Fautori della lotta armata a oltranza, erano rimasti ai margini dell’intifada Una potente rete di copertura assicura il finanziamento dell’organizzazione
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME - Hamas è abituata alle tempeste. Ha patito la caccia dell’esercito israeliano e, dopo le intese di Oslo, quella della polizia palestinese. Per questo, quando è esplosa l’intifada, nel settembre di due anni fa, è rimasta a guardare per qualche mese. «Temevano che fosse un trucco per farci uscire allo scoperto e poi tagliarci la testa», aveva ammesso Jamal Mansur, uno dei capi del gruppo poi eliminato da un omicidio mirato di Israele. E infatti la rivolta è stata guidata dal Fatah con il nuovo braccio armato, le Brigate Al Aqsa. La fazione di Yasser Arafat ha riconquistato le posizioni perdute, dimostrando di saper sfidare l’avversario. Ma inevitabilmente si è esposta alla ritorsione pesante dello Stato ebraico. Quando Sharon, in primavera, ha lanciato l’«Operazione Muro di Difesa» ha preso di mira le Brigate Al Aqsa e il Fatah, cresciuti pericolosamente. Durante l’invasione delle diverse città Hamas ha visto comunque cadere alcuni dei suoi quadri più importanti, come Said Basharat, preso mentre cercava di scappare vestito da donna. In Cisgiordania, secondo l’esercito, sono stati uccisi 34 operativi di Hamas, ne sono stati catturati 50 e ne sono ricercati una ventina. Tra loro Muhammad Taher, che insieme a Mohammed Deif a Gaza, è responsabile delle Brigate Ezzedine Al Kassam, l’unità che arruola e prepara i kamikaze.
Un’arma letale che i responsabili del movimento intendono usare senza limite. Per mettere in crisi la strategia anti-terrore di Israele e riaffermarsi come unica vera forza d’opposizione. Lo smantellamento progressivo dell’Autorità palestinese, con il possibile esilio di Arafat, porta in alto le azioni del movimento. L’occupazione delle zone dell’ex autonomia, se da un lato può rendere difficile l’attività politico-militare, dall’altro crea delle condizioni ideali per chi come Hamas sostiene la lotta ad oltranza. Gli ideologi del gruppo, a cominciare dallo sceicco Ahmed Yassin, non hanno mai nascosto le loro idee. «I palestinesi avevano davanti a loro due strade: quella del negoziato, sostenuta da Arafat, e quella della resistenza armata, propugnata da noi. Hanno scelto la prima ed hanno scoperto che non conduceva da nessuna parte», ha ripetuto pochi giorni fa Abdel Razek Rantissi, portavoce del movimento a Gaza. Un’analisi alla quale ha contribuito il comportamento di Israele, con le intese non rispettate, la colonizzazione selvaggia e l'umiliazione quotidiana imposta ai civili palestinesi.
Per Hamas non c’è spazio per alcuna trattativa, come non esiste lo Stato di Israele. Al massimo, i capi sono disposti a delle tregue, necessarie ad evitare lo scontro fratricida con l’Autorità palestinese o ad evitare le bastonate israeliane. Un pragmatismo unito ad una ferrea compartimentazione. L’ala militare è segreta, divisa in cellule minuscole, con risorse finanziarie illimitate. I contatti attraverso i dirigenti della diaspora garantiscono un sostegno nel mondo islamico. Le casse del movimento sono riempite dalle donazioni provenienti dal Golfo Persico (Arabia Saudita, Kuwait, Iran) e da una prodigiosa catena di solidarietà tra le comunità islamiche in Occidente.
Il denaro raccolto in Europa (Italia compresa) raggiunge Londra dove opera indisturbata da anni una società di copertura. Dal Regno Unito i soldi finiscono nelle casse di associazioni e banche dei territori palestinesi. Il 95% del capitale - quasi 100 milioni di dollari - è impiegato nel sociale per gestire asili, scuole e ambulatori, parte fondamentale nella propaganda dell’odio. Solo il 5% finisce agli artificieri che preparano le bombe. E’ quello che basta per terrorizzare Israele e affermarsi come protagonista nella scena mediorientale. Ora che la Casa Bianca ha illustrato la sua «visione» di pace, Hamas ha un avversario in più da fermare.
G.O.
Corriere della Sera 25 giugno 2002