Intervista con Luca Leonello Rimbotti a cura di Maurizio Messina


1) Quando si parla dell’Europa, si pensa ad una area geopolitica dotata di indipendenza politica, autonoma che tuttavia stenta a realizzarsi. Esistono oggi due posizioni assai diversificate: l’una, fa capo agli “euroscettici”, che oltre a svolgere un ruolo di critica serrata nei confronti della UE, non si comprende quali soluzioni prospetti per il prossimo futuro, l’altra, che potremmo definire dei “partigiani di eurolandia”, che identifica l’Europa con un progetto monetarista e tecnocratico senz’anima. Tra le due posizioni, che tipo di atteggiamento si dovrebbe assumere, cercando di mantenere una posizione pragmatica?

L’Europa, oggi, dal punto di vista politico, semplicemente non esiste. Non si tratta di essere “euroscettici” piuttosto che “eurocrati”; si tratta di registrare il dato oggettivo che un governo europeo degno di tal nome non c’è, che non esiste in profondità un progetto politico comune, che mancano alcuni fondamentali requisiti per considerare l’Europa qualcosa di realmente unitario. La scuola classica aveva insegnato che la politica, dal punto di vista teoretico, è la dottrina della potenza dello Stato e della sola scienza politica è quella che mira ad istituire, conservare e potenziare gli Stati. Nulla di tutto questo è oggi sotto i nostri occhi. Manca una concezione sociale, manca l’idea stessa di comunità di popolo, manca un esercito, manca una politica estera. Il Parlamento di Strasburgo, perso nel labirinto delle competenze che divide con i vari Parlamenti nazionali, è una lega delle commissioni che gestisce prezzari e indici finanziari, flussi mercantili e ondate monetarie, che nulla sa di tutela del proprio ruolo storico-geo-politico, del superamento degli schieramenti veteronovecenteschi, della creazione, insomma, di progetti e volontà armonicamente unitari. Colosso commerciale e finanziario, l’Europa è il rachitico nano politico di corte, umile dinanzi al padrone – gli Stati Uniti – alla cui forza si delegano settori vitali, come la difesa: una Federazione che delega il decisionismo in politica estera ad un’altra Federazione, che ha sede in un altro continente e ha altri interessi non è nemmeno una ipotesi di Stato, è uno scherzo burocratico.
Uno Stato sovrano è il luogo del libero decisionismo gestito da un governo investito di autorità legittima in quanto espressione del popolo che rappresenta. L’Europa di Maastricht, figlia dell’europeismo atlantista post-bellico (Adenauer, Schuman, De Gasperi, Spaak…) è la protesi di una volontà politica extra-europea. Gli storici della “ragion di Stato” stabilirono – credo a giusto titolo – che solo un governo e un popolo in grado di dar corso autonomamente alla propria posizione internazionale possono anche scegliere autonomamente la politica interna, determinando così il proprio libero destino. La “finlandizzazione” dell’Europa e l’espulsione dei suoi Stati dalla storia sono oggi un fatto compiuto, sancito dalle regolari scadenze con cui gli USA fanno portare in subordine agli europei il fardello delle loro armi e delle loro scelte economiche. Un occhio pragmatico dovrebbe oggi rifuggire da ogni micronazionalismo da “piede in casa”. Un’accelerazione della visione sociale e comunitaria dell’Europa dovrebbe partire da un ABC politico che sapesse disfarsi di ogni lugubre edonismo utilitaristico. Il cordone ombelicale con le centrali liberiste d’oltre Oceano, che si nutre di quotidiano veleno omologatore, non verrà mai reciso dalle ombre che popolano il governo virtuale di Strasburgo. Tutto dovrà ripartire dall’onda lunga, forse lunghissima, della rinascita identitaria del popolo. Ma tutto è popolo: l’etnia regionale, la nazione storica, la stessa volontà di integrazione fra genti che convivono nello stesso spazio da secoli e millenni e che davvero non credo meritino il castigo di vedersi amministrare come fossero l’Arkansas. Tramontato il senso dello Stato, ciò che è rimasto è la sfiducia di massa: i popoli sentono la falsità di istituzioni irreali e prive di investitura. L’indifferenza finisce poi per rinfocolare l’individualismo sociale propinato dall’alto. Dall’altro capo, vediamo sterili negazionismi, sanculottismi confusi che seguono di nuovo il modello del para-ribellismo giovanilista, di conio neo-sessantottesco, privo di seri progetti di totale antagonismo. Priva di tensione ideale, l’Europa è al di sotto del proprio nome, si presenta come un “concerto delle impotenze”.

2) Ci sono argomentazioni e battaglie di tendenza o autonomia nel campo della ricerca, della difesa, della strategia politica in generale da parte dell’Europa attuale che potrebbero costituire un primo passo per l’affrancamento del Vecchio Continente dal Big Brother di oltre oceano?

L’Europa mostra di non conoscere i suoi interessi. Sovvenziona da sempre gli USA con inesauribili infornate di cervelli privilegiati, senza i quali le famose Università americane non conoscerebbero ricerca alcuna. Le frontiere americane sono, a differenza delle nostre, ben chiuse ai poveracci del mondo. Non così per i cervelli, adescati con prestigi professionali ad Hoc: un master negli Stati Uniti è oggi un must per chiunque ambisca a grandi carriere: ecco il tipo di immigrazione che i veri liberali riservano a sé stessi! Di fronte a questo spettacolo ogni competizione a viso aperto è fuori gioco. Piccoli passi, tuttavia, per allentare la presa dell’occhiuto Grande Fratello se ne potrebbero fare. Penso ad esempio alle grandi possibilità che si avrebbero, in proiezione, con un incremento della sensibilità per i problemi legati all’ambiente, alla qualità della vita e alla protezione della natura. Occorrerebbero però scelte coraggiose. La metodica distruzione delle città, la violenza usata sul territorio, un interventismo per le grandi opere alla sovietica: tutto questo, che investe la vita stessa della gente, potrebbe ingenerare reazioni che, se degnamente supportate, potrebbero portare molto lontano. Tutto ciò che è esagerato, smisurato, grande-numero, pacchiano è made in USA. Se fosse possibile invertire la tendenza, partendo dalla testa dei cittadini, su su fino alla capitale della Federazione Europea (già, ma dov’è?), vedremmo il Big Brother schiumare di rabbia. Le nostre città vivibili e pulite non sono per lui un buon affare. Partite dal basso, ancora una volta. Tutto questo allo zio Sam non piace: ecco un ottimo motivo per farlo. Un altro motivo sul quale ottenere compattemento tra europei e di conserva, sganciamento dagli USA, sarebbe una politica immigratoria radicalmente diversa dall’attuale lassismo da basso Impero. Si dovrebbe ripartire dalla considerazione che non è giusto condannare una civiltà alla sparizione fisica per soddisfare le abituali logiche del profitto neo-schiavistico, oggi sostenute con uguale fanatismo da destra e sinistra. Ma il discorso ci porterebbe lontano. L’Europa dovrebbe abbandonare l’Occidente atlantico al suo destino, anziché elemosinare legittimazione dai dittatori del potere bancario e mediatico. Inoltre, tutti sanno che quell’Occidente dispone anche di una finestra mediorientale che con occhio inquisitoriale ci guarda direttamente dentro casa.

3) Quali le prospettive a breve o medio termine si presentano per l’Europa nel campo geoplitico? Verso quale area si indirizzerà la politica estera dell’Europa, l’est europeo, la Russia e il medio oriente o il Mediterraneo e l’Africa?

Come è noto, la pratica di generale omologazione attuata dagli USA non prevede alcuna politica estera europea. L’interventismo NATO ha strateghi extra e spesso anti-europei. La Gleichschaltung imposta da Washington, l’allineamento dei satelliti, è l’espressione di un potere che non conosce la nostra politica locale, ma soltanto la propria politica mondiale: lo si è visto in occasione della recente guerra alla Serbia, proprio qui in Italia, dove gli americani hanno “suggerito” un governo D’Alema per garantirsi un non contestato coinvolgimento italiano in quella equivoca esibizione di forza. Il vassallo, in grado di tener quieta la possibile protesta diciamo così pacifista, ha potuto dunque garantire tranquilli bombardamenti suoi e altrui ben nascosto tra le gambe del padrone, e senza alcun bisogno di una qualche dichiarazione di guerra. Destra, sinistra, post-comunismo, post-fascismo: tutte sciocchezze europee, ciò che conta, agli occhi dei democratici signori della guerra umanitaria, è ridurre al silenzio chiunque ingombri la strada del potere assoluto planetario. Quanto all’Europa, se solo ne esistesse una, non dovrebbe avere esitazioni nel riconoscere il proprio grande spazio. La storia e la geografia parlano chiaro: Mediterraneo e Medio Oriente. L’est-europeo non sarebbe a quel punto che parte integrante della Federazione, e questa non potrebbe che svilupparsi lungo l’asse Parigi-Berlino-Mosca e da nord a sud. Riprendendo quanto di buono ha recentemente scritto Charles Chametier, sarebbe l’ora di deporre ancestrali sospetti da Quarto Reich verso la Germania, dando vita a franche aperture in ogni direzione e lasciando che il dinamismo europeo aggreghi secondo natura e tradizione. Spazi aperti alla Germania ad oriente, dall’Ucraina alla Slovenia, solidarismo tra le nazioni europee che si affacciano sul Mediterraneo a sud. Con tutto quello che seguirebbe in termini di sfere di influenza, come si diceva una volta. Ma, anche qui, una grande politica estera europea non dovrebbe essere una pantomima americana: agli inevitabili condizionamenti economici, una geopolitica libera dovrebbe accompagnare il confronto culturale, lo scambio, la reciproca affermazione del rispetto. Economie integrate all’interno e capacità penetrativa all’esterno. Tutte cose che favorirebbero un rafforzamento dell’identità e del senso dello Stato dei popoli europei e di quanti oggi costituiscono il serbatoio dell’emigrazione, in luogo dello smantellamento della dignità nostra e altrui. Dovremmo dimenticare gli emotivi irredentismi d’altri tempi; basta con la solitudine del vecchio Stato-nazione liberale, massonico, chiuso, strutturalmente lontano dalla coscienza dei popoli e capace solo di sfociare nella suicida danza macabra del nazionalismo di frontiera. Contro il qualunquismo etnico-culturale, il declino demografico e il duplice assalto degli stranieri ricchi e di quelli poveri, l’Europa potrebbe riscoprire ciò che è sempre stata: una civiltà creativa che si proietta e che coopera per affermare i suoi valori nel mondo.

4) La “stanchezza” culturale degli intellettuali europei rispecchia uno stato patologico di un tramonto irreversibile o una eclisse dovuta all’ennesimo tradimento dei “chierici” dell’atlantismo europei?

La cultura europea, come ognuno può vedere, è morta da un pezzo. Resta, qua e la, qualche intellettuale allo sbando, che come armento smarrito nel post-moderno alza alti lamenti, vagando da un luogo ideologico all’altro con poche idee e nessun costrutto. La corsa all’effimero ha travolto ciò che restava della cultura: “tagliare ciò che dura”, un’attitudine il cui emblema è lo zapping televisivo, “come l’economia di mercato – ha scritto di recente Régis Debray – dove si vedono le quotazioni impennarsi e crollare da un giorno all’altro, senza ragione, perché la Borsa è un eterno happening”. In questo quadro, si può dire che quasi tutti gli intellettuali hanno consumato il loro tradimento, travestendosi in massa da liberali accaniti. In Italia, poi, si hanno i migliori paradossi. A petto di una cultura di destra fiacca e ripetitiva nei suoi rosari d’impotenza, e che tra l’altro non ha mai sviluppato una qualche nuova teoria dello Stato o della Nazione, si ha una sinistra che senza “femminei” pudori si fa in parte liberaldemocratica a tutta faccia e in parte si atteggia a custode del sapere d’alto rango. Basta pensare che oggi i migliori filosofi della Tradizione vengono o sono di sinistra. I vari Cacciari, Vattimo, Galimberti maneggiano Platone e Heidegger assai meglio di molti epigoni della destra, incapaci di coinvolgere il potere in un grande progetto di rilancio della cultura europea, che è quasi tutta anti-progressista, e di creazione di nuovi valori. In generale, l’intellettuale europeo conta poco o nulla. A meno che non diventi direttamente americano, recandosi a lavorare in quella operosa e ricca nazione.

5) L’Europa ha sviluppato nei secoli un proprio modello di civiltà originario, che considera i valori civili della comunità imporsi nella vita sociale ed economica dei singoli. Pertanto lo stato sociale, i diritti fondamentali del cittadino, la sua partecipazione alla vita dello stato sono elementi qualificanti di una storia, di una cultura e di una società europea originale e non assimilabile all’economicismo liberista. I fallimenti dell’Europa dei tecnocrati non dipendono quindi dall’assenza del necessario consenso politico espresso dalla volontà popolare?

E’ evidente che la UE è un grosso testone senza corpo. A Strasburgo i grandi assenti sono i popoli, le nostre etnie. I tecnocrati e i grandi capitalisti, senza ascoltare le opinioni di circa 400 milioni di europei, hanno fatto la loro Confederazione sindacale e l’hanno elevata al rango grottesco di Stato. Nietzsche, che amava l’Europa ma detestava quella del suo tempo – borghese, democratica, commerciante, plebea… - lamentava che il distacco delle etnie dal loro sostrato esistenziale avrebbe prodotto un “branco utile e laborioso…essenzialmente supernazionale e nomade” fatto apposta per servire la razza dei padroni-tiranni. Ma, se pure questi li attribuiva al progresso e al “movimento democratico europeo”, la sua dote profetica non avrebbe mai immaginato quanto a fondo si sarebbe scavato l’abisso tra oligarchie dirigenti e popolo. L’Europa ha sempre conosciuto la partecipazione dal basso. A parte i casi particolari, dall’agorà greca al tribunato romano, dal thing germanico all’assemblea di villaggio o del libero comune, dal mir slavo alla gilda alla corporazione fino ai partiti di massa e allo Stato sociale, il popolo ha molto spesso pesato sulla bilancia del potere. E proprio i regimi totalitari del Novecento poggiavano sui loro istituti sociali d’avanguardia, i loro riti acclamatori di massa, il loro comunitarismo, la loro cultura della solidarietà di popolo, vissuta quotidianamente e non biascicata per devozione democratica. L’idea di Nazione e quella di Popolo sono nate in Europa. “Nazione – scriveva lo Chabod, che non era né fascista né razzista – significa senso della singolarità di ogni popolo, rispetto per le sue proprie tradizioni, custodia gelosa delle particolarità del suo carattere nazionale”. Nell’orgia di etnoesaltazione per i popoli altri, credo che dovrebbe trovar posto un giusto rispetto verso la nostra stessa tradizione, la nostra civiltà, la nostra storia, i volti e le esigenze della nostra gente. La quale ha sempre conosciuto la via della solidarietà, senza sentirsela insegnare da chi applica l’individualismo selvaggio. L’edificazione di un ufficio burocratico estraneo agli interessi dei popoli europei non è esattamente la realizzazione del vecchio sogno di creare la Nazione-Europa. “L’Europa, sia in pace sia in guerra, basta pienamente a sé stessa, poiché non manca né di uomini dediti alle armi, né di coltivatori, né di cittadini”, affermava lo storico Strabone. Questa, duemila anni dopo, è ancora l’Europa possibile. Poiché il male è ciò che è malsano, confuso, degenerato. Come lo Zarathustra di Nietzsche già ricordava, più di cent’anni fa: “Ditemi, fratelli: che cosa per noi è cattivo, anzi più cattivo di tutto il resto? Non è forse la degenerazione?”. Il gigantismo distruttivo degli USA e la prepotenza del potere economico atlantista devono trovare in ogni uomo europeo un baluardo insuperabile. Ricordiamoci che spesso le rivoluzioni iniziano dai piccoli gesti.