Pinocchio specchio dell'italiano
A Firenze una mostra sull'iconografia del romanzo di Collodi a 125 anni dalla pubblicazione
"C'era una volta…". Così Collodi avrebbe cominciato il suo straordinario racconto di Pinocchio e così sembra ripetere in Palazzo Pitti la mostra che, fino al 25 marzo, ne rievocherà la fortuna attraverso la rassegna completa delle sue edizioni storiche nelle quali si coglie l'evoluzione stessa del clima culturale ed artistico del Bel Paese tra la fine dell'Ottocento ed il secolo successivo. A queste prime edizioni si aggiungono quelle più recenti, con una breve citazione delle opere su carta di Mimmo Paladino per l'ultima traduzione in giapponese del testo collodiano, ormai letto sotto ogni cielo e in ogni lingua.
Da 125 anni. Da quando, alla fine di ottobre del 1881, il mondo dei bambini cadde nello sgomento perché il loro "Giornale", allineato in mostra, non dava più notizie di Pinocchio che due assassini, neri come la pece, avevano impiccato ad un ramo della Quercia grande. Lunghe giornate di penosi interrogativi per quei piccoli lettori che non riuscivano a darsi pace per la morte del loro eroe. L'incertezza dura fino a quando il caporedattore del periodico, Guido Biagi, non si decide a comunicare ai suoi bambini che il burattino dal lungo naso tornerà presto a farsi vivo. Pinocchio, dunque, non è morto. E anzi non morirà mai.
"Perché - spiega Antonio Paolucci in catalogo - è figura perfetta degli italiani. È bugiardo e opportunista, è sentimentale e patetico. Del nostro popolo ha lo storico disincanto: la scuola è una perdita di tempo, i giudici li hanno messi apposta lì, per castigare gli onesti. Come tutti gli italiani, Pinocchio è attaccato alla mamma e alla famiglia, cioè alla Fata Turchina e al povero Geppetto, e come tutti gli italiani è tendenzialmente anarchico e trasgressivo, insofferente di ogni disciplina. La Volpe e il Gatto esercitano su di lui, come su ognuno di noi, una non resistibile attrazione. Per questo il libro di Collodi è un capolavoro immortale e a noi italiani il burattino piace proprio perché è il nostro ritratto!".
Il "Giornale dei bambini", pubblicato a Roma dal 7 luglio 1881, era scritto da toscani, a cominciare dal direttore, Ferdinando Martini, cui era affidato anche il supplemento domenicale del "Fanfulla", il quotidiano che si era imposto soprattutto nella Firenze postunitaria per il piglio col quale trattava i fatti politici e culturali. Collodi ne era la firma più prestigiosa e meglio pagata e proprio a lui si era affidato Martini prima di accettare la direzione del nuovo periodico per l'infanzia, ricco di illustrazioni come già avveniva in America, in Francia e in Inghilterra. Un'idea geniale che finalmente offriva ai ragazzi una lettura piacevole ed istruttiva, affidata per giunta agli scrittori più illustri del momento. E Collodi era fra questi perché, tra l'altro, aveva già tradotto per i bambini nientemeno che i "Racconti delle fate" e pubblicato addirittura testi scolastici che, nonostante qualche errore, risultavano piacevoli agli scolari perché rompevano la monotonia dei manuali tradizionali.
Il "Giornale per i bambini", che anticiperà di qualche decennio il "Corriere dei piccoli" di Silvio Spaventa Filippi, era a sedici pagine ed usciva di giovedì. I piccoli lettori accolsero con entusiasmo la novità e la tiratura raggiunse le venticinquemila copie, una cifra da capogiro se si pensa che nell'Italietta di allora la legge Coppino sull'obbligo scolastico fino ai nove anni era largamente disattesa tanto che, dal censimento del 31 dicembre 1881, era emerso che non sapeva né leggere né scrivere il 69% dei bambini dai cinque anni compiuti ai dodici. Ad ogni modo, l'ultima puntata de "Le avventure di Pinocchio" comparirà sul "Giornale", ormai diretto da Collodi, il 25 gennaio del 1883. Subito dopo il libraio-editore Felice Paggi, attivo a Firenze in via del Proconsolo 7, avrebbe convinto Collodi a riunire in volume le puntate del suo racconto che sarebbero state illustrate da Enrico Mazzanti.
Non ci mise molto a riuscirci perché ormai Carlo Lorenzini aveva posto fine a trent'anni di battaglie civili, cominciate da giovanissimo con la partenza per i campi di Curtatone e Montanara. Il disincanto che ormai provava, da mazziniano sfegatato qual era stato, davanti agli opportunismi di una classe politica che aveva tradito i valori risorgimentali, spingeva Collodi a parlare ai bambini perché diventassero migliori dei padri. Una lezione che continua ancora oggi attraverso la fortuna di Pinocchio, la cui iconografia sarebbe passata dalle vignette di Mazzanti a quelle di Mussino fino ai disegni di Attilio Cassinelli per l'edizione del centenario collodiano.
Antonio Pecoraro
tratto da http://www.lasicilia.it/