La notizia è stata data giovedì dal quotidiano Il Foglio:
Una casa editrice tedesca rifiuta di concedere i diritti dell'ultimo libro di Martin Walser alla casa editrice italiana Edizioni di Ar per motivi ideologici.
La cosa particolare è che le edizioni di Ar avevano già ottenuto i diritti per un'altra opera di Martin Walser, "La banalità del bene", che era stata regolarmente pubblicata, ed anche molto apprezzata in Germania.

Riportiamo la recensione della Padania alla "Banalità del bene".


In un volume il discorso con cui divise la Germania sul suo passato
Martin Walser, ovvero la catarsi di una nazione

di Francesco Coppellotti

Con il titolo La banalità del bene le edizioni di Ar pubblicano la trasposizione italiana - accompagnata dal testo tedesco - del discorso che Martin Walser ha tenuto l’11 Ottobre 1998 nella Paulskirche di Francoforte in occasione del ricevimento del premio della pace dei librai tedeschi per il 1998. Il problema che il discorso pone è quello dell’identità della Germania, problema sempre rimosso con la sua semplice negazione, ma che ora proprio con l’Unione europea torna in modo prepotente alla ribalta. Martin Walser si schiera contro coloro che ritengono che l’Unione europea debba significare la fine dell’identità del popolo e della Nazione tedeschi e sostiene quindi che questo "nazionalismo negativo" non sia certamente da preferire al suo contrario. Il problema del superamento del passato non si può risolvere eternizzando il complesso di colpa infinito che nasce dal ricordo di Auschwitz: "Nessuna persona degna di questo nome nega Auschwitz o cavilla intorno alla sua mostruosità; quando però i media ogni giorno ripropongono questo passato, io noto che in me qualcosa si ribella contro questa permanente presentazione della nostra vergogna. Invece di ringraziare per la costante presentazione della nostra vergogna, comincio a guardare da un’altra parte. Mi piacerebbe sapere perché proprio in questo decennio questo passato viene presentato come non mai. Quando io noto che in qualcosa si ribella contro tutto ciò, tento di comprendere i motivi della presentazione continua della nostra vergogna e sono felice quando credo di poter scoprire che, il più delle volte, non si tratta della memoria, della necessità di non dimenticare, bensì della strumentalizzazione della nostra vergogna per scopi del presente". Questo discorso pronunciato poco più di un anno fa e su cui si continua a discutere e a dividersi in Germania ha anticipato nel suo significato profondo anche tutto quello che sta avvenendo oggi attorno al caso Haider: la strumentalizzazione del passato per impedire l’espressione della libertà dei popoli contro il nuovo totalitarismo che mira ad annientare la loro identità, la loro storia, la loro tradizione, la loro libertà: "Noi abbiamo il dovere di tenere aperta quella ferita chiamata Germania". L’obiettivo infatti del nuovo totalitarismo mondialista è quello di cancellare il nome stesso della Germania e il nome stesso di popolo tedesco. Sul nuovo palazzo del Reichstag deve infatti stare scritto "Der Bevölkerung" (alla popolazione) e non come stava scritto "Dem deutschen Volk" (Al popolo tedesco). Popolazione implica l’etnosuicidio del popolo tedesco nella società multirazziale. Si chiede ancora Martin Walser: "Perché mai si viene sospettati se si dice che i tedeschi ora sono un popolo del tutto normale, una società come tutte le altre?". Questo accade perché si vuol costringere il popolo tedesco a pensare, come ha sottolineato il capo della comunità ebraica Ignatz Bubis discutendo con Martin Walser nella sede della Frankfurter Allgemeine Zeitung, che ricordare Auschwitz significa negare l’identità nazionale tedesca. Così Auschwitz diventa la routine della minaccia, un mezzo sempre pronto di intimidazione, una clava morale, o soltanto un esercizio obbligato. La ritualizzazione produce solo giaculatorie o monumenti, come quello all’olocausto a Berlino: "La cementizzazione del centro della capitale tedesca con un incubo onirico grande come un campo di calcio. La monumentazione della vergogna". Per Walser quindi si tratta di spezzare il paradigma, nel quale convergono Rubin e il radicalismo di destra, secondo il quale pensare la Nazione tedesca significa negare Auschwitz o viceversa pensare Auschwitz significa negare la nazione tedesca. Al contrario pensare veramente Auschwitz significa liberare la coscienza individuale e quella dell’intera Nazione dalla intimidazione ottenuta attraverso la strumentalizzazione di Auschwitz, che ha come risultato l’annientamento della coscienza e della sua libertà."Noi diciamo di sì - scrisse Walser nel 1988 - per la pura angoscia di essere considerati nazisti". Superare Auschwitz senza rimuoverla significa non strumentalizzare Auschwitz, cioè non delegare la sua memoria allo Stato, all’autorità, ai soldati dell’opinione pubblica con la pistola puntata e non far pesare sul popolo tedesco tutto, come è stato fatto per decenni, l’ossessione della "colpa collettiva". Si tratta di ridare al popolo la sua libertà, anche quella del ricordo, giacché non vi è libertà se la coscienza è legata a una verità confezionata dallo Stato o da chi lo controlla, dal di dentro e dal di fuori di esso: "... la nostra coscienza è la nostra coscienza e non permettiamo che nessuno ce la prescriva... La Germania si è infatti sentita sinora come un condannato che deve provare la sua umanità prima di poter essere reintegrato nella società. L’anno scorso ho pubblicato un romanzo, Una fonte che zampilla, la cui trama si svolge tra il 1933 e il 1945, gli anni del nazismo appunto. Tra i critici non sono mancati coloro che mi hanno rimproverato il fatto che nel romanzo non si parli di Auschwitz. Ora, il protagonista ha cinque anni all’inizio e diciotto alla fine: che mai avrebbe potuto sapere dell’Olocausto? Eppure, secondo questi critici avrei dovuto comunque inserire il tema nel romanzo. Come se, scrivendo un romanzo storico, l’autore fosse tenuto a rendere ragione di ciò che sarebbe dovuto essere e non è stato". Quando Hannah Arendt parlò della "banalità del male", pensando contro Kant che il male non può mai essere radicale, non osservò (e la cosa è tanto più sorprendente in una teoria del totalitarismo) che questa "banalità del male" era speculare a quella "banalità del bene" imposta militarmente e intellettualmente al popolo tedesco e alla sua riflessione sulla propria storia del XX secolo. È questa banalità del bene, autentica tomba della libertà, che Martin Walser ha portato allo scoperto, chiamandola per nome nel suo discorso dell’11 ottobre nella Paulskirche di Francoforte. Martin Walser, "La banalità del bene", Edizioni di Ar, Padova (tel. 049-221226), 1999, pp. 59, lire 10mila. Testo tedesco a fronte.

* curatore del volume