, tu, per seduzione?

    Non sono sicura di sapere cosa significa questa domanda. La “seduzione” può essere riferita ad atti di soggezione sessuale, che può essere un piacere, ma può anche essere connessa all’inganno, o alla forza. Alcune femministe sono piuttosto puritane, io non lo sono affatto; credo che il piacere sia uno splendido aspetto della vita umana. Ma, a mio modo di vedere, il consenso deve in qualche modo essere parte della seduzione sessuale; questo è ciò che distingue la seduzione dalla forza. C’è anche tutta un’ampia letteratura sulla teoria della seduzione di Freud, e se essa sia basata su una menzogna, poiché egli rifiutò di credere alle giovani donne che gli dissero di essere state oggetto di abusi sessuali. Le femministe hanno idee diverse su questa lettura: le più puritane si schierano contro Freud.

    Se è vero che la madre gioca un ruolo essenziale nell’educazione dei figli, quale effetto ha, questo, nella società di oggi? E qual è la posizione dei movimenti femministi riguardo alla relazione madre-figlio, madre-figlia?


    Ci sono molti annosi dibattiti femministi sul ruolo delle madri nell’educazione dei figli, ragazzi e ragazze, e sull’effetto che questo ha nella società. Una risposta sintetica alla seconda parte della questione può essere questa: separando vita pubblica e privata nel modo in cui si è fatto nell’ultimo secolo, si è rafforzato il ruolo pubblico degli uomini. Le donne esercitano questa sorta di potere passivo, dunque, nell’essere “la mano che dondola la culla”.

    Questo non è auspicabile, sicuramente perché esclude le donne dalla vita pubblica, ma anche perché esclude gli uomini dalla vita privata, e dalle lezioni di vita che vi si possono apprendere.
    Qual è la tua posizione a riguardo dell’educazione dei bambini all’interno della famiglia?


    Le femministe hanno posizioni differenti anche sul valore dell’educazione della famiglia. La mia posizione su questo punto è complicata, per due motivi. Anzitutto, non sono una grande sostenitrice della famiglia nucleare. Credo che tutte le relazioni di cura debbano essere comprese nei termini delle dinamiche di potere che implicano. I prestatori di cura potenti spesso fraintendono le necessità dei loro incarichi e coloro di cui si prendono cura, col proiettare i propri stessi bisogni su di loro. Questa dinamica avviene spesso nelle famiglie nucleari: genitori che fanno fare ai figli cose che vanno incontro ai bisogni dei genitori, non dei figli. Ora, in culture dove la cerchia familiare è più estesa e informale, per i figli le cose vanno meglio: essi hanno infatti la possibilità di trovare altri adulti che possono proteggerli, o sostituire alcune delle preoccupazioni mal riposte. Nonni, zie e zii, sorelle e fratelli più grandi, cugini e amici possono avere questo ruolo. D’altra parte, però, l’educazione e la cura familiare è realmente importante proprio perché essa comunica valori, sensibilità, in una sfera di intimità e amore. Questa complessa interazione di amore e potere è ciò che rende la famiglia al tempo stesso così importante e così difficile.

    Come dovrebbe essere il rapporto uomo-donna in un mondo femminista ideale? I movimenti femministi ritengono ancora necessario questo legame?


    Faccio parte di una vecchissima scuola del pensiero femminista: non credo che vi siano differenze fondamentali fra uomini e donne di per sé. Non credo che le persone siano naturalmente eterosessuali, che gli uomini siano necessariamente più aggressivi delle donne, le donne più pacifiche o premurose degli uomini. Le differenze nel ruolo della riproduzione hanno portato la cultura umana a distinguere fra uomini e donne, ma queste differenze non possono più essere tanto importanti quanto nel passato. Per questo, nel mio mondo ideale, ogni persona avrebbe la possibilità di sviluppare la gamma di capacità e di personalità che gli sono proprie, a prescindere dal sesso o dal genere.

    a cura di Gabriella Argnani

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  3. #3
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    Predefinito FIGURA DI SARA NATHAN

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    FIGURA DI SARA NATHAN

    La pubblicistica biografica di Jessie Mario (Vite di Sara Nathan e di Goffredo Mameli) è importante soprattutto in un momento in cui l'opinione pubblica sta perdendo l'entusiasmo per il Risorgimento e l'interesse nei confronti degli eroi dell'Unità d'Italia, sintomo di una mutazione di pensiero e di dimenticanza delle gloriose ideologie. La biografia di Sara Nathan è una ricostruzione minuziosa della vita dell'eroina mazziniana, perché la Mario concentra la propria attenzione sul ruolo della sua amica diletta non solo in politica ma anche nell'ambito familiare.

    La Signora Nathan non è inglese, ma italiana, nata a Pesaro il 7 dicembre 1819 da modesta famiglia di negozianti. Da bambina impara a leggere, a scrivere e un po' di musica insieme alla sorella, ma continua a studiare lavorando. Rimane orfana di madre a 11 anni. A 16 anni sposa Meyer Nathan, tedesco naturalizzato inglese, che si innamora della sua bellezza e della sua bontà. Il marito è un uomo d'affari la cui fortuna economica subisce fasi alterne. Sara ha da lui dodici figli, che alleva con la stessa cura e la stessa serenità sia nei periodi di ristrettezze economiche che nella prosperità. Sara sostiene che «L'occhio e la mano della madre ci vuole per tener vivi e sani le nostre creature» e così riesce a crescere tutti i figli sani, sia i più robusti che i più gracili.

    Nel 1837, a 18 anni, conosce Mazzini, da cui apprende i dolori e le speranze dell'Italia, e da quel momento si dedica, oltre che ai suoi figli, a tutti i figli della patria derelitta. La giovine madre e sposa si dedica da allora ad un doppio lavoro, domestico e patriottico, coinvolgendo nel suo amore per l'Italia anche il marito, che spende molti dei suoi denari per la causa mazziniana. Alla improvvisa e precoce morte del marito eredita la sua fortuna, che amministra per il bene dei figli, ma anche per la scuola fondata a Londra da Mazzini per i piccoli italiani derelitti, figli degli esuli.

    Si trasferisce in Italia a Bellosguardo, poi a Genova, poi a Lugano, sempre governando la numerosa famiglia ed aiutando Mazzini e Garibaldi, che hanno per lei grande affetto e stima, a compiere l'Unità d'Italia.
    Tra i suoi amici più cari ci sono anche Cattaneo, Quadrio, Bertani ed i coniugi Mario. Sara è modesta, cordiale, simpatica, sempre amabile sia nei momenti lieti che in quelli tristi, come la morte del marito, la morte della moglie del figlio Giuseppe con il suo neonato e poi la morte di Giuseppe stesso, che, dopo essere rimasto vedovo, ha dedicato la vita al riscatto delle donne più sprezzate della società. Molto devota, Sara prega operando e predicando - sorridente - il dovere di tutti a vivere per gli altri. Tutti subiscono l'influenza magica della sua fede tradotta in azione, così che molti giovani sono da lei persuasi a consacrare la propria attività a favore della patria. Alla morte di Giuseppe seguono la morte di Mazzini e di Maurizio Quadrio, l'istitutore dei suoi figli. Anche se affranta e ormai incapace di felicità personale, non cessa mai di dedicarsi all'insegnamento dei precetti mazziniani ai giovani. L'operosità, l'abnegazione e lo spirito di sacrificio non vengono mai meno e, anche tra le sofferenze per la malattia che la conduce alla tomba, continua a sorridere ed a incoraggiare tutti.

    Lavora fino alla fine e muore il 19 febbraio 1882, all'età di 62 anni. Jessie White considera la sua morte una perdita senza nome, una sciagura per i figli, per gli amici, per la patria e per tutti e la sua vita un esempio per le fanciulle, uno sprone a studiare e lavorare e un dolce ammonimento alle tentazioni dell'egoismo e della pigrizia. Alle donne infatti spetta la cura della famiglia e della casa, le donne devono meritare la stima oltre all'amore del marito, dalle donne dipende se i figli diverranno o no buoni e laboriosi figli della patria. Non tutte le buone madri hanno buoni figli, ma è raro che gli uomini grandi abbiano cattive madri: Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, Aurelio Saffi e Adriano Lemmi ed il più grande poeta vivente, Giosuè Carducci attribuiscono quanto è di buono in loro all'insegnamento e all'esempio delle loro madri.

    ------------------
    tratto dal sito web
    http://www.url.it/donnestoria/testi/...hitenathan.htm

  4. #4
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    Le donne italiane hanno diritto di scelta

    La storia italiana insegna che le donne nel nostro Paese hanno sempre espresso un grande senso di responsabilità e di attenzione ai problemi del Paese, del lavoro, della famiglia e posto la loro opera al sevizio della società, facendosi carico, in prima persona, dei gravi problemi derivanti dalla carenza di servizi sociali, di reti di protezione sociale e di politiche davvero efficaci nei confronti dell'infanzia, dei giovani e degli anziani.

    Riteniamo pertanto inaccettabile l'espressione di chi attribuisce alle donne italiane caratteristiche di irresponsabilità nel caso della scelta consapevole della maternità e nell'accesso alle pratiche, legittime per l'ordinamento del nostro Paese, di interruzione della gravidanza, che non è mai e poi mai, per una donna, "una passeggiata".

    Le donne italiane sceglieranno sulla base dei loro convincimenti etici, e le istituzioni devono porre in essere, così come previsto dalla legge e dalle regole della moderna democrazia, tutti gli strumenti utili affinché le cittadine che decideranno di effettuare l'interruzione di gravidanza, siano in grado di accedere alle tecniche ed ai trattamenti medici e farmacologici più sicuri e meno traumatici, che la ricerca scientifica ha reso possibili e accessibili, riducendo i rischi e i danni, fisici e psicologici.

    Esprimiamo quindi il nostro pieno consenso alla iniziativa posta in essere dalla Regione Piemonte in merito all'utilizzo della RU486, già peraltro in uso in molti Paesi della Unione Europea, perché questa opzione consente alle donne di poter usufruire di un trattamento medico che rispetta la loro scelta evitando l'ulteriore dolore di un intervento cruento ed invasivo.

    Lilia Alberghina
    Anita Garibaldi
    Loredana Pesoli

  5. #5
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    Predefinito RESTO DEL CARLINO 28 novembre 2002

    'Donne, imparate da Anita'

    «Anita Garibaldi
    , eroina del diciannovesimo secolo, diventa simbolo dell'odierna emancipazione femminile». Luisa Babini, consigliera regionale del Pri ha reso omaggio ad Anna Mania Ribeiro da Silva, vero nome di Anita, nella cascina di Mandriole dove l'eroina morì nel 1849. «E' una figura femminile — spiega Luisa Babini — che ci fa riflettere sul ruolo che oggi le donne ricoprono nella società, in particolar modo nella politica. Mi sembra infatti che sia in atto un processo involutivo che ci sta nuovamente emarginando dalla cosa pubblica». Da queste riflessioni nasce il progetto di uno studio nel quale Luisa Babini intende occuparsi dei diritti delle donne e del loro ruolo pubblico. Un'idea nata dopo un viaggio a Laguna, la città brasiliana che ha dato i natali ad Anita, dove Luisa Babini è stata investita di una significativa responsabilità: rappresentare la città sudamericana nella conservazione del patrimonio storico legato ad Anita Garibaldi e custodito nel nostri luoghi. «Anita è il punto di partenza — spiega Babini — per riflettere sull'odierna condizione femminile. Basta osservare in politica l'esigua presenza di donne per rendersi conto che la situazione negli ultimi tempi è peggiorata. Soprattutto da quando non c'è più la legge che obbligava ad inserire nelle liste delle candidature politiche un numero minimo di donne». Se nascesse la regione Romagna, osserva sempre la consigliera, nessuna donna occuperebbe i vertici del mondo politico. «In Romagna — spiega — nessuna donna è, ad esempio, presidente della Provincia. Quelle poche impegnate in politica vengono relegate a ruoli che rispecchiano una visione stereotipata della figura femminile, mi riferisco agli assessorati dell'istruzione, delle pari opportunità o dell'infanzia, solo per citarne alcuni». Secondo i dati forniti da Luisa Babini, nei comuni della provincia di Ravenna, su 106 assessori solo 25 ( 23,5 per cento) sono donne, mentre su 347 consiglieri le presenza femminili sono solo 66 (19,02 per cento). La maglia nera va sicuramente a Brisighella e Fusignano che hanno una giunta formata da assessori assolutamente al maschile, così come Casola Valsenio non ha nessun consigliere donna. Unico sindaco donna di tutta la provincia è invece a Riolo Terme. Anche nel palazzo della Provincia la situazione non è diversa: 2 sole donne su 10 assessori e sei consigliere su un totale di 30.

    Annamaria Corrado

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    Dominique Frischer, Che cosa sognano le ragazze, Milano, Pratiche Editrice, 2001, pp. 319, euro 14,46

    Un percorso attraverso aspirazioni, speranze, modelli di vita nell’universo femminile. Tra desiderio di maternità (mai sopito e anzi rivalutato) e ipotesi di carriera nei settori più disparata alla ricerca di un’emancipazione e di una “parità” ancora da conquistare.
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    Il consigliere Luisa Babini al Seminario sulle Pari Opportunità di Piacenza

    Donne in politica: un'uguaglianza solo a parole?

    Il Consigliere Regionale Luisa Babini parteciperà il 24 gennaio a Piacenza ad un seminario organizzato dall'Università Cattolica del sacro Cuore dal titolo
    Donne in politica: un'uguaglianza solo a parole?
    Fra i partecipanti vi saranno il Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università Cattolica di Piacenza Giovanni Negri, il Presidente della Commissione Nazionale Pari Opportunità Marina Piazza, Miriam Mafai, il professor Alessandro Mangia dell'Università Cattolica di Piacenza, la Senatrice Emanuela Baio Dossi, il Senatore Domenico Nania, l'Onorevole Elena Montecchi.

    Il seminario avrà come obbiettivo la definizione di proposte, idee e percorsi mirati atti a promuovere la presenza delle donne nei luoghi decisionali della politica quale elemento indispensabile al completamento del sistema democratico.

    Anche ad una superficiale scorsa ai dati riguardanti la partecipazione delle donne alla vita politica in Italia ed in Europa, infatti, appare subito chiaro come la presenza femminile nelle istituzioni sia oltremodo esigua. Ciò che preoccupa maggiormente è il fatto che il numero delle donne che occupano i posti "dove si decide" sono in costante decremento. In un'epoca di modernizzazione e avanzamento della civiltà occidentale, con l'introduzione dei concetti di uguaglianza dei sessi e di pari opportunità, questo è un fenomeno che stupisce e preoccupa.

    Alcuni dati: nel Parlamento Europeo la presenza femminile si attesta al 11,50%, nel Parlamento Italiano supera di poco il 10%; nella classifica mondiale, poi, l'Italia si colloca al 77° posto per numero di donne Parlamentari dopo Uganda, Mongolia e Zimbabwe con un 9,8% di deputati e un 7.8% di senatrici (dati che si riferiscono al 2002). Per quanto riguarda l'attuale percentuale nelle Regioni italiane, il dato scende ad un 11% di donne Assessori e un 8% di donne Consigliere, mentre nella tornata elettorale precedente erano il 13,7%. Nei Comuni la presenza femminile è la più bassa e le donne sindaco sono solo un 6% e il 72,3% di esse è eletto in Comuni con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti. Il Governo Italiano poi, ha oggi solo 2 donne Ministro su 22 contro le 4 del governo precedente e le 6 di quello ancora prima.

    Confrontando queste cifre con quelle degli anni precedenti si rileva che dal 1994 la percentuale delle donne in Parlamento è calata del 6,4% e nei Consigli Regionali del 4,85. A contribuire a questo progressivo decremento c'è soprattutto l'abolizione delle quote obbligatorie riguardanti la presenza delle donne nei luoghi cardine delle istituzioni, che fissavano dei tetti minimi di partecipazione.

    Questa tendenza al ribasso sia allarmante e qualcosa va fatto per favorire l'accesso delle donne al mondo della politica: le donne infatti hanno molto da dire, sono una risorsa intellettuale e sociale fondamentale in un paese moderno. La loro assenza dai luoghi decisionali viceversa, è un elemento che danneggia la stessa democrazia, in quanto l'eguaglianza delle possibilità di carriera e delle opportunità e l'equità delle regole sono una delle assi portanti su cui si fonda la nostra civiltà; non contribuire al rilancio del ruolo delle donne in politica significa tradire quegli stessi principi democratici. Per questo motivo si è voluta organizzare una discussione con l'obbiettivo di trovare delle risposte concrete al fenomeno della scarsa presenza femminile nel mondo istituzionale e garantire in questo modo al massimo grado le pari opportunità e la democrazia.
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    a cura di Gabriella Argnani

    La sezione ospita in questo numero un saggio di Fernanda Missiroli, avvocato e, in passato, docente di diritto nelle scuola secondaria nonché Segretaria Nazionale del Movimento Femminile Repubblicano, membro della Commissione per le Riforme del Codice Civile riguardante il diritto di famiglia presso il Ministero di Grazia e Giustizia e membro del Comitato nazionale per le Pari Opportunità del Ministero del Lavoro. Nello scritto si esamina un importante periodo della storia d’Italia tenendo come filo conduttore l’impegno delle donne. Appare evidente, sotto questo profilo, quanto sia stata determinante la presenza femminile per Mazzini sia per la diffusione del suo pensiero tramite la frequentazione di salotti importanti animati da sue colte amiche, sia soprattutto per l’azione politica, come testimonia, per esempio, l’avanguardia femminile dei rivoltosi che fra il 1831 e il 1832 marciarono dalla Romagna su Roma.
    Gli esempi significativi riportati nel saggio fanno riflettere sulla forza che il pensiero di Mazzini, insieme a quello di altri pensatori di quel periodo soprattutto nel mondo anglosassone (si pensi a John Stuart Mill), ha impresso allo sviluppo del movimento per l’emancipazione della donna.

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    Mazziniane per l’emancipazione: "due secoli d’ impegno"

    Non credo di peccare di settarismo quando affermo che Mazzini fu, fra i politici, il primo a considerare la donna pari all’uomo.
    Vi erano stati, precedentemente, numerosi casi di donne evolute e rispettate nei loro ambienti; ma si trattava di appartenenti alle classi "alte" che si facevano un merito nell’aprire i loro salotti a intellettuali, musicisti e artisti. Molti grandi pensatori, soprattutto illuministi, erano ospiti di famiglie in cui donne colte, talvolta per sola vanità, si contendevano i migliori "cervelli" di cui veniva celebrata la fama.
    Si narra che Jean Jacques Rousseau rifiutò di accompagnare a Parigi la ricca dama, che pure lo aveva ospitato in uno chalet posto all’interno di un parco di sua proprietà; infatti, lo scrittore più discusso del suo tempo, dichiarò di non voler essere mostrato come un oggetto o un animale appartenente alla sua ospite.
    è noto che Madame du Chatelet, amante ispiratrice di Voltaire, teneva un salotto che si onoravano frequentare i personaggi più eccellenti, anche se l’illustre dama restava nelle sue proprietà come padrona di casa, ma non seguiva Voltaire nei suoi viaggi, neppure quando il filosofo era ospite del grande Federico.
    Le donne che possedevano la rara padronanza delle lettere e delle scienze appartenevano a famiglie che avevano permesso alle figlie di avere istitutori, di possedere libri e di ospitare, una volta sposate, la migliore società del tempo. Madame de Staël, considerata fra i precursori del Romanticismo, viaggiava liberamente (famose le sue lettere alla figlia dalla Germania), indifferente alle malignità sulla sua condotta morale, perché godeva di ricchezza, censo e dell’educazione ricevuta dal potente padre. Le donne, infatti, raramente potevano viaggiare sole, se è vero che George Sand, estimatrice e corrispondente di Mazzini, doveva vestirsi con panni maschili per poterlo fare. Comunque, i famosi salotti facevano parte di un costume di moda presso le famiglie abbienti e gratificavano donne ricordate dalla storia letteraria.
    In Italia visse un’analoga sorte Giulia Beccaria, che aveva ricevuto un’educazione illuminata dal padre Cesare e dalla frequentazione dei fratelli Pietro e Alessandro Verri, coetanei e amici dell’autore di Dei delitti e delle pene. Com’è noto, essi avevano fondato a Milano l’Accademia dei Pugni e avevano animato il periodico "Il Caffè", trasferendo nel nostro paese concetti letterari, economici e politici ispirati dall’Illuminismo francese. Ciò aveva creato scandalo o, quanto meno diffidenza a causa dell’ambiente cattolico dominante; ne fu vittima Giulia Beccaria che, dopo il suo matrimonio con il conte Pietro Manzoni, codino e reazionario, se ne era separata per il grande contrasto delle idee che essa pretendeva di mantenere senza arrendersi all’obbedienza coniugale. Furono facili le malignità nei suoi confronti, ispirate dal bigottismo che si opponeva alle idee illuministe e all’emancipazione femminile, al punto di fare circolare la diceria che Alessandro Manzoni, figlio del conte Pietro e di Giulia, fosse, in realtà, il frutto di una relazione adulterina fra la madre e Alessandro Verri.
    L’illuminismo e la Rivoluzione Francese avevano consolidato nelle donne più colte la volontà di evadere dal chiuso dei salotti riservati alle signore appartenenti alla nobiltà e all’alta borghesia.

    Tale doveva essere il salotto londinese dei coniugi Carlyle, che ospitarono a più riprese l’esule Mazzini: lo scrittore inglese aveva idee liberali e progressiste, ma alcuni storici affermano che, alla fine, non gradisse più la presenza del grande italiano, forse per invidia intellettuale, forse per gelosia, probabilmente infondata.
    Di tutt’altra natura, invece, fu l’amicizia che altre donne britanniche nutrirono per tutta la vita nei confronti di Mazzini: parlo di Jessie White, di Giorgina Craufurd e di Sarah Levi. Queste donne, intelligenti e coltissime, erano state conquistate, oltre che dagli ideali del grande pensatore, anche dalla sua convinzione di una parità fra i due sessi.
    Non si trattava di affermazioni salottiere dedicate alle donne di un ceto privilegiato, bensì di un principio praticato dal nostro maestro e enunciato anche negli scritti diretti alle classi più povere. Ne I doveri dell’uomo, libretto diretto agli operai, si trovano frasi di indubbio contenuto. Il famoso detto "la donna è l’angelo della famiglia", che ha suscitato equivoci da parte di chi riteneva che si trattasse di esortazione a restare fra le mura domestiche, è ben chiarito dalla frase "l’uomo e la donna sono le ali per il volo dell’umanità verso il progresso", frase che, al di là del lessico ottocentesco, chiarisce la convinzione della parità fra i due sessi.
    Le amiche inglesi di Mazzini appartenevano a famiglie di elevata posizione sociale e di convinzioni liberali. Esse poterono manifestare la loro adesione agli ideali mazziniani apprezzando la posizione del grande italiano che non le ricacciava fra le mura domestiche o nei salotti, ma chiedeva la stessa collaborazione che sollecitava dagli uomini suoi seguaci.
    In Italia, a quel tempo, prevalevano la soggezione alla Chiesa cattolica, più chiusa a differenza delle religioni protestanti, e una diffusa mentalità maschile, servile verso i sovrani e quasi schiavista nei confronti della donna. Tuttavia, gli ideali mazziniani cominciarono a fare presa anche fra le donne di umile condizione, soprattutto nello Stato Pontificio, a causa della durezza della vita di quelle popolazioni.
    Fra il 1831 e il 1832 marciarono su Roma dalla Romagna, imponenti gruppi di rivoltosi che, durante il loro cammino, raccolsero rinforzi provenienti dalle Marche e dall’Umbria e furono fermati soltanto ad Amelia. Coloro che partirono dal forlivese furono preceduti e accompagnati da un folto plotone di donne, che marciarono per dieci chilometri, cioè da Forlì a Forlimpopoli. Le guidava Teresa Scardi Catani, la quale sventolava una bandiera tricolore; queste donne camminavano fieramente per aprire la strada agli uomini, senza incontrare ostacoli, essendo festeggiate lungo tutta la via dagli abitanti delle campagne circostanti.
    Il fatto che l’avanguardia femminile ostentasse la bandiera tricolore, dimostra che la rivolta non era solamente provocata dalle condizioni economiche disumane (le stesse che avevano prodotto l’assalto ai forni in molte zone e in vari periodi), ma che era anche ispirata dalle convinzioni politiche sull’Unità d’Italia e sulla libertà: infatti, i primi mazziniani le avevano diffuse fra la popolazione. Ad esse aderivano spontaneamente quelle donne popolane.
    Erano popolane anche quelle che a Roma si batterono con i loro uomini per difendere la Repubblica del 1849: fra esse Antonietta Colombi. Giuditta Tavani Arcuati, fu l’anima della resistenza di quaranta patrioti nel lanificio Aiani nel 1867. Ella insieme al marito e ai tre figli preparava munizioni da fornire ai rivoltosi in attesa dell’arrivo di Garibaldi; vennero scoperti dalla gendarmeria pontificia e trucidati in massa.

    Vero è che il "popolino" romano considerava questo comportamento come il doveroso sostegno verso gli uomini.
    Anche in Italia, Mazzini era apprezzato e amato da donne le cui famiglie appartenevano a una cultura non confessionale e a convinzioni politiche liberali: per esempio la madre di Giorgina Crauford che si trovava a Firenze con il marito diplomatico inglese e che apparteneva a quella famiglia Churchill, da cui discenderà il famoso primo ministro britannico.
    Sarah Levi Nathan fu la straordinaria amica, oltre che di Mazzini, anche di Aurelio Saffi e di Carlo Cattaneo, che assisté durante la malattia fino alla sua morte. Successivamente, fu accanto a Mazzini di cui ricoprì il corpo con il plaid di Carlo Cattaneo, quando Mazzini si spense.

    A lungo perdurò la leggenda che dell’ultimo figlio di Sarah fosse lo stesso Mazzini il vero padre: si trattava di Ernesto Nathan, primo sindaco democratico di Roma dopo la caduta dello Stato Pontificio. Non c’è nulla che possa suffragare questa leggenda, che tuttora perdura fra i mazziniani, molti dei quali ignorano il figlio che Mazzini ebbe da Giuditta Sidoli e che morì all’età di nove anni in Svizzera, nonostante le cure della famiglia cui era stato affidato.
    Mentre i loro sposi, Alberto Mario e Aurelio Saffi, si trovarono a dissentire da talune idee di Mazzini, Jessie White e Giorgina Crauford non lo contestarono mai e apertamente disapprovavano questi atteggiamenti dei loro sposi. Era un’ennesima manifestazione di quella educazione che aveva inculcato nei mazziniani il rispetto per il diritto della donna alla parità.
    Quando un critico malevolo insinuò sulla stampa che Alberto Mario fosse succubo della moglie, permettendole di scrivere opinioni in contrasto con quelle del marito, questi rispose fieramente che la moglie era dotata di un cervello e aveva il diritto di usarlo come lui stesso faceva con il proprio.
    La convinzione dei mazziniani, dunque, partiva dal principio che il diritto dei popoli alla libertà risiedeva nell’esercizio individuale di tale libertà, indipendentemente dal sesso, dalle fedi religiose e dalla razza; questo esercizio individuale era indispensabile per la formazione dei cittadini e per la loro evoluzione, mano a mano che si emancipavano da quei pregiudizi che portano a creare situazioni di privilegio dei più forti sui più deboli.
    Non nego che nel prosieguo degli anni questa posizione si sia andata sfumando e che molti mazziniani non abbiano ritenuto di mantenere questo concetto alla base delle loro convinzioni politiche. Credo di poter affermare che gli epigoni di Mazzini, nel corso del secolo che seguì, abbandonarono la considerazione della parità fra uomini e donne e, impegnandosi nelle battaglie istituzionali e sociali, finirono per adagiarsi nella convinzione generalizzata dell’inferiorità della donna.
    Anna Maria Mozzoni, riconosciuta universalmente come la prima femminista italiana, era profondamente pervasa dai principi mazziniani che ispirarono la sua polemica con Anna Kulisciof la compagna di Turati; mentre quest’ultima considerava l’emancipazione femminile all’interno della lotta di classe, la Mozzoni sosteneva le idee di parità fra i sessi come necessarie allo sviluppo autonomo della condizione femminile. Le sue posizioni, però, venivano considerate con un certo imbarazzo e spesso con dissenso dagli uomini che si dichiaravano seguaci delle idee mazziniane.
    Tuttavia, fu proprio un mazziniano che firmò, insieme con un deputato liberale, la prima proposta di legge sul divorzio durante una delle prime legislature dopo l’Unità d’Italia. Il divorzio veniva considerato come un sistema che metteva alla pari i diritti dei due coniugi: tale fu sempre visto, infatti, dalle masse femminili, mentre gli uomini vi aderivano tiepidamente.
    Il periodo fascista, che vedeva nella donna una massaia e un soldato, destinata a obbedire fedelmente, interruppe l’evolversi delle idee di liberazione femminile. Il codice Rocco, per la parte riguardante il diritto di famiglia, aveva un capitolo dal titolo "la donna, il minore e l’interdetto". Si impediva alle donne di prendere decisioni sull’educazione dei figli, sull’amministrazione del proprio patrimonio e su tutte le altre scelte che la vita proponesse.
    Ci fu allora un mazziniano, insigne giurista, alieno da ogni prosopopea, Oronzo Reale, che pose mano alla riforma del Codice Civile riguardante il diritto di famiglia all’inizio degli anni sessanta.
    La coraggiosa proposta di Reale sconvolse quanti coltivavano gli antiquati pregiudizi sull’inferiorità delle donne, sull’indegnità dei figli nati fuori del matrimonio, sui limiti posti per ottenere la separazione che doveva essere concessa solo in caso di consenso delle due parti o per colpa di un coniuge; la colpa era più facile da addossare alla donna per il semplice sospetto di adulterio, per abbandono del tetto coniugale e per l’esercizio dei diritto al lavoro e al guadagno che le desse una posizione economica migliore di quella del marito.
    La proposta di Reale trovò grande attenzione e sollevò accesi dibattiti, soprattutto fra le donne. Esse avevano ottenuto il voto nel 1945: questa concessione era stata il frutto sia di un calcolo da parte dei democratici cristiani che contavano sulla soggezione della maggioranza delle donne nei confronti del clero, sia da parte dei partiti di sinistra, riconoscenti per il grande apporto delle donne nella lotta antifascista. Anche numerose donne mazziniane vi avevano contribuito, dalla prima combattente contro le squadracce nel 1925, la forlivese Fernanda Flamigni, che provvedeva a caricare le armi per respingere l’assalto al circolo repubblicano di via Lunga, fino alle militanti di Giustizia e Libertà e dell’ORI (Organizzazione della Resistenza Italiana) fra cui la milanese Lina Mori, la romana Maria Teresa Bartoli Macrelli (che diventerà segretaria nazionale del movimento femminile repubblicano), le torinesi Matilde Di Pietrantonio e Giulia Parmentola, e numerosissime romagnole, fra cui va ricordata per il coraggio e l’abnegazione Tina Gori. Questo gruppo di antifasciste combattenti aveva formato il primo nucleo del movimento femminile repubblicano (MFR), che rivendicò, fin dal primo congresso, la propria autonomia politica e organizzativa e, per lunghi anni, prese posizioni distinte dal partito di cui era fiancheggiatore. Nonostante le perplessità degli uomini aderenti al PRI (che spesso dichiaravano di non essere mazziniani) il movimento femminile si era schierato a sostegno della laicità dello stato, della legge sul divorzio, per l’abolizione della pena di morte, per la difesa della scuola pubblica, per la depenalizzazione dell’adulterio, che riguardava soltanto le mogli. Fu naturale, quindi, l’appoggio al progetto Reale per la riforma del diritto di famiglia. Sottilmente, le forze politiche che erano maggiormente collegate alle istituzioni confessionali operarono per dividere il fronte dei partiti laici, fingendo di agevolare l’iter parlamentare della proposta di legge sul divorzio, presentata dai deputati Fortuna, socialista, e Baslini, liberale. Erroneamente, si era creata la convinzione che essa non avrebbe trovato l’appoggio della maggioranza dei parlamentari e si usava strumentalmente un’apparente disponibilità, per lusingare i sostenitori laici della legge stessa. Alle donne veniva anche obiettato che la proposta Reale non assicurava la totale parità fra i sessi; molte delle esponenti dei partiti laici erano cadute nella trappola e si battevano contro il progetto di Reale, senza stupirsi per le improvvise prese di posizione femministe, che contraddicevano la tradizionale chiusura della Chiesa cattolica, ispirata dalle teorie di San Paolo.
    In quel periodo chi scrive era segretaria nazionale del movimento femminile
    , che rimaneva l’unica organizzazione di donne con autonomia politica, insieme all’Unione Donne Italiane (UDI), senza espliciti connotati di partito. Mentre riflettevo perplessa sulla contraddittoria posizione di partiti e istituzioni religiose, mi colpì il titolo di un articolo firmato dal direttore della rivista gesuita "Civiltà cattolica" che rivelava la vera natura dell’avversione al progetto Reale. Lo scritto era intitolato "I bastardi" e polemizzava violentemente contro uno degli articoli del progetto Reale, nel quale si affermava il diritto al mantenimento, all’istruzione e alla successione da parte dei figli nati fuori del matrimonio.
    Quindici anni dovettero trascorrere dalla prima presentazione del progetto di riforma all’approvazione del Parlamento. Va riconosciuto che fu efficace l’accanita difesa della riforma portata avanti soprattutto dalle mazziniane italiane, che riuscirono a promuovere un’alleanza con le esponenti di varie forze politiche, iniziando una solidarietà femminile trasversale ai partiti che si è mantenuta nel tempo.
    Tuttavia è giusto considerare che, se non fosse esplosa la rivolta femminista nelle piazze e nelle vie di tutta Italia dopo il 1968, probabilmente il Parlamento avrebbe continuato a rinviare l’approvazione della legge.
    Quante nostre giovani contemporanee ignorano che i diritti di cui oggi godono sono il frutto dell’iniziativa di quel giurista mazziniano, ironico, schivo di ogni enfasi, nemico della prosopopea, ma tenace assertore delle idee che gli erano state ispirate dalla sua condizione di discepolo del nostro maestro.
    Da quella prima riforma conseguirono successivamente la legge 903, detta "delle pari opportunità" che riconosce il diritto della donna all’accesso a tutte le carriere e a percepire pari salario in caso di un lavoro pari a quello maschile.
    Mi piace anche sottolineare che una grande sensibilità verso il diritto all’istruzione per tutti i cittadini e al dovere dello Stato di provvedervi con una scuola pubblica e laica, fa parte del bagaglio ideologico dei mazziniani, cui sono particolarmente sensibili le donne nella loro qualità di educatrici e di madri. Non fu un caso che Giorgina Saffi, oltre ad organizzare la prima associazione di donne artigiane, si preoccupò di istituire una scuola materna ispirata al concetto dell’educazione dell’infanzia, mentre le istituzioni confessionali si limitavano a concepire gli asili semplicemente come luoghi di custodia e di indottrinamento religioso dei bambini. Giorgina Saffi si era preoccupata, allo scopo di trasferire a Forlì gli stessi principi, di inviare una giovane presso una scuola già esistente in Bologna per apprendere come impartire ai bambini i primi elementi di un’educazione che li formasse come liberi cittadini.
    Concludendo, mi pare di aver svolto in questo breve excursus una tesi, sia pure incompleta e frammentaria. L’emancipazione femminile in Italia va riconosciuta come il frutto delle idee mazziniane, accettate e praticate dalle donne amiche e seguaci del maestro. Anche le inglesi Jessie White (giornalista, scrittrice, combattente insieme ai garibaldini), Giorgina Crauford (traduttrice in varie lingue degli scritti di Mazzini) e l’americana Margherita Fuller (giornalista e attiva partecipe delle lotte risorgimentali), erano già portatrici delle idee di emancipazione femminile, ma dovettero riferirsi logicamente alla predicazione mazziniana per sviluppare tali idee nell’Italia oppressa e nell’Europa della Restaurazione.
    Le donne italiane che avevano seguito le affascinanti teorie mazziniane non appartenevano soltanto all’aristocrazia o alla borghesia colta – fra questa è opportuno menzionare almeno Cristina Belgioioso – ma anche ai ceti di umile condizione, come le fiancheggiatrici degli uomini nelle lotte per la libertà. Probabilmente, esse trovavano, fra l’altro, anche il conforto della religiosità di Mazzini, dovendosi ribellare al giogo imposto dallo Stato Pontificio e dalla mortificante concezione dell’inferiorità femminile sostenuta da cattolici quali il Rosmini e il Lombroso.
    Ancora oggi ci commuove l’affermazione di Mazzini sulla consolazione che le lettere delle amiche gli infondevano, superando lo sconforto delle continue avversità della sua impresa. Le donne furono per lui fedeli amiche e fiere seguaci; lui fu per le donne un amico sincero e un sostenitore impareggiabile.

    Fernanda Missiroli


    tratto da il
    Pensiero Mazziniano


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    ... nella sua riunione del 14 febbraio scorso la Direzione Nazionale del P.R.I. ha designato l'amica Raffaella Finamore quale Responsabile della riorganizzazione del Movimento Femminile Repubblicano (MFR) ...






  9. #9
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    Il Senato modifica l'art. 51 della Costituzione sul ruolo delle donne

    La dichiarazione di Loredana Pesoli

    Il 20 febbraio 2003, con il voto definitivo del Senato, l'art. 51 della Costituzione italiana è stato modificato, con l'aggiunta, dopo il primo comma, del seguente periodo:

    "A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le Pari Opportunità di accesso tra donne e uomini".

    Le donne italiane, anche grazie all'impegno del ministro Stefania Prestigiacomo, hanno consegnato al Parlamento ed alle Regioni, il compito di realizzare questo principio, per mezzo di norme e leggi finalmente garantite dalla Costituzione, in merito all'accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive.

    Loredana Pesoli della Direzione Nazionale e componente della Commissione Pari Opportunità ha così commentato l'avvenimento: "E' una giornata importante per le donne e per tutti gli organismi di parità e le associazioni che hanno lavorato per anni a questo obiettivo".

    "Per il Pri l'affermazione dei diritti civili è da sempre un valore assoluto e l'impegno a favore della partecipazione delle donne alla vita politica, economica e sociale del Paese, espresso fin dalle battaglie per il diritto di voto alle donne sarà, ancora e sempre, presente e determinante in questo cammino".

    La Commissione Nazionale Pari Opportunità ha indetto per il prossimo 6 marzo una manifestazione in Piazza Montecitorio, alla quale parteciperanno i parlamentari, per la consegna delle firme raccolte sulla proposta di legge di iniziativa popolare per il riequilibrio della rappresentanza.

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    La Commissione Nazionale Parità e il Comitato Promotore consegnano alle parlamentari e ai parlamentari le firme raccolte a sostegno della Proposta di Legge di iniziativa popolare per l'approvazione di modifiche e integrazioni alle leggi elettorali atte ad assicurare alle donne ed agli uomini parità di accesso alle cariche elettive
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