Canta l'Inno che ti passa la rabbia di essere italiano
di Natalino Bruzzone
E' polemica per i calciatori che non cantano l'Inno
Ma pochi comprendono il senso di quelle strofe
In realtà c'è un pericoloso ritorno di nazionalismo
Ed è il sintomo di libertà che vengono calpestate
L’Italia è il paese dei tormentoni, del Festival di Sanremo e delle interessate e fastidiosissime mosche cocchiere sul groppone del calcio. E, ricordando che questa è anche la landa fortunata e per niente oscura dei cuochi (oltre che di santi, navigatori e poeti), si capisce come la fricassea delle tre specialità porti allo sformato di lamentazioni isteriche provocato dal fatto che i giocatori della nazionale non cantano l’Inno di Mameli.
Ma, per favore, sappiamo almeno di che cosa si parla? Credo di no, a meno che il sentimento dell’ipocrisia non abbia raggiunto e superato il livello di guardia e di maschera. Non si spiegherebbe altrimenti l’attaccamento per versi del tipo: “Stringiamoci a coorte/ Siam Pronti alla morte”, “I bimbi d’Italia/ Si chiaman Balilla/ Il suon d’ogni squilla/ I Vespri suonò”, “Già l’Aquila d’Austria/ Le penne ha perdute. Il sangue d’Italia,/ Il sangue Polacco,/ Bevé, col cosacco,/ Ma il cor le bruciò” e , ancora, irreversibile e incorreggibile, “Stringiamoci a coorte/ Siam pronti alla morte/ L’Italia chiamò”. Sono parole di una bruttezza imbarazzante, di una retorica polverosa e populistica che vorrebbe farci, nell’ordine, destare, cingerci il capo dell’elmo di Scipio, chiedere dov’è la vittoria, porgere la chioma e avere fede nel dogma che Dio ha creato la penisola schiava di Roma. Ognuno avrà francamente l’inno che si merita, ma quando è troppo è troppo.
Così, invece, di mandare in archivio una simile pletora di arcaismi risorgimentali (che avranno anche avuto un senso, ma che, comunque, lo hanno smarrito da un pezzo), cercando un’altra forma di simbologia musicale e poetica, si assiste a un incredibile revanscismo patriottardo, innescato, per giunta, non da un sentimento sincero dell’opinione pubblica, ma dalla follia televisiva di Aldo Biscardi, dando così credito al demagogo pallonaro che si tinge i cappelli del colore del cibo preferito dal coniglio Bugs Bunny.
E, bisogna sottolineare, come i calciatori porgano cristianamente e signorilmente l’altra guancia senza rispondere che loro sarebbero disposti sì a urlare il mitico parto creativo di Mameli, ma alla irrinunciabile condizione che Biscardi impari l’uso della lingua di Dante e Manzoni, perfezionando il ricorso al congiuntivo e pagando pubblico pegno ogni volta che si concede alla tentazione degli strafalcioni (tipo il leggendario “gli incunaboli della difesa”).
Ma, terribili o belle che siano le strofette , la questione dell’Inno è, forse, più complessa o più superficialmente deteriore. Sospetto che assomigli, per esempio, alla mania di copiare i comportamenti americani: il popolo degli Stati Uniti mangia pop corn e ingerisce bibite gasate al cinema, bene lo facciamo anche noi; loro, negli States, suonano l’inno prima di ogni incontro di football, pronti e via pure in Italia. Senza pensare per un solo istante alla diversità delle culture e delle tradizioni , oltre che alla nostra quasi assoluta mancanza di un vero sentimento per l’idea di Stato. Non conta niente quello che uno è, l’essenziale è come appare. Sono religioso perché non mi perdo mai un miracolo di San Gennaro e dunque, alla stessa maniera, mi sento cittadino modello solo se canto l’Inno di Mameli (non importa se rubo, non pago le tasse, picchio la moglie e cresco i figli davanti alla tv).
C’è un pericoloso ritorno a emozioni nazionalistiche che potrebbero essere la spia di una libertà messa in castigo. Se un ministro protesta e strepita per l’innocente versione rock di Mameli, possiamo presto ipotizzare una lista di libri proibiti alle biblioteche o di film da bruciare. Inseguendo il consenso di massa e della masse, inculcando inni e slogan, agitando censure, ideologie totalitarie e fondamentalismi religiosi si arriva al tremendo capolinea d’annientamento come ha ampiamente dimostrato la storia del Novecento. Nel suo piccolo anche sfruttare il fenomeno del calcio è un indice di smarrimento e di rischiosa deriva.
Gli azzurri intesi come l’icona della patria e come guerrieri unti dal Signore (e non da Carraro) sarebbero così obbligati a cantare Mameli. In caso contrario sono da classificare come mercenari e traditori. Poveri noi, se crediamo davvero che il calcio e l’inno siano la bandiera di una nazione e di una politica. Cantate che vi passa la rabbia per non avere lavoro e ospedali che funzionino. Cantate altrimenti i conduttori televisivi saranno meno felici nell’intascare i milioni dei loro sponsor. Siete solo delle figurine Panini, non potete ribellarvi: cantante altrimenti Aldo Biscardi potrebbe azzeccare la giusta pronuncia di “scoop”. Cantate, magari accompagnandovi con il mandolino, mentre in tribuna s’inquadrano fidanzate e genitori che mangiano la pizza. Cantate perché siete italiani con il sole in fronte anche quando piove. Ma, se mi permette, non cantante e resistete alla vergogna per gli idioti rimasti a casa e stretti a coorte. E se metterete mani e piedi sulla Coppa del Mondo, cantate “Volare”, perché potete stare sicuri che porci e asini non avranno mai le ali.