LO STORICO BRITANNICO BERNARD LEWIS «Il vero problema è Arafat Non è interessato alla pace»
inviato a CERNOBBIO

ARAFAT? Purtroppo sono arrivato alla conclusione che non vuole la pace, mentre nel 1995, al tempo degli accordi di Oslo, ero convinto del contrario, ero molto ottimista». Bernard Lewis insegna a Princeton ed è uno dei grandi nomi degli studi islamici contemporanei. A Cernobbio per partecipare al Consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti, accetta di rispondere ad alcune domande sulla situazione in Medio Oriente.


Professor Lewis, che cosa le ha fatto cambiare opinione su Arafat?

«Arafat ha rivelato, tra la fine del 2000 e l'inizio del 2001, di non volere la pace. Il momento della verità è stato quando ha respinto la proposta dell'allora primo ministro israeliano Barak. Per Israele era un'offerta di straordinaria generosità, per altri osservatori no, ma si trattava comunque di una proposta sulla quale si poteva trattare. Invece Arafat respinse l'offerta, non fece controproposte e lanciò l'Intifada».

Perché, secondo lei, disse di no al piano Barak?

«Ci sono diversi livelli di interpretazione, ma penso che Arafat sia spaventato dalla pace: è stato un terrorista di fama mondiale, è per il terrorismo quello che Tiger Woods è per il golf, un fuoriclasse assoluto. Questo lo ha reso un figura riconosciuta a livello internazionale. Se lasciasse questo ruolo e accettasse di guidare uno Stato palestinese, diventerebbe il dittatorello di un piccolo Paese, con poche chances di sopravvivere politicamente a un probabile colpo di Stato».

Come vede oggi la situazione in Medio Oriente? Esiste ancora una chance di pace e da dove passa?

«C'è un'opinione diffusa secondo cui prima di muoversi in alcun modo contro l'Iraq bisogna sistemare la questione palestinese. Questo, com´è naturale, dà un forte incentivo all'Iraq a ritardare il più possibile la risoluzione della questione palestinese. Mi sembra che il discorso sull´"l'Asse del male", pronunciato dal presidente Bush dopo l'11 settembre, abbia avuto proprio questa conseguenza indiretta e involontaria: ha dato al governo dell'Iraq, e anche dell'Iran, ottimi motivi per creare ostacoli, com´è avvenuto in Pakistan o in Kashmir. Lo scopo di queste diversioni, non ho dubbi, è di sviare la guerra al terrorismo dai suo bersagli principali e finora questa tattica ha avuto successo. Allo stesso modo il coinvolgimento di Iran e Iraq con l'attività dei palestinesi è chiara. Saddam Hussein, ad esempio, ha aumentato il premi per i kamikaze da 10 mila a 25 mila dollari e sappiamo da molte fonti che movimenti come Hamas o gli Hezbollah sono armati, addestrati e in una certa misura diretti dall'Iraq e dall'Iran. Non ci sarà nessuna pace in Palestina, né alcun impegno alla pace, finché questi Stati sono coinvolti. E questo nonostante in Palestina ci sia chi vuole la pace e leghi indissolubilmente questo desiderio alla volontà di cambiare leadership politica».

Gli Stati moderati dell'area possono avere un ruolo?

«Paesi come l'Arabia Saudita e l'Egitto sono in una situazione molto difficile e paradossale. Hanno la popolazione più anti-occidentale e i governi più filo-occidentali. Non è un caso che la maggioranza dei terroristi dell'11 settembre venisse dall'Arabia Saudita. Così questi governi usano la questione palestinese come valvola di sfogo per le loro masse. D'altro canto i governi di Arabia Saudita ed Egitto sanno che la situazione in Medio Oriente minaccia anche loro. Questa è la ragione per la quale, molto di recente, hanno cominciato a parlare di pace. Se lo facciano in modo sincero o strumentale, non lo so. Il tempo ce lo spiegherà, ma penso che valga la pena di andare a guardare le loro proposte».

Lei vede ancora una soluzione possibile?

«Sì, penso che la pace sia possibile e la soluzione include di certo uno Stato palestinese. Il problema è capire se questo Stato debba sorgere accanto a Israele oppure al posto di Israele, come la propaganda palestinese continua a sostenere in ogni sede. Se i palestinesi possono essere portati ad accettare l'idea della coesistenza di due Stati e anche gli estremisti israeliani accettano questa soluzione, non vedo che cosa potrebbe ostacolarla. Stava già succedendo negli Anni 90, con una cooperazione economica tra Israele, l'Autorità palestinese e la Giordania, prima che l'Intifada bloccasse tutto».

E gli arabi israeliani?

«Sono un terzo della popolazione, devono restare. E' vero, in Israele sono in qualche modo cittadini di seconda classe, ma [u]godono comunque di maggiori diritti rispetto a tutti i cittadini di prima classe dei Paesi arabi[u]».

La Stampa 9.6.02