Edward Said
Poche settimane fa, a Washington, si è tenuta una chiassosa dimostrazione in favore di Israele, all'incirca nello stesso momento in cui Jenin veniva messa sotto assedio. Tutti gli oratori erano illustri personaggi pubblici, e tra loro vi erano diversi senatori, leader delle principali organizzazioni ebraiche, e altre celebrità, ciascuna delle quali ha espresso piena solidarietà con tutto ciò che Israele stava facendo. Il governo era rappresentato da Paul Wolfowitz, numero due al dipartimento della difesa, un falco di estrema destra che ha parlato di come "farla finita" con stati come l'Iraq, dopo i fatti dell'ultimo settembre. Conosciuto anche come sostenitore della linea dura d'Israele, nel suo discorso ha fatto ciò che chiunque altro avrebbe fatto - ha celebrato Israele, e ha espresso nei suoi confronti totale ed incondizionato appoggio - ma inaspettatamente ha accennato di sfuggita alle "sofferenze dei palestinesi". A causa di queste parole, è stato fischiato così sonoramente e così a lungo che non è stato in grado di continuare il suo discorso, abbandonando il palco quasi in mezzo al disonore.
La morale di questo episodio è che il pubblico sostegno degli ebrei americani per Israele oggi, semplicemente, non tollera nessun riconoscimento dell'esistenza di un vero e proprio popolo palestinese, eccetto nei contesti di terrorismo, violenza, perversione e fanatismo. Inoltre, questo rifiuto di accettare l'esistenza di una controparte, e addrittura di sentirne parlare, supera di gran lunga il sentimento di fanatismo contro gli arabi presente tra gli israeliani, tra quelli che combattono in prima linea in Palestina. A giudicare dalla recente dimostrazione contro la guerra di 60000 persone a Tel Aviv, il numero crescente di militari riservisti che rifiuta il servizio nei territori occupati, la prolungata protesta - ammessa da pochi - di intellettuali ed associazioni, e alcuni sondaggi che mostrano una maggioranza di israeliani che vuole ritirarsi per ottenere la pace con i palestinesi, c'è almeno qualche segno di attività politica tra gli ebrei israeliani. Ma non è così negli Stati Uniti.
Due settimane fa, la rivista settimanale New York, che ha una distribuzione di circa un milione di copie, ha pubblicato un dossier intitolato "Crisi degli ebrei americani", con sottotitolo "A New York, come in Israele [c'è] un problema di sopravvivenza". Non proverò a riassumere i punti principali di queste strane dichiarazioni, dirò solo che delineano una tale immagine di angoscia su "ciò che di più prezioso c'è nella mia vita, lo Stato di Israele", per usare le parole di uno degli illustri newyorkesi citati nella rivista, che si potrebbe arrivare a pensare che l'esistenza della più prospera e potente delle minoranze di questo paese sia realmente minacciata. In un altro intervento si va addirittura oltre, insinuando che gli ebrei americani siano sull'orlo di un secondo olocausto. Quello che è certo, riportando ciò che dice l'autore di uno degli articoli, gran parte degli ebrei americani sostiene con entusiasmo ciò che Israele ha fatto sulla West Bank; un ebreo americano afferma, per esempio, che suo figlio è ora nell'esercito di Israele e che è "armato, pericoloso e in grado di uccidere quanti più palestinesi possibile".
Il senso di colpa per il fatto di avere una buona posizione in America gioca certamente un ruolo in questo modo di pensare irragionevole, ma soprattutto è il risultato di uno straordinario auto isolamento all'interno di miti e di fantasie; un auto isolamento proveniente da un'educazione e da un acritico nazionalismo unico al mondo. A partire da circa due anni fa, con l'esplosione dell'Intifada, i media americani e le principali associazioni ebraiche hanno sferrato attacchi di ogni tipo contro l'educazione islamica nel mondo arabo, in Pakistan e persino negli Stati Uniti. Hanno accusato le autorità islamiche, in particolare quella Palestinese nella persona di Arafat, di insegnare ai giovani l'odio per America e Israele, i vantaggi degli attentati suicidi, e l'idealizzazione totale della jihad. Poco è stato detto, comunque, del risultato di ciò che hanno insegnato gli ebrei americani sul conflitto in Palestina: che è una terra che fu donata agli ebrei da Dio, che era disabitata, che è stata resa indipendente dal dominio della Gran Bretagna, che gli indigeni fuggirono seguendo la volontà dei loro leader, e infine che i palestinesi in realtà non esistono, a parte i recenti terroristi, che tutti gli arabi sono antisemiti e che vogliono uccidere gli ebrei.
In nessuno di tutti questi incitamenti all'odio esiste la realtà del popolo palestinese, e per di più, non viene fatto nessun collegamento tra la rabbia palestinese, la sua inimicizia verso Israele, e quello che Israele sta facendo ai Palestinesi dal 1948. E' come se un intera storia di espropriazione, la distruzione di una società, i 35 anni di occupazione della West Bank e di Gaza, per non dire nulla dei massacri, dei bombardamenti, delle espulsioni, degli espropri di terre, degli omicidi, degli assedi, delle umiliazioni, degli anni di punizioni collettive e degli assassini che si sono protratti per decine d'anni, non fossero più nulla, dal momento che Israele è stato reso una vittima dalla furia palestinese, dall'ostilità e dall'antisemitismo gratuito. Gran parte dei sostenitori americani di Israele non viene neppure sfiorata dall'idea di vedere Israele come il vero autore di azioni specifiche fatte nel nome del popolo ebreo dallo stato ebreo, e connettere di conseguenza queste azioni ai sentimenti di rabbia e vendetta dei palestinesi.
Il problema principale è che come esseri umani i palestinesi non esistono, come esseri umani dotati di una storia, di tradizioni, di una società, di sofferenze e ambizioni come quelle di tutti gli altri popoli. Se ci chiediamo come mai la maggior parte degli ebrei americani che appoggiano Israele, anche se certamente non tutti, non riconoscono l'esistenza dei palestinesi, è interessante constatare che alla radice di questa negazione stia, da una parte, la consapevolezza della presenza di un popolo indigeno in Palestina - tutti i leader sionisti lo sapevano benissimo e ne hanno parlato - e dall'altra, la mancata accettazione del fatto che questa presenza in sé fosse ragione sufficiente da impedire la colonizzazione. Da qui la pratica collettiva sionista di negare i fatti o, specialmente negli Stati Uniti dove la contingenza non permette una verifica, di mentire su di essa, producendo una realtà ribaltata. Per decenni è stato imposto di insegnare nelle scuole che non c'erano palestinesi quando arrivarono i pionieri sionisti e così quel miscuglio di popoli che lancia pietre e combatte contro l'occupazione è semplicemente un'accozzaglia di terroristi che merita di morire. I palestinesi, in breve, non meritano nulla di simile ad una propria storia o una realtà collettiva, e così devono essere trasformati e dissolti in immagini essenzialmente negative. Tutto ciò non è che il risultato di un'educazione distorta, distribuita a milioni di ragazzi che crescono senza assolutamente nessuna consapevolezza del fatto che i Palestinesi sono stati totalmente disumanizzati per essere asserviti a fini ideologici e politici, e cioè per mantenere alto il sostegno ad Israele.
Ciò che è davvero stupefacente, in una distorsione di questo tipo, è la mancanza di una nozione di coesistenza tra popoli diversi. Mentre gli ebrei americani vogliono essere riconosciuti come ebrei e come americani in america, sono tuttavia riluttanti a concedere un simile riconoscimento come arabi e palestinesi a coloro che sono stati oppressi da Israele fin dall'inizio.
Solo chi abbia vissuto per anni negli Stati Uniti può avere la consapevolezza dell'esistenza di un problema che trascende di gran lunga dalla politica ordinaria. La soppressione culturale dei palestinesi, verificatasi a causa dell'educazione sionista, ha prodotto un senso della realtà acritico, pericolosamente distorto, in cui qualunque cosa faccia Israele lo fa come una vittima: secondo i vari articoli a cui ho prima accennato, gli ebrei americani, che per estensione agli israeliani si sentono in crisi, avvertono, come gli ebrei israeliani di destra, di essere a rischio, sentono che è in gioco la loro sopravvivenza. Questo, ovviamente, non ha niente a che vedere con la realtà, ma piuttosto con una sorta di stato allucinatorio che supera i fatti e la storia grazie ad un estremo e sconsiderato narcisismo. Una recente presa di posizione in difesa di ciò che Wolfowitz ha detto nel suo discorso non si è neppure riferita ai palestinesi, ma si è espressa in favore della politica mediorientale del presidente Bush.
Si tratta di un'opera di disumanizzazione su vasta scala, ed è resa peggiore, lo si deve dire, dagli attentati suicidi che hanno così deturpato e svilito la lotta palestinese. Tutti i movimenti di liberazione della storia hanno affermato che la loro lotta è per la vita, non per la morte. Perché la nostra dovrebbe essere un'eccezione? Quanto prima saremo in grado di educare i nemici sionisti mostrandogli che la nostra resistenza promuove coesistenza e pace, tanto minori saranno le loro giustificazioni per le stragi e per riferirsi a noi solo come a dei terroristi. Non dico che Sharon e Netanyahu possono essere cambiati. Dico che c'è una parte del popolo palestinese, così come ce n'è una americana e una israeliana, che con strategia e tattica deve essere resa conscia del fatto che la forza delle armi e dei carri armati, le bombe umane e i buldozer non sono una soluzione, ma creano solo maggiori fraintendimenti ed aberrazioni, da entrambe le parti.
Al Ahram 17 Maggio 2002