Ho inteso proporre alla riflessione un saggio di Julius Evola (Andrea Giulio Evola, proteiforme filosofo italiano che partì dall’esperienza del dadaismo, di cui fu un capisaldo, inventò l’idealismo magico, ebbe un periodo “pagano”, aderì al fascismo seppur criticamente, fu razzista “spiritualista” e contrario alle tendenze “zoologiste”, studiò in maniera esemplarmente profonda tutte le dottrine tradizionali occidentali e orientali, e cercò fino all’ultimo una via d’azione per l’uomo della Tradizione all’interno della modernità) riguardo al “problema ebraico”, sempre e più che mai d’attualità – come dimostrano continuamente le notizie dall’Italia e dal mondo.
Naturalmente, è inutile dire che il testo va sfrondato dei suoi aspetti contingenti, riferentisi alla politica dell’epoca e alle iniziative dei regimi nazionali (non solo fascisti quindi, come dimostra p.es. la legislazione ungherese) per discriminare e isolare le comunità ebraiche dalla vita delle nazioni gentili, con soluzioni “razziste”. Non dimentichiamo che il pensiero razzialista – seppur non in maniera legislativamente attiva come in Germania ed Italia – era all’ordine del giorno dall’America alla Scandinavia e in sostanza in tutto l’Occidente positivista. Ciò che va mantenuto di tali scritti è l’analisi degli aspetti “perenni”, di quelli cioè che attraversano i secoli e le voghe di pensiero e ritornano con le medesime caratteristiche.
E i principali aspetti dell’anima ebraica, dell’ebreo eterno, sono appunto analizzati magistralmente in questo saggio. Essi andrebbero compresi, se si vuole giungere ad una comprensione del perché succede ciò che succede in terra di Palestina ma non solo: è anzi possibile affermare che tutta la terra d’Occidente è ormai partecipe di questo problema, del problema posto da questa longeva e caratteristica minoranza, il cui istinto di sopravvivenza sembra basarsi su di una necessità costituzionale dell’ostilità con le altre comunità, e di uno strano rapporto sinergico-distruttivo che avrebbe paralleli nel mondo zoologico ma che mi astengo dal fare (…).
E’ necessario, dicevo, comprenderli, tanto più oggi che le culture dominanti hanno imposto un veto alla riflessione sul fenomeno, credendo di identificare nella difesa della causa ebraica un’alleato formidabile delle proprie partigianerie ideologiche : in realtà un simile alleato si rivela poi un pessimo “alleato”, come dimostra la fine del sodalizio tra comunisti ed Ebrei e i calci in culo presi dai primi da parte dei secondi, e giocondamente accettati, quasi per scusarsi del pur blando antisionismo (si vedano le bastonature di Agnoletto e di Rifondazione) – i secondi mirando unicamente al proprio interesse, e scaricando all’occorrenza i propri ex-pupilli, quando altre cavalcature si dimostrano più proficue.
A meno che non si voglia persistere nella spiegazione non-spiegazione: che ogni critica nei confronti degli Ebrei e dell’Ebraismo proviene unicamente da “odio” immotivato, esplosioni di “pazzia” patologica, e necessità di “capro espiatorio” tout court. (“Spiegazione” tanto più inconsistente quando la si vuole agganciare alle dottrine dei soli nazionalismi europei, visto che reazioni all’ebraicità vi sono da sempre e sotto ogni tipo di società).
Nel tentativo, sicuramente difficile, di capire meglio la natura di questo problema, propongo lo scritto che segue, sperando in una discussione per quanto possibile rispettosa e scevra da scadimenti nella volgarità.