QUELLO CHE TUTTI SANNO

di AMOS OZ (scrittore israeliano)

Nel grande giardino d’infanzia del Medio Oriente gli israeliani affermano che non ritireranno i loro carri armati, non rimuoveranno e neppure congeleranno le colonie ebraiche nei Territori occupati se prima i palestinesi non metteranno fine al terrorismo e all’incitamento alla violenza. Contemporaneamente i palestinesi dicono che non potranno bloccare terrorismo e violenza se prima gli israeliani non concluderanno l’occupazione. Entrambi accettano più o meno in toto le idee del presidente americano Bush, che sono più o meno identiche al piano di pace europeo, il quale è a sua volta non molto diverso dalle proposte saudite. Insomma, tutti sanno bene che alla fine dovranno nascere due Stati sostanzialmente divisi dal confine precedente la guerra del giugno 1967, con due capitali a Gerusalemme Est e Ovest, con lo smantellamento degli insediamenti ebraici nel cuore di quello palestinese e senza il massiccio ritorno dei profughi palestinesi all’interno delle frontiere israeliane. E allora, che cosa stiamo aspettando? Perché si perde tempo? E’ davvero soltanto il prevalere litigioso dell’immancabile modo di pensare in tutti i giardini d’infanzia del mondo: «Ma lui deve farlo prima di me»?

Riassunto in poche parole, i pazienti (così io considero entrambi, israeliani e palestinesi) sono riluttanti ma pronti per il tavolo operatorio, mentre i dottori (Sharon e Arafat) si dimostrano inguaribili codardi.
Israeliani e palestinesi dovrebbero compiere uno sforzo ulteriore per negoziare un accordo che li impegni contemporaneamente a passi concreti: la rimozione di alcuni insediamenti ebraici in cambio dello smantellamento di una tra le organizzazioni terroristiche. Il piano dovrebbe funzionare in modo progressivo. E condurre in un secondo tempo a cancellare altre colonie e un nuovo gruppo fondamentalista.
Se ciò non dovesse funzionare dovremmo allora trasferire il conflitto «a un livello più alto», che significa il negoziato tra Israele e la Lega Araba (quando ero all'asilo e non riuscivo a risolvere i miei litigi con un compagno mi rivolgevo alla sorella più grande, o ai suoi genitori).
Forse non dovremmo iniziare le trattative sulla questione delle colonie ebraiche o dei confini, tantomeno dovremmo affrontare il nodo di Gerusalemme e dei Luoghi Santi; piuttosto sarebbe meglio parlare del futuro dei profughi palestinesi che da oltre cinquant’anni marciscono in campi di raccolta tra rabbia, povertà e risentimento. Questa gente non dovrebbe venire a vivere in Israele, se ciò avvenisse ci sarebbero due Stati palestinesi e neppure uno per gli ebrei. Ma ognuno di questi profughi necessita di una casa, un lavoro e una cittadinanza dello Stato palestinese. Ciò significa creare alcune centinaia di migliaia tra abitazioni e posti di lavoro. Questa è la dimensione più urgente del conflitto, poiché tutta questa gente soffre quotidianamente in condizioni disumane. La loro disperazione è la prima causa dei problemi correlati alla sicurezza in Israele. Sino a quando i profughi non avranno speranza, Israele non avrà sicurezza.
Lo sforzo per risolvere i problemi dei profughi in Palestina, non in Israele, può davvero essere collettivo. L'Europa potrebbe giocare un ruolo maggiore, assieme agli Stati Uniti, con le nazioni arabe più ricche e Israele, che dovrebbe contribuire ignorando la vecchia polemica su quale parte ricada la responsabilità storica per le tragedie dei profughi. I Luoghi Santi possono attendere, i profughi no.

(traduzione di Lorenzo Cremonesi)
Amos Oz

Corriere della Sera 17 luglio 2002