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  1. #21
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    Predefinito comunicato stampa A.M.I.

    Il prof. Roberto Balzani, dell’Università di Bologna e vicepresidente dell’Associazione Mazziniana Italiana, il dott. Pietro Caruso, giornalista, il prof. Sauro Mattarelli, direttore del “Pensiero Mazziniano”, sono i relatori al seminario di studi che si tiene a Cervia su iniziativa dell’Associazione Mazziniana Italiana e della sua rivista, “Il Pensiero mazziniano”, in collaborazione con la locale Cooperativa “Aurelio Saffi”. Durante i lavori verrà affrontato il tema:

    “Pinocchio: le bugie del potere. Paese reale, Paese legale, Paese virtuale.”

    L’iniziativa, coordinata da Ornella Piraccini, costituisce l’ideale proseguimento di un analogo incontro che ha avuto luogo nell’aprile scorso ed è rivolta specificatamente a un gruppo di circa 40 giovani studiosi provenienti da tutta Italia, ma viene aperta al pubblico e si svolgerà secondo il seguente calendario:

    venerdì 1 novembre presso la sala riunioni della Coop. Saffi di Cervia (RA), viale Roma n. 3, a partire dalle ore 15.00: Prima sessione dei lavori, preceduti dai saluti delle autorità presenti;
    sabato 2 novembre, ore 09.00: Seconda sessione dei lavori, presso la stessa sede.

    È prevista una ampia riflessione e un dibattito sui temi esposti nelle relazioni principali.

  2. #22
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    tratto da

  3. #23
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    Per la lettura di Pinocchio ... in rete

    Copertina
    Pinocchio (01)
    Pinocchio (02)
    Pinocchio (03)
    Pinocchio (04)



  4. #24
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    Pinocchio:
    le bugie del potere


    L’uso sistematico della menzogna presuppone un controllo di tipo monopolistico sui cosiddetti mezzi di informazione di massa e, soprattutto, una meticolosa opera di cancellazione delle memoria storica. L’impiego martellante dei media come lavagna cancellabile giorno per giorno, aggiunto al lancio del messaggio politico con le stesse modalità di uno spot pubblicitario, facilita notevolmente la riduzione della profondità temporale. La gran parte delle persone viene così indotta a "dimenticare" o, meglio, a ricordare solo ciò che viene sollecitato alla memoria secondo scelte mediatiche funzionali al potere.
    "Sono tanto semplici li uomini – scriveva Machiavelli nel Principe XVIII, 3 – e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare." Dello stesso parere sembra in nostro autore di riferimento, Carlo Collodi: nel colloquio successivo all’inseguimento nel bosco, il Gatto neppure nasconde i segni della lotta seguita al vano assalto a Pinocchio; ma il burattino crede alla incredibile spiegazione "umanitaria" dello zampino offerto in elemosina a un povero affamato. Anche Manzoni mette ripetutamente in guardia i suoi lettori dal pericolo della menzogna, sia nella Storia della colonna infame, sia nei Promessi sposi. Come evidenziato da molti critici, finché Renzo si affida all’osservazione dei comportamenti, degli atteggiamenti delle persone, dei "segni" riesce a formulare giudizi assennati. Quando fa riferimento alle parole si lascia facilmente ingannare. "Ci sono più sciocchi che furbi al mondo – asseriva il poeta inglese S. Butler – altrimenti i furbi non avrrebbero abbastanza da vivere". Ma il discorso andrebbe allargato a tutta la categoria delle persone "semplici" a cui bisognerebbe insegnare a difendersi dalla menzogna.
    Oggi il problema si complica ulteriormente. Senza richiamare in causa le tesi sui messaggi subliminali (che però andrebbero sicuramente esaminate con l’aiuto di esperti), non si può tuttavia ignorare che la gran parte delle persone può essere indotta artificiosamente a "dimenticare", oppure a ricordare solo ciò che viene sollecitato alla memoria secondo le scelte di quanche elite. Napoleone affermava che se avesse allentato le briglie sul collo della stampa non sarebbe restato al potere più di qualche giorno. Mussolini venne definito "grande attore" in una pungente analisi del professore anarchico Camillo Berneri; e infatti, grazie a un mirato uso dei media, poté ben presto trasformarsi nel "grande statista", nel "grande lavoratore", nel "grande condottiero" che buona parte degli italiani riconosceva in lui durante il "Ventennio". Analoghi e ancor più calzanti ragionamenti potrebbero essere svolti attraverso lo studio dei protagonisti del totalitarismo sovietico (Stalin) e del nazismo (Hitler), ma sono possibili anche curiosi esempi "a rovescio": un’abile propaganda potrebbe ridipingere gli artefici del New Deal e dello "stato sociale" come precursori del totalitarismo comunista e "statolatro". Nel tempo de "li dei falsi e bugiardi" un sondaggio d’opinione ha la facoltà di sancire, "democraticamente", fuori da ogni ragionevole dubbio, la fondatezza "storica" di qualsiasi affermazione, rendendo superflua anche una eventuale consultazione sull’argomento. Oppure può condizionare pesantemente gli esiti delle elezioni stesse per la nota legge cosiddetta "placebo" legata alle attese di un risultato. Il paese virtuale può in questo modo fondarsi su una menzogna (storica e non) perpetuata e sostituire o, meglio, costruire, agevolmente, senza violenze apparenti, un paese reale a misura del potente di turno. E il paese "legale"?
    In un simile contesto dovrà per forza coincidere con il paese reale, scaturito dal virtuale. Per stabilire se si tratti di fantascientifici scenari orwelliani o di nuove, concrete, forme di tirannia e di dispotismo riproponiamo la lettura della scena di Pinocchio di fronte al giudice del paese di Acchiappa-citrulli dopo che ha finalmente capito di essere stato derubato e ha perfino individuato i malfattori.

    "Preso dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.
    Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che Era costretto a portare, a motivo di una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni.
    Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini e finì col chiedere giustizia.
    Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.
    A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.
    Allora il giudice accennando a Pinocchio disse loro:
    · Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione. –
    Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono al bocca e lo condussero in gattabuia.
    E lì v’ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto anche di più, se non si fosse dato un caso fortunatissimo. Perché bisogna sapere che il giovine Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una gran vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di berberi e velocipedi, e in segno di maggiore esultanza volle che fossero aperte le carceri e mandati fuori tutti i malandrini.
    · Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io – disse Pinocchio al carceriere.
    · Voi no, - rispose il carceriere – perché voi non siete del bel numero…
    · Domando scusa, - replicò Pinocchio – sono un malandrino anch’io.
    · In questo caso avete mille ragioni, - disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente, e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare."

    S’impone ora una riflessione ulteriore sull’uso sistematico della menzogna e sul tipo di libertà che ne deriva. In questa sede ci limitiamo solo a rapidi accenni.
    Una caratteristica sembra accomunare i regimi dispotici e quelli tirannici e riguarda l’uso della menzogna per gestire il potere: un’evidente conseguenza del fatto che la legge venga sostituita dall’arbitrio, dal capriccio momentaneo del potente che è fuori dalle regole comuni e anzi può modificarle in ogni momento come nell’assurda partita a "croquet" di Alice. I regimi dispotici e tirannici possono apparire liberali, concedere grazie ma, nella sostanza, la loro caratteristica è il rifiuto della libertà (sia nella concezione liberale del termine, sia, a maggior ragione, nella concezione repubblicana) perché, come ha insegnato Montesquieu, con la scomparsa di ogni riferimento alla legge e della certezza del diritto, viene incoraggiato, o richiesto, in realtà il servilismo. Pinocchio, mentendo e asserendo di essere un malandrino come gli altri, compie un gesto servile, di sottomissione. È questo che gli chiede il potere: di essere più burattino che mai.
    La libertà che egli ottiene è evidentemente una falsa libertà, sempre revocabile.
    La eventuale libera adesione a un siffatto regime (indotta) non ci dice nulla sul fatto che quel popolo sia effettivamente libero. Manca ogni presupposto di "non interferenza", manca, soprattutto, l’indipendenza individuale e quindi la piena consapevolezza della persona che compie le scelte. In un simile scenario, un magistrato servile, potrebbe arrestare non tanto per adempiere ai dettati della legge, ma per compiacere il "regime". Mancano, dunque, i presupposti per ogni dialogo, partecipazione a dimensione umana, pari dignità fra le persone senza distinzione di censo, sesso, razza, religione, fede politica.
    Ora il problema è di stabilire fino a che punto si spinga la realtà oggi; se nelle nostre democrazie occidentali i germi del dispotismo e della tirannide si annidino davvero, ammantati dalla demagogia, dalla menzogna elevata a potere. In altri termini, la questione che poniamo è se il presunto "anacronismo" di questi concetti non derivi semplicemente dal fatto che sono cambiati gli strumenti utilizzati per perseguire fini che restano, sostanzialmente, gli stessi. Il dispotismo contemporaneo (il "virus del dominio", come lo definiva Danilo Dolci) potrebbe, dunque, materializzarsi coltivando le abissali solitudini, i profondi silenzi della nostra epoca. Fare leva sui bisogni, sulla povertà di ampie masse di diseredati. Affermarsi grazie a paure reali o artificiosamente costruite. Consolidarsi sotto l’incalzare di martellanti operazioni omogeneizzanti, rese possibili dalla evidente sproporzione fra i poteri (economici, politici, dell’informazione) di dimensione "globale" e le persone comuni.
    E la bugia? Qual è il suo ruolo? La letteratura sterminata sull’uso della menzogna nell’esercizio del potere si sofferma spesso sulla lode della menzogna. Non stiamo parlando della bugia innocente, "privata", occasionale, "pinocchiesca", legata alla fantasia, al desiderio di evadere da una realtà scomoda; ma di un uso scientifico del falso e della falsificazione, tipico delle forme totalitarie che oggi possono proporsi in forma anomala, subdola come tentativo metodico di rendere "instabile" ogni riferimento. Il contrario, almeno in apparenza, dei vecchi totalitarismi di tipo sovietico, ma con effetti simili. Dal punto di vista filosofico una tale "logica" (senza scomodare le analisi popperiane della falsificabilità), per coerenza, dovrebbe presupporre l’eliminazione di ogni costante, con l’affermarsi di una sorta di legge dell’ineffabile, della vacuità di tutte le strutture (statali in primis). A questo "livello" dovrebbe però essere legittimo rivendicare anche "l’instabilità" del despota-tiranno. Ma in realtà, più spesso, la bugia funge da semplice supporto quotidiano al potere del despota, fino a diventare mezzo di oppressione in caso di disponibilità in forma monopolistica dei mezzi di trasmissione di massa. a cui ci si può opporre solo con forme di resistenza che vanno dal "passaparola" a tentativi violenti di abbattimento del tiranno, a casi di terrore, funzionali, anche se "opposti", alla stessa logica dispotica, come tesi che alimenta l’antitesi.
    Il potere che invece ambisca a una democrazia di lunga durata (superiore alla vita di un solo individuo), fondata su un autentico (non artificioso) consenso popolare dovrebbe fare a meno, mazzinianamente, della menzogna che implica non responsabilità e, comunque, un divario inaccettabile fra potere esercitato e responsabilità conseguente. L’uso sistematico, plateale, grottesco della bugia caratterizza un dispotismo tirannico, direbbe Umberto Eco, "da Basso Impero".
    Nel passato, come abbiamo rimarcato, ci sono stati numerosi tentativi di manipolare l’informazione, anche presso sistemi democratici. Ricordiamo il caso recente quando l’amministrazione Nixon affidò a Herv Klein, responsabile del servizio di comunicazione, il compito di imbastire una campagna capace di distruggere la credibilità della stampa che stava sollevando il caso Watergate. Curioso notare come, in quella occasione, molti intellettuali si fossero posti al servizio di questa manovra attratti, oltre che dal denaro, dalla prospettiva di smantellare uno dei cardini della Costituzione americana. Proprio nel paese in cui, nel 1858, Lincoln, nel noto discorso di Clinton, aveva solennemente dichiarato che:
    "Puoi imbrogliare tutta la popolazione alcune volte, o imbrogliare parte della popolazione tutte le volte, ma non si può imbrogliare tutte le volte tutta la popolazione."
    Nella realtà presa in esame, comunque, media e giudici non erano asserviti all’esecutivo e il messaggio che ne deriva implicherebbe, almeno, un uso moderato della menzogna in democrazia e la non sovrapponibilità fra paese virtuale, paese reale e paese legale pena il rischio di "neutralizzare" la democrazia stessa.
    Più drastica l’opposizione alla menzogna di Mazzini, non tanto per una ragione utilitaristica, ma per un principio morale. Oriani vedeva un limite evidente in quell’incapacità di mentire, lui che concepiva machiavellianamente la politica come "l’inganno sublime". Ma per Mazzini la lotta politica non consisteva nell’esercizio del potere fine a se stesso; era ricerca dell’uomo, di res publica, di strutture a dimensione umana capaci di far(ci) crescere. Per questo motivo l’uomo politico, l’apostolo, andava valutato sui gesti quotidiani, sui fatti a cui la popolazione deve guardare al momento di scegliere i propri rappresentanti. Non una rinuncia all’esercizio del potere: dovere, alto e tutt’altro che disprezzabile, solo un monito per comprendere come muoversi nel mondo dei "furbi", come resistere, per esistere da uomini liberi, per liberarci dalle forme di "schiavitù della mente" che oggi possono perpetrarsi anche senza ricorrere a forme violente, attraverso la trasformazione dei cittadini in consumatori, la sistematica "banalizzazione del male", la coltivazione della superficialità morale e culturale, perché, come diceva Ignazio Silone, "non c’è peggiore schiavitù di quella che si ignora".
    Affrontare il tema altamente etico della individuazione (del controllo) della menzogna nella politica impone, allora, un percorso che è innanzitutto interiore, capace di liberare l’uomo dal burattino, di recidere i fili della schiavitù che possono allignare nella povertà, nella violenza, nel ricatto, nella persuasione occulta, nell’ingiustizia diffusa, nei diritti violati, nei doveri irrisi, nelle immense solitudini.
    Per evitare gli "omini di burro" che propongono improbabili paesi dei balocchi, i prestigiatori e i demagoghi occorre, inoltre, che il paese virtuale resti sul piano della virtualità, sia sempre utopia. Non il "non luogo", di Tommaso Moro, ma, semmai, la meta, kantiana, verso cui tendere, la siepe leopardiana oltre cui gettare i sogni per poi inseguirli, se è vero che il progresso è (anche) la "realizzazione delle utopie".

    Sauro Mattarelli

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    tratto dal sito web del
    PENSIERO MAZZINIANO



  5. #25
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    Predefinito tratto da IL PICCOLO DI TRIESTE 12 febbraio 2003


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    «Chicago» fa il pieno di nomination, delusione per Roberto Benigni
    Pinocchio escluso dagli Oscar

    LOS ANGELES - Il musical «Chicago» ha fatto il pieno di nomination agli Oscar con ben 13 candidature tra cui quella per il miglior film. Seguono «Gangs of New York» di Martin Scorsese e «The hours» con Nicole Kidman rispettivamente con 10 e 9, mentre resta a secco Roberto Benigni con il suo «Pinocchio» escluso dalla corsa al miglior film in lingua straniera. A competere per le ambite statuette del cinema che saranno assegnate il 23 marzo anche «Il signore degli anelli: le due torri» e «Il pianista» di Roman Polanski.

  6. #26
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    Predefinito tratto da L'ARENA giornale di Verona 4 marzo 2004

    Divertiamoci a teatro . Pubblico scarso ma generoso negli applausi per il balletto di Fabula Saltica che offre numerose e belle suggestioni

    Pinocchio muove la magia

    Alessandro Vigilante rende con efficacia il burattino

    È uno spettacolo molto grazioso e curato Pinocchio, burattino senza fili , accolto con calore l’altra sera al suo debutto al Nuovo: il balletto proposto da Fabula Saltica (nell’ambito della rassegna Divertiamoci a teatro) offre una bella occasione per avvicinare i più piccoli all'opera collodiana e per offrire un’ora e mezzo di piacevole intrattenimento ai più grandi. Il balletto, con molta pantomima nell'impianto, ricrea con fedeltà e rispetto gli episodi principali della fiaba, su coreografie di Claudio Ronda e sulle indimenticate, grandi canzoni dell'album di Edoardo Bennato che regala il titolo. La scenografia, unica, è un grande Gioco dell'oca, le cui caselle luminose scandiscono i quadri dello spettacolo. La voce di Bennato attacca Ogni favola è un gioco , prima casella che si illumina e che segna l'inizio del percorso. Ecco dunque Geppetto alle prese con il tronco da cui, con paziente ed abile lavoro di intaglio, ricaverà il burattino (Alessandro Vigilante); questi non fa neppure in tempo a muovere i primi, incerti passi che è già pronto a fare malanni, nascondendosi ai carabinieri e al babbo. Il grillo, con una danza aggraziata ed elegante, tenta di raddrizzare il monello di legno, ma con i noti scarsi risultati. Ben preferibili gli appaiono le atmosfere invitanti che circondano il gran Mangiafuoco, che si manifesta su un quadro di ballo scatenato e ravvivato da costumi di indovinato impatto. Vigilante, di acerba magrezza esaltata dal costume che richiama il suo stato di burattino, continua il suo scapestrato peregrinare e si imbatte ne Il gatto e la volpe , sulle note più conosciute di Bennato.
    Si uscirà dal teatro con la voglia di riascoltare o di acquistare quel disco, vecchio di ormai 27 anni, ma senza una ruga. Non può mancare, eterea nelle sue vesti turchine, la fata che si prende cura di Pinocchio tra dotti, medici e sapienti che sputano sentenze e tra le burle in danza di una coppia di asini (ancora un doveroso elogio ai costumi). Un successivo cambio di luci e un tappeto trasformano la scena nel campo dei miracoli, dove il citrullo di legno nasconde una moneta sotto terra per vederne un albero la mattina successiva, ma arrivano prima il gatto e la volpe a derubare l'allocco.
    "Fermo un giro in prigione", nella migliore tradizione del gioco, è il pretesto per uno dei quadri più originali dello spettacolo, in cui un giudice corrotto danza su un dado-cubo, attorniato da detenute abbigliate nel più classico costume a righe. Un intermezzo scolastico, con Lucignolo che porta scompiglio tra una schiera di scolaretti, vestitini alla marinara, grembiulini, cappellini e fiocchi. Chi può riuscire a traviare Lucignolo se non il nostro monello? L'euforia data dal paese dei balocchi è breve ed effimera; ecco aprirsi la pagina più triste della fiaba, in cui l' "asino" Pinocchio è vessato e maltrattato, fra personaggi di un circo crudele, e quindi eliminato. Sembrano personaggi felliniani nei loro costumi luccicanti e nelle forme posticce che indossano: la pancia del trapezista strizzata da una fusciacca dorata, i seni prosperosi, esagerati della ballerina.
    Per l'epilogo suonano le onde del mare, a coronare l'incontro fra Pinocchio e Geppetto nel ventre della balena. Così, il burattino diventa bambino, toglie i buffi abiti con cui lo aveva teneramente addobbato il babbo falegname e festeggia a passo di danza tra i compagni la nuova vita.
    Pubblico scarso, ma caloroso nel premiare con applausi la riuscita rappresentazione, la simpatia e l'arte dei giovani in scena. Un particolare, ulteriore apprezzamento per i costumi divertenti e nello stesso tempo eleganti, curati, colorati, da fiaba, opera di Ivan Stefanutti. Vigilante, primo ballerino, è snodato a sufficienza per rendere con efficacia la legnosità del suo personaggio e viene supportato da affiatati compagni. Replica questa sera alle 21.
    Alessandra Moro

  7. #27
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    Predefinito tratto da LA VOCE REPUBBLICANA

    Mazzini e l’uomo

    L’uomo posa i piedi (sulla terra), e la sua fronte si volge al cielo, come se egli volesse avviarsi in quella direzione. Lassu’, splendente luminosa nel cielo serenamente felice, o nascosta da nuvole oscure di tempesta, sta la sua stella polare.

    (G.Mazzini, 1846, Pensieri sulla Democrazia in Europa, pag.129, Feltrinelli 1997)
    [mid]http://utenti.lycos.it/NUVOLA_ROSSA/INNONAZIONALEBELGA.mid[/mid]

  8. #28
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    Predefinito La consapevolezza e lo scetticismo dei laici, di Pietro Caruso

    La consapevolezza e lo scetticismo dei laici

    La prima cosa di cui ci si deve rendere conto da laici, se si vuole essere coerenti con il metodo che sa nutrire il proprio cammino intellettuale di dubbi, è che i numeri hanno la loro importanza, anche se per fortuna non bastano da soli a definire il proprio posto nel mondo e nella storia. In Italia le correnti politiche e culturali che si richiamano, in modo intransigente, alla laicità sono una minoranza, forse ancora più ridotta che nel secolo scorso. Lo sono non soltanto per la capacità con cui, storicamente, la Chiesa cattolica di rito romano ha saputo essere il principale faro di orientamento morale per la maggioranza degli italiani, ma anche perché lo stesso sistema politico è stato influenzato dagli aspetti della dottrina sociale ecclesiastica ed anche perché il mondo laico non ha saputo e voluto costruire, in modo altrettanto strutturato, un sistema con gerarchie così forti, favorito anche dall’assenza dei dilemmi e della complessità a cui obbliga la democrazia che riconosce il principio dell’alta autorità ma non quello della obbedienza devota, cieca davanti a tutto. Il bagno di umiltà e la conseguente consapevolezza conviene sempre quando si voglia pesare la forza delle componenti culturali, ideali e politiche del mondo laico dal medioevo ad oggi nel territorio nazionale. Nessuno dei vecchi contendenti, così ben descritti nel conflitto di potenza e di potere, più che di fede o di dottrine, fra l’imperatore Federico II e il papa Innocenzo IV, può ai nostri tempi proporre nella lotta fra un principe, più o meno illuminato e un papa, più o meno secolarizzato, un fondato contrasto fra pensiero laico e pensiero religioso. Il dilemma di oggi non è questo, perché entrambi i contendenti hanno fatto tesoro di esperienza. Il tempo dei ghibellini e dei guelfi è finito, anche se le ragioni profonde di quei conflitti non devono essere sottaciute, perché richiamano a comportamenti che per secoli hanno modificato le comuni impostazioni, ma possono tornare ad affiorare se qualcuna delle parti in gioco non alimenta, continuamente, la propria volontà di superamento dei propri limiti e la sottolineatura delle differenze. Nel sistema politico odierno lo scempio continuo che si fa di concetti, idee e pensieri in cambio di una concezione sempre più cinica e mercantile della conquista del potere finisce per sconcertare e per produrre, questa volta non soltanto fra minoranze, un sempre più diffuso scetticismo. Il malessere di un italiano su quattro che comunque ha preferito il voto alla non partecipazione nella tornata referendaria contro la legge sulla procreazione assistita non è ancora assorbito e fa male chi sottovaluta come lo schiaffo inferto dalle gerarchie vaticane abbia aperto ferite in un corpo sociale e politico che dovrebbe, sui grandi valori della civiltà e della convivenza, rimanere unito. Del resto come negare che una parte della gravità della crisi dell’Occidente sia misurata anche dal tasso di crescente incredulità che avvolge parole d’ordine come democrazia, onestà intellettuale e personale delle leadership, forza dell’ideologia liberale che si muove nei Paesi della fascia del capitalismo affluente capace di rendersi elastica quando in discussione sono i propri interessi materiali e ideali? E’ paradossale che esistano comportamenti turbo-capitalistici capaci di rinnovare persino credibilità alle utopie di un Marx che stava per essere, definitivamente, relegato in soffitta. Ha ragione chi ha parlato della necessità di una vera e propria rinascita delle ragioni dell’Occidente ma è proprio su questo terreno che il pensiero laico, irrobustito dalla tradizione mazziniana segnata da rigore morale e vigore ideale, deve cimentarsi. Di fronte ai paladini dello “scontro di civiltà”, ai fomentatori di una pericolosa sostituzione del conflitto fra Paesi capitalisti e Paesi socialisti del secolo scorso, con una contrapposizione frontale nell’oggi fra Cristianesimo e Islamismo, proprio la saggezza di una parte significativa del pensiero laico deve venire in soccorso, scendere in campo. Innanzi tutto perché sottolineando l’importanza di un dio, entità suprema per tutti, lo valorizza sì ma attraverso la dimensione personale ed è proprio Mazzini a ricordare che “è la nostra coscienza a invocarlo nei momenti più solenni, di dolore e di gioia. L’universo lo manifesta con l’ordine, l’armonia, l’intelligenza delle sue leggi”. Chi, in Occidente, per inettitudine, calcolo, ignoranza, strumentalizzazione, esaltazione, sta gettando benzina sul fanatismo religioso di segno islamico commette un duplice, gravissimo, errore: costringe il mondo dei credenti cattolici a schierarsi come di fronte ad una nuova crociata e alimenta la divisione nel mondo fra chi ha una visione più mite e tollerante e chi invece bellicista e insofferente. Può darsi che non ci sia neppure un’occulta regia per favorire questo scontro, ma il sospetto che questa scommessa dello scontro di civiltà sia una trovata, rischiosa, per rinviare i conti con le proprie strutturali insufficienze, la perdita di identità e di ruolo, non può, a nostro avviso, essere fugato. O meglio se si vuole avere un Occidente unito nelle sue ragioni di fondo esso deve rivivere, ma non attraverso la “soluzione finale”, il furore biblico dell’“Armageddon”, il disegno neo-imperialistico politico ed economico su scala mondiale. Questo modo di intendere il presente cozza con la più elevata teologia cristiana, aperta al dialogo interconfessionale e rovina il consolidato (ma non indistruttibile) patrimonio storico della democrazia che ha imparato il valore del metodo negoziale, il ruolo delle istituzioni e delle comunità sopranazionali dopo due sanguinose guerre mondiali. E’ vero: all’interno dei Paesi democratici si muovono minoranze intolleranti capaci di solidarizzare più con il nemico che con le regole le quali, tra l’altro, rendono possibile la manifestazione del dissenso. Lo scetticismo dei laici non è un’arma disfattista, ma la razionaleconsapevolezza che vicende come la vittoria di Hamas in Palestina non aiutano la via della pace, come non lo aiuterebbe però se Likud vincesse ora le elezioni in Israele.Questo scetticismo si nutre di una critica alla gravità di atteggiamenti politici che riducono gli aiuti per le popolazioni più povere, non modificano il proprio prodotto interno lordo a favore del terzo e quarto mondo, rinviano gli esiti dei Trattati sul disarmo sine-die e con essi la possibilità di poter contare non sull’uso della forza
    delle nazioni, ma al contrario il potere dissuasivo dell’autorità degli organismi continentali e mondiali, anche attraverso una riforma dell’Onu che è stata ulteriormente rinviata, svuotata di ogni significato. Questo spirito critico dei laici italiani non è diverso da quello dei liberal americani o dei liberali inglesi. Non tradisce le ragioni dell’Occidente, ma non è disponibile a firmare qualsiasi nefandezza nel proprio nome. Nessuno vuole difendere il disegno perverso dei terroristi politici che sfruttano l’integralismo religioso di una parte significativa del mondo musulmano per dissestare il mondo… ma quando si mette in mora l’“habeas corpus”… cioè la custodia personale del corpo del nemico, prima che sia giudicato da un regolare tribunale… la democrazia è violata. Quando ci si compiace delle torture, innestando il sadismo come arma psicologica per scacciare il proprio terrore… la nostra democrazia esce sconfitta, violata. E così dopo dio, già evocato come irrinunciabile principio ordinatore ma non il padre di tutte le guerre (così miseramente umane), l’altro termine con cui bisogna fare i conti è il popolo. Un popolo che, è vero, non ha più le caratteristiche della prima o della seconda metà del XIX secolo, ma una nuova complessa connotazione sociale, un vero e proprio riscontro, nelle masse delle grandi nazioni asiatiche sub-continentali, come l’India, la Cina. Né si può
    negare che esista in Europa, se concepiamo questa realtà con interessi socio-economici convergenti, o se ci si rivolge ai ceti del lavoro nella Russia o negli Stati Uniti. Una visione miope, dotata questa sì di un cieco relativismo culturale e ideologico, pretende di spostare il centro di esistenza del capitalismo dagli interessi delle merci, dei prodotti e delle loro leggi di mercato, alla dimensione astratta, essenzialmente di tipo speculativo, economico-finanziario dei “paradisi fiscali”. In questo grande gioco, appena lo hanno compreso, sono saliti alla ribalta tutte le forme di “quasi istituzione”, rappresentate dalle astute ed estese organizzazioni criminali transnazionali capaci di valorizzare in circuiti legali, introiti realizzati anche attraverso efferati crimini, riprodotti a ciclo continuo. Il terreno di alleanza possibile fra cristiani saggi e laici volenterosi è quindi oggi cercare di non fare fallire l’intero sistema di diritti e di doveri conquistati attraverso secoli di lotte e di errori che hanno portato all’idea dell’Europa e che trovano anche nei valori fondanti della democrazia. Invece una parte significativa del mondo politico italiano è su posizioni di grave arretramento ideale. Non solo non siamo più nel gruppo dei sei Paesi più forti del mondo dal punto di vista economico, ma fra quelli che sperimentano con maggiore frequenza alcune degenerazioni gravi del sistema della democrazia: il permanente conflitto d’interessi del Premier, una non imparziale conduzione della televisione pubblica, lo sfregio dello spirito pubblico. Cosa sarebbe accaduto in Italia senza la premurosa azione di tutela dei valori civici esercitati dalpresidente Carlo Azeglio Ciampi? Il popolo dei credenti a sua volta ha bisogno di ritrovare la propria identità non tanto sul potere della propria istituzione, ma su quell’insieme di valori che hanno fatto maturare una religione nata come settaria e minoritaria, nella più matura, e seguita, forma delle fedi moderne. Senza l’incontro con la filosofia greca non sarebbe potuto accadere questo, ma anche senza le tensioni, i cambiamenti, le riforme introdotte dalle sette protestanti e dalle rivoluzioni liberali e democratiche che hanno modificato i rapporti fra sudditi, monarchie, chiese, dio in relazioni fra cittadini, istituzioni repubblicane, istituzioni religiose e dio. Non si vuole prendere atto di tutto questo? L’Occidente vuole assaporare un nuovo enorme bagno di sangue, per poi sperare di “rinascere”? Questa volta non troverà il consenso massimo, l’unanimità, ma dubbi, incertezze, non condivisioni, proteste, divisioni. L’inizio della nostra fine. Il “principe” rappresentato da élite, sempre più oligarchiche, che guidano le moderne democrazie, sembrano non avvedersi della perdita di fiducia che si manifesta nei popoli. La crescita dei diritti dell’individuo, i processi di emancipazione delle donne, la maturazione del senso dell’identità individuale di ragazze e ragazzi, l’innalzamento delle soglie di istruzione e degli accessi alle forme di conoscenza, la riduzione numerica, lenta ma costante, di quella parte dell’umanità che muore letteralmente ancora per la fame e per la sete, una maggiore sensibilità alle crisi ambientali del pianeta non sono aspetti che possono essere trascurati nell’agenda della politica quotidiana. Le parole sono pietre. Per questo mantenere in vita in Italia concetti come patria, indipendenza o società ideali che hanno mostrato il loro fallimento politico, come i regimi comunisti, all’interno della cifra di alcune forze politiche è un segno datato, una pigrizia intellettuale e il comodo orto per strumentalizzazioni politiche avversarie e d’altra parte come si fa ad esaltare in uno solo partito l’idea dell’Italia e la sua forza? Tra feroce cinismo e stupido anacronismo
    si stanno giocando i destini del Paese. In Italia la sensibilità emozionale del nostro popolo è più alta che altrove, ma la consapevolezza del coraggio civile che ci vuole nel definirsi cittadini della Repubblica è meno forte che altrove. La facilità con cui
    viene illuso l’elettorato, l’arretratezza della sua esperienza nel distinguere, per esempio, cosa convenga fare per innalzare la democrazia, come controllare meglio i propri eletti, cosa sia utile per rendere davvero più trasparenti le procedure interne ai partiti restano patrimonio di singoli studiosi, piccole minoranze. Del resto chi ha sapienza storica non può dimenticare che il cocktail formato da venti anni di fascismo, da una delle più squalificate monarchie della storia coronata dell’Europa moderna, dal più forte partito comunista dell’Occidente… originale, ma pur sempre condizionato, eccome, dal “fattore k” fino al 1989, da un partito democraticoforzatamente aggettivato dal culto religioso prevalente, non poteva per incanto nascere un bipolarismo eccellente sulle modalità della tradizione liberale anglo e americana o con quel piglio repubblicano tipico dell’esperienza francese o con la solidità, nata attraverso un processo molto doloroso di rielaborazione della sconfitta militare e politica, della odierna democrazia consociativa tedesca. Siamo, dunque, quel che siamo. Le minoranze laiche esistono, ma non sono quelle che possono risolvere la questione della “forza”. Tra l’altro sono attraversate da culti della personalità che fanno pena e tenerezza. Queste piccole componenti, tuttavia, sono comunità di grandi valori, ma hanno ormai due soli, potenti, alleati: l’integrità e la memoria. L’integrità perché si riconoscono in quelle tradizioni del Primo e del Secondo Risorgimento impregnate di un idealismo cosmopolita, umanitario, democratico, leale verso il concetto di patria ma anche in grado di distinguere bene chi è soltanto un cortigiano e chi un cittadino. Forse è anche per questo che nella galleria dei maestri di pensiero in cui ci riconosciamo dopo il profeta Mazzini, ci sono anche Salvemini, Salvatorelli, Rosselli, Gobetti, Calogero, Galante Garrone, Valiani e Bobbio. Questa integrità non riguarda i singoli, tutti sono passibili di errori, persino di orrori, ma non il filone di pensiero che li attraversa il quale, tra l’altro, si trasmette anche attraverso riviste, incontri, manifestazioni, battaglie di opinione, discussioni accese, euforie e delusioni, ma non con il culto orgiastico del potere. La memoria è la certezza di avere rintracciato nella storia quel motore incessante contenuto nella teoria del progresso sociale e della ricerca filosofica e religiosa interiore che danno un senso alla Storia, a partire dall’esperienza di ciascun individuo e persona. Non un arido storicismo, disposto a catalogare tutto con la stessa freddezza rimandando a un tomo di biblioteca la definizione dei concetti di dolore o di felicità di un’esistenza, ma l’empito sacro che collega il culto delle virtù antiche alle sfide dei moderni. L’intellettuale laico e scettico non può stupirsi, ormai, di nulla Questo però non lo rende cieco, solitario o inerte. A duecento anni dalla nascita di un “grande sconfitto”, abbiamo la certezza perché è valso la pena celebrarlo ancora e chi, invece, sarà perduto nella polvere del tempo, senza onori.

    Pietro Caruso


    ..................................
    tratto da il Pensiero Mazziniano n.3 anno 2005

  9. #29
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    La “piccola” differenza...

    di Aldo Chiarle

    Ho un amico “timorato” di Dio che se passa davanti ad una chiesa si fa il segno della croce e non tocca cibo senza aver prima ringraziato il Signore; ma è anche molto attivo nel volontariato e in opere di bene. In questi giorni nel farmi gli auguri cercava di convincermi che fra un uomo di Fede ed un uomo di Ragione come me, la differenza è minima. Gli ho raccontato la “favola” di Abramo, al quale apparve il Signore dicendogli di salire con il figlio che amava di più su una montagna, di preparare il rogo per l’offerta sul suo altare e che suo figlio Isacco sarebbe stata la vittima del sacrificio. Abramo obbediente partì, costruì un altare con le pietre, vi ammonticchiò le fascine, legò Isacco e lo stese su di esse: ma mentre stendeva la mano per prendere il coltello, una voce dal cielo gridò: “Abramo”. Egli rispose: “Sono qui, Signore”. E la voce riprese: “Deponi il coltello e non fare del male al tuo ragazzo. Poiché non mi hai negato un sacrificio così grande, ora so che il tuo cuore è perfetto”. Mi rispose che avrebbe fatto lo stesso perché nutriva troppa fiducia nel Signore e mi chiese come mi sarei comportato io. “Se mi fosse apparso Dio dicendomi quel che ha detto ad Abramo, gli avrei risposto: ma sei ciucco!?”. Ed aggiunsi: “Ecco la piccola differenza che esiste tra Fede e Ragione”.

    tratto da http://www.opinione.it/

  10. #30
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    Citazione Originariamente Scritto da Mantide
    Si,vabbè...ed a proposito del Paese dei Balocchi dell'Unione...

    Il naso lungo di «Repubblica»

    da Il Giornale

    «Collodi, Carlo: scrittore italiano, meglio noto con lo pseudonimo di Carlo Lorenzini». Così - incredibilmente, visto che come anche i bambini sanno, è esattamente il contrario - trattando dell’autore di Pinocchio, l’Enciclopedia Biografica Universale Treccani proposta in edicola da Repubblica. Se si considera che nel testo originale Treccani la citata castroneria non si rinviene, si deve concludere che sia stata introdotta ad arte per «adeguare» l’enciclopedia al livello culturale che è proprio di Repubblica.
    ... veramente da ridere ...

 

 
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