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    Predefinito Inquadramento del PROBLEMA EBRAICO

    Ho inteso proporre alla riflessione un saggio di Julius Evola (Andrea Giulio Evola, proteiforme filosofo italiano che partì dall’esperienza del dadaismo, di cui fu un capisaldo, inventò l’idealismo magico, ebbe un periodo “pagano”, aderì al fascismo seppur criticamente, fu razzista “spiritualista” e contrario alle tendenze “zoologiste”, studiò in maniera esemplarmente profonda tutte le dottrine tradizionali occidentali e orientali, e cercò fino all’ultimo una via d’azione per l’uomo della Tradizione all’interno della modernità) riguardo al “problema ebraico”, sempre e più che mai d’attualità – come dimostrano continuamente le notizie dall’Italia e dal mondo.
    Naturalmente, è inutile dire che il testo va sfrondato dei suoi aspetti contingenti, riferentisi alla politica dell’epoca e alle iniziative dei regimi nazionali (non solo fascisti quindi, come dimostra p.es. la legislazione ungherese) per discriminare e isolare le comunità ebraiche dalla vita delle nazioni gentili, con soluzioni “razziste”. Non dimentichiamo che il pensiero razzialista – seppur non in maniera legislativamente attiva come in Germania ed Italia – era all’ordine del giorno dall’America alla Scandinavia e in sostanza in tutto l’Occidente positivista. Ciò che va mantenuto di tali scritti è l’analisi degli aspetti “perenni”, di quelli cioè che attraversano i secoli e le voghe di pensiero e ritornano con le medesime caratteristiche.
    E i principali aspetti dell’anima ebraica, dell’ebreo eterno, sono appunto analizzati magistralmente in questo saggio. Essi andrebbero compresi, se si vuole giungere ad una comprensione del perché succede ciò che succede in terra di Palestina ma non solo: è anzi possibile affermare che tutta la terra d’Occidente è ormai partecipe di questo problema, del problema posto da questa longeva e caratteristica minoranza, il cui istinto di sopravvivenza sembra basarsi su di una necessità costituzionale dell’ostilità con le altre comunità, e di uno strano rapporto sinergico-distruttivo che avrebbe paralleli nel mondo zoologico ma che mi astengo dal fare (…).
    E’ necessario, dicevo, comprenderli, tanto più oggi che le culture dominanti hanno imposto un veto alla riflessione sul fenomeno, credendo di identificare nella difesa della causa ebraica un’alleato formidabile delle proprie partigianerie ideologiche : in realtà un simile alleato si rivela poi un pessimo “alleato”, come dimostra la fine del sodalizio tra comunisti ed Ebrei e i calci in culo presi dai primi da parte dei secondi, e giocondamente accettati, quasi per scusarsi del pur blando antisionismo (si vedano le bastonature di Agnoletto e di Rifondazione) – i secondi mirando unicamente al proprio interesse, e scaricando all’occorrenza i propri ex-pupilli, quando altre cavalcature si dimostrano più proficue.
    A meno che non si voglia persistere nella spiegazione non-spiegazione: che ogni critica nei confronti degli Ebrei e dell’Ebraismo proviene unicamente da “odio” immotivato, esplosioni di “pazzia” patologica, e necessità di “capro espiatorio” tout court. (“Spiegazione” tanto più inconsistente quando la si vuole agganciare alle dottrine dei soli nazionalismi europei, visto che reazioni all’ebraicità vi sono da sempre e sotto ogni tipo di società).
    Nel tentativo, sicuramente difficile, di capire meglio la natura di questo problema, propongo lo scritto che segue, sperando in una discussione per quanto possibile rispettosa e scevra da scadimenti nella volgarità.

  2. #2
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    Predefinito

    Julius Evola

    Inquadramento del problema ebraico


    Avendo dato, in due articoli precedenti (Bibliografia Fascista [1] fasc. di febbraio e giugno 1939), una sintesi della dottrina della razza, per quel che riguarda, rispettivamente, il lato storico, concernente soprattutto le civiltà mediterranee, e il lato dottrinale generale, vogliamo ora trattare in egual modo un altro argomento, che per parecchi, svegliatisi antisemiti dall’oggi al domani, può ben dirsi “di moda”, ma che non è precisamente tale per noi, avendolo già da anni fatto oggetto dei nostri studi – intendiamo dire il problema ebraico. Allo stesso modo che negli altri due scritti ora citati, noi, nel riguardo, intendiamo fissare alcuni punti generali di riferimento, atti a indicare il giusto orientamento delle ricerche.

    1. – Come primo punto, si deve evitare, da parte di noi Italiani, di porre il problema ebraico in una relazione unilaterale con quello della razza, almeno fintantoché la razza viene concepita come una realtà soltanto biologica e non si passa a quelle ulteriori considerazioni, che definiscono – secondo la terminologia da noi adottata, il razzismo di secondo e di terzo grado, quello che considera, cioè, oltre la razza del corpo, la razza dell’anima e dello spirito. Questa riserva deve essere anzitutto intesa nel senso che, per noi, esser razzisti non deve significare semplicemente esser antisemiti: L’antisemitismo può essere una esigenza imprescindibile per la difesa della razza, ma, evidentemente, a parte il difendere, vi è il costruire, e il razzismo italiano e fascista ha compiti positivi, oltre quelli negativi e, diciam così, profilattici. Per importante che sia il settore in cui interferiscono, il problema ebraico e il problema razzista non possono coincidere.
    In secondo luogo, considerando la razza dal punto di vista strettamente biologico e considerando inoltre il popolo italiano nel suo complesso, le cose, nel riguardo del problema ebraico, debbono esser trattate con prudenza. Non si può contestare che, dal punto di vista esclusivamente biologico, la differenza che intercorre tra alcuni tipi superiori ebraici non è così decisa come fra un puro nordico e un puro ebreo. Il fatto è che, da un punto di vista rigoroso, è così illegittimo parlare di una “razza italiana” quanto di una “razza ebraica” qualora si dia alla parola razza il senso assoluto di un elemento etnico veramente primario e omogeneo. E’ così che razzisti “ortodossi”, quali il Günther e il Fischer parlano semplicemente di “popolo ebraico”, concepiscono questo popolo come composto, già fin da tempi primordiali, da molti elementi etnici eterogenei e anzi, basandosi sul prevalere dell’uno o dell’altro di essi nel composto, vano a distinguere delle sottospecie del tipo ebraico, per esempio, quella dell’Ebreo Sephardim e dell’Ebreo Ashkenazim. Attraverso quell’immenso crogiuolo, che è stato il Mediterraneo, elementi etnici entrati a far parte del composto ebraico figurano anche in certe parti dell’altro composto, che ha dato luogo alla “razza italiana” in senso lato, generico. Ma qui, indubbiamente, essi sono assunti in una diversa funzione. L’esistenza di Israele come un ceppo che, pur non avendo una vera unità razziale, dimostra uno spirito di solidarietà, una facoltà di conservazione e uno spirito di in assimilazione persistente attraverso i secoli, anzi attraverso i millenni, tale da trovare raramente riscontro in una “razza pura”, è un fatto incontestabile, che confuta o, almeno, dimostra unilaterale la tesi del razzismo puramente biologico, il quale dall’unità del sangue vorrebbe dedurre tutto il resto. L’esistenza e la persistenza d’Israele come unità ci dimostra invece la potenza, più che della razza, della “tradizione”: è la tradizione ebraica che spiega l’unità ebraica così come la gran parte delle caratteristiche generali comuni a tutti gli ebrei, di quale sottospecie e nazionalità essi pur siano.
    L’insieme etnico che oggi vien chiamato “razza italiana” si differenzia nettamente da quello ebraico appunto per un motivo interiore, per una tradizione e per una “razza dello spirito e dell’anima”, che sono irriducibili alla base anzidetta dell’unità ebraica. Per tale via, non può essere elemento decisivo, nel problema ebraico come da noi deve impostarsi, la misura delle differenze biologiche e antropologiche, problema che, anzi, in vari casi, come accennavamo, può divenire perfino assai delicato: tutto ciò riguarda più la “maschera” che il “volto”. Il che non deve condurre però a nessuna restrizione dal punto di vista pratico, cioè con riferimento a un razzismo attivo. Come si è già detto negli altri due articoli, se si è dichiarato che la razza italiana è “nordico-aria”, in ciò, così come oggi stanno le cose, si deve intendere non tanto una mera constatazione quanto un compito: il compito è quello di purificare, potenziare ed elevare il tipo comune razzistico del popolo italiano fino a conferirgli tratti sempre più omogenei e sempre più vicini a quelli contrassegnanti il tipo ideale “nordico-ario”. Naturalmente, per venire a tanto bisognerà cercare di limitare e di eliminare alcune componenti razziali che, presenti nella “razza italiana” in senso lato, lo sono anche in quelle semitico-mediterranee: e questo lavoro di selezione sarebbe certamente disturbato e anzi neutralizzato qualora si permettesse che nuovo sangue ebraico s’introduca nella “razza italiana”: donde l’opportunità delle misure prese dal fascismo contro le unioni miste. Ma il piano vero della incompatibilità di trova più in alto, cosa parimenti riconosciuta dalla legislazione fascista, la quale, a parte la dichiarazione generica, che la razza ebraica è diversa da quella italiana, ha messo al bando l’ebraismo sulla base di considerazioni concernenti non tanto il dato puramente biologico, quanto l’aspetto etico politico e spirituale, l’aspetto legato alle “opere”, denunciando l’azione dissolvitrice dell’ebraismo e, infine, le precise tendenzialità antifasciste di esso. Cosa che equivale a riconoscere che l’incompatibilità è, soprattutto, di spirito, di tradizione. E questo è un punto fondamentale, perché, per il carattere parimenti composito della “razza italiana”, la tradizione, nel nostro razzismo, ha e deve avere una parte importante quanto nello stesso Ebraismo ed è su di essa che si deve far presa per purificare e congiungere in un unico spirito, destinato a esercitare la sua influenza fin sulla realtà biologica e antropologica, la stirpe italiana.

    2. – Già da queste considerazioni preliminari risulta che il punto fondamentale sta nel considerare l’Ebraismo non in questo o quell’aspetto parziale, ma nella sua essenza, nella sua legge interna, radice della sua unità e del suo spirito, vale a dire nell’espressione della sua ortodossia. Si deve cioè aver in vista l’Ebreo che si mantenga integralmente fedele allo spirito e all’ideale millenario del suo popolo; solo in un secondo tempo si debbono considerare gli aspetti speciali, moderni, o, per dir meglio “modernizzati”, dello spirito e dell’azione israelita: altrimenti l’impostazione del problema ne risulterà pregiudicata e – praticamente – la lotta sarà limitata a qualche settore parziale.
    Insieme all’Ebraismo come manifestazione di una data “razza dello spirito”, da individuare, come si è detto, nelle espressioni ortodosse della sua tradizione, vi è poi, naturalmente, da considerare l’Ebraismo come “razza dell’anima”, cioè come un determinato “stile” [2], come un istinto intellettuale e un comportamento generale atavico. L’una cosa sta, naturalmente, in relazione con l’altra e va a prevenire l’obbiezione di coloro che, o per leggerezza, ovvero perché non hanno una vista abbastanza acuta, dicono che l’Ebreo puro dell’antica legge oggi è un’astrazione, che l’Ebraismo moderno è moderato, che l’internazionale ebraica non esiste e che i famosi “Protocolli dei Savi di Sion” sono una mistificazione. Vero è invece che oggi di Ebrei fedeli alla loro tradizione ve ne sono molto più di quanto si supponga – solo che in molti casi questa fedeltà bisogna restringerla essenzialmente a un modo d’essere. Per spiegarci più chiaramente, diremo che l’azione di una legge osservata ininterrottamente per secoli non si dissipa dall’oggi al domani; essa ha creato un tipo, ha dato forma a determinati istinti, ha enucleato uno specifico comportamento. Così anche in molti casi nei quali l’Ebreo sembrerebbe aver abbandonata la fede dei padri, o sembra praticarla solo formalisticamente, perché si è assimilato alla “cultura europea” e allo “spirito moderno”, anche in questi casi la sostanza ebraica resta più o meno identica e l’azione – spesso involontaria, sparsa e istintiva – di siffatti Ebrei va sempre a concordare con quanto potrebbe dedursi – direttamente o “tatticamente” – dai dettami della pura, consapevole e militante ortodossia rabbinica.
    Questo è un punto importantissimo per metter nella sua giusta luce il problema della internazionale ebraica. Per ammettere l’esistenza di una tale internazionale non è necessario riconoscere che tutti gli Ebrei siano diretti da una vera e propria organizzazione mondiale di tipo massonico e che tutta la loro azione, tutte le loro creazioni, tutte le loro opere obbediscano consapevolmente a un piano e realizzino tante parti di una vera e propria cospirazione. Il collegamento esiste in gran parte nell’essenza, nell’istinto, nella “razza dell’anima”. Il problema, nel riguardo, impone quell’argomento, che in filosofia si chiama “teleologico”. Bisogna chiudere gli occhi dinanzi all’esistenza stessa dei fatti se si vuol negare che dall’azione degli Ebrei nei campi più disparati – dalla letteratura all’economia, alla psicologia al teatro e al diritto, dalla scienza alla stessa teologia, a tacere di coloro che il Disraeli stesso ha chiamato i “sottufficiali della rivoluzione mondiale” e di tutto ciò che la cronaca nera di ogni giornale quasi quotidianamente ci fa sapere – scaturiscono effetti, i quali convergono sempre e singolarmente nelle stesse finalità e si risolvono invariabilmente in una erosione e in una sovversione dell’insieme dei valori delle civiltà “arie”. E chi, da ciò, è costretto a riconoscere che, quand’anche la congiura ebraica non esistesse, praticamente è come se esistesse, viene, in fondo, a riconoscere che il pericolo ebraico è perfino più grave che nella prima ipotesi, perché non è connesso a qualcosa di voluto e di transeunte, e nemmeno a una specie di Stato Maggiore, eliminato il quale tutto sarebbe finito, ma è qualcosa di proprio a una essenza incoercibile, qualcosa che procede dalla natura ebraica come dalla natura stessa del fuoco procede l’effetto del bruciare e del consumare. D’altra parte, ancor oggi degli esponenti autorevoli dell’Ebraismo sono d’accordo nel riconoscere l’immutabilità dell’anima ebraica. L’Ebreo resta ebreo quale si sia il suo credo politico. L’Ebreo resta ebreo perfino quando si fa cristiano, mentre il Cristiano o il Musulmano che venissero ammessi nella fede ebraica non per questo sarebbero riconosciuti come loro simili dagli Ebrei. In questo senso devesi concepire la “razza ebraica” e la sua immutabilità: un certo gruppo di idee ha dato luogo, atavicamente, a un modo d’essere, che può sussistere e manifestarsi anche indipendentemente da ogni assunzione cosciente e riflessa di quelle stesse idee. Parimenti, in questo senso l’idea di una “internazionale ebraica” è positiva e costituisce un “principio euristico”, uno strumento imprescindibile di lavoro, una precisa premessa metodologica per quel capitolo della dottrina generale della razza, che noi abbiamo battezzato “scienza della sovversione”. Anche fra gli scienziati dalle pretese “oggettive” più severe si presenta non di rado il caso di chi, avendo trovato un principio esplicativo valido per un dato ordine di fenomeni, è portato ad applicarlo un po’ dappertutto, scambiando la chiave adatta per una certa porta in un grimaldello, capace di aprirne d’ogni specie. Non si può dunque far troppo torto alla polemica antisemita se, talvolta, nelle sue documentazioni, cade in varie unilateralezze: ma sarebbe fare il gioco dell’avversario credere che, per questo, il valore di molte altre documentazioni e interpretazioni risulti inficiato o che si tratti, in gran parte, di vedute tendenziose e forzate. Ciò che già è stato acquisito dalla più seria polemica antisemita dimostra incontestabilmente l’unità “vettoriale” – se ci è lecito usare questa analogia matematica – cioè: l’unità di direzione, di tendenzialità, di tutte le manifestazioni dell’Ebraismo, compresavi quelle del cosiddetto “Genio d’Israele”. Da questo fatto ognuno può trarre le conseguenze che vuole – ma delle conseguenze debbono pur essere tratte, a che non debba esser ripetuto il monito dantesco: “Uomini siate, e non pecore matte / a che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida”.

    3. – Le ragioni dell’assunzione dell’idea dell’ “internazionale ebraica” come principio metodologico valgono anche nei riguardi del problema dell’autenticità dei famosi “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”. Qui ben ci guarderemo dall’entrare in pieno in un tale problema il quale, com’è noto, ha costituito il centro di un annoso processo che ha avuto luogo a Berna e che si è concluso, sotto ogni riguardo, con un “non luogo a procedere”. Non luogo a procedere sia nei riguardi di chi aveva diffuso i “Protocolli” in Svizzera e che dalle comunità ebraiche era stato denunciato come un calunniatore inteso a incitare all’odio una parte della popolazione contro un’altra; e non luogo a procedere, altresì, nei riguardi del giudizio di autenticità, o meno, del documento. Il contenuto del quale non ha bisogno, qui, di essere ricordato: è il piano di una congiura mondiale concertato da una organizzazione misteriosa massonico-ebraica contro la tradizione europea, con indicazione dei metodi principali per attuarlo nell’epoca moderna. Noi stessi abbiamo scritto una introduzione alla nuova edizione dei “Protocolli” [3], e a essa dobbiamo rimandare chi meglio voglia informarsi. Qui, dobbiamo limitarci ai punti essenziali, che sono i seguenti:

    a) E’ ingenuo porre, in senso assoluto, il problema della autenticità di un documento, come i “Protocolli”, perché è ingenuo pensare che, esistendo, una organizzazione occulta sul tipo dei “Savi Anziani” lasci dietro di sé dei documenti scritti autenticabili. Poiché, a voler battere una tale via, si dovrebbe giungere fino a richiedere che questi “Savi” si diano perfino la pena di mettere un “per copia conforme” al documento, a dissipare ogni dubbio…

    b) Perciò la questione della autenticità va sostituita con quella della veridicità, in ordine alla quale il fatto di un eventuale “plagio” in senso letterario – cioè la riproduzione di idee e perfino di frasi scritte da altri – non ha più nessun peso. Che cosa può importare, per esempio, nei riguardi della realtà o meno di un complotto, il constatare che i cospiratori abbiano preso la loro ispirazione da questo o quel documento preesistente, magari trascrivendone dei pezzi e commettendo dunque un “plagio” letterario? Da ciò si può avere un’idea del piano frivolo sul quale si è tentato di spostare il problema.

    c) Due prove sono invece decisive. La prima è la prova dei fatti. Si tratta di vedere, se gli avvenimenti svoltisi dopo la pubblicazione del documento e, più in genere, nell’epoca moderna, rispecchino o no tutto ciò che in esso veniva contemplato, circa i mezzi e le fasi dell’attacco segreto contro il mondo tradizionale “ario”. L’esito di una tale prova non potrebbe esser che positivo. La concordanza in molti punti è addirittura allarmante. Nella nuova edizione italiana dei “Protocolli” varie appendici vanno a mettere bene in luce tali corrispondenze. Un’opera, recentemente tradotta in italiano, “Guerra occulta”, di Malinsky e De Poncins [4], completa, forse meglio di ogni altra, questa dimostrazione attraverso l’analisi della logica segreta e dei retroscena degli avvenimenti svoltisi in Europa dal periodo della Santa Alleanza fino al bolscevismo.

    d) La seconda prova riguarda l’ispirazione ebraica il documento. Non basta infatti aver dimostrato che il documento è veridico, perché corrisponde ai fatti; si deve dimostrare, in più, che è veridico, perché esso corrisponde anche allo spirito e agli ideali della tradizione ebraica. Anche questa seconda prova ha un esito positivo. Dobbiamo rimandare di nuovo all’edizione già segnalata dei “Protocolli”, perché in una sua appendice, sono riprodotti testi ebraici che, dai tempi più antichi fino ad oggi, mostrano le stesse idee che ispirano i “Protocolli”, peperò i piani dei “Savi di Sion”. La conclusione, dunque, è che quand’anche tale documento fosse scritto da antisemiti come una falsificazione, questi antisemiti non avrebbero fatto altro che esprimere con la massima esattezza e con la massima fedeltà ciò che l’ortodossia ebraica unanimemente potrebbe desumere dai suoi ideali e dalle sue millenarie aspirazioni. E l’indignazione degli Ebrei contro i “Protocolli”, dunque, non è tanto contro una “falsificazione odiosa”, quanto contro una “rivelazione” di qualcosa di molto oscuro, di influenze tenebrose agenti con precisa “intelligenza” dietro agli aspetti visibili e “positivi” della storia contemporanea, in una innegabile connessione con l’Ebraismo, sia autentico, sia (come accenneremo subito) secolarizzato e degradato. Su questa base, i “Protocolli” possono essere senz’altro assunti legittimamente come un nuovo “principio euristico”; anche non volendosi pronunciare sul problema di questi “Savi” in sé stessi, cioè dei veri dirigenti della sovversione mondiale e del loro vero essere, l’inquadramento offerto dai “Protocolli” ci si presenta come una “ipotesi di lavoro” d’indubbio valore per raccogliere e connettere fatti ed eventi che secondo un loro lato “interno” che, per effetto di una specie di narcosi, per quanto non meno reale e positivo, in precedenza era stato sistematicamente trascurato.

    4. – Dobbiamo ora brevemente accennare a quel patrimonio di idee o a quella tradizione, in cui abbiamo riconosciuto la forza formatrice dell’anima e dell’istinto della “razza d’Israele”. Nel riguardo, non ci si deve fermare all’Antico Testamento e non si deve cadere nell’errore, commesso da più d’uno, di credere che l’Ebraismo finisca con l’Antico Testamento, e che dopo di esso il Cristianesimo ne abbia preso il posto. Ciò che di specifico vi era nell’antica tradizione mosaica (nella cosiddetta Torah), conservatosi nella tradzione orale della Mishnah, ha trovato il suo sviluppo nella Ghemara, la quale fa più o meno tutt’uno col cosiddetto Talmud e che, per gli Ebrei, costituisce perfino qualcosa di superiore, il compimento – questo vuol dire la parola ebraica – dell’Antica Legge. Tutti i testi rabbinici concordano nell’affermare l’inseparabilità di tali parti, costituenti per essi una unità immutabile, inscindibile, imprescrivibile, obbligatoria, di cui essi affermano la perenne influenza e la perenne azione formatrice su tutto il popolo ebraico. I punti principali di tale “tradizione” si lasciano riassumere come segue.

    a) Fra l’Ebreo e il resto dell’umanità esiste una differenza fondamentale, quasi ontologica e metafisica. In un testo talmudico si legge: “L’Ebreo è il dio vivente, è il dio incarnato, è l’uomo celeste. Gli altri uomini sono terrestri, di razza inferiore. Non esistono che per servire l’Ebreo”. Il rapporto fra Ebrei e non-Ebrei – si aggiunge – è quello stesso che intercorre “fra uomini e bruti”. “Voi siete uomini, mentre gli altri popoli del mondo non sono uomini, ma bestie”. [5]

    b) La Legge promette a Israele il dominio universale, a lui “serviranno e saranno sottoposte tutte le nazioni”. “Io ridurrò tutti i popoli sotto lo scettro di Giuda” – era già l’antica promessa divina. “Se voi mi seguirete, sarete un reame di sacerdoti”. “Io ti darò in retaggio le nazioni e per dominio i limiti estremi sella terra”. “Tutte le ricchezze della terra debbono appartenerti”. La polemica antisemita ha poi dimostrato che queste idee non si restringono all’antica storia del popolo ebraico: esse persistono nella tradizione successiva e in tempi e in cicli di civiltà, nei quali non può esservi dubbio circa il fatto, che le genti da tener soggette con “verga di ferro” non s’intendevano più le popolazioni dell’antico litorale asiatico del Mediterraneo, ma le nazioni non ebraiche di tutto il mondo.

    c) A differenza di quello dei cristiani, il Regnum dell’ideale ebraico non è astratto e sovraterreno, ma deve realizzarsi su questa terra e aver alla sua testa una stirpe ben precisa, appunto quella ebraica. E finché ciò non avverrà, gli Ebrei, secondo la Legge, “debbono considerarsi come esiliati e prigionieri”; dovunque essi conseguano un dominio, che non sia però l’assoluto dominio, essi dovranno “accusare un tormento, una indegnità”. Essi dovranno considerare come violenza e ingiustizia ogni legge, che non sia la loro legge. Sono facilmente imaginabili le conseguenze psicologiche che procedono dal sentirsi, da un lato, il “popolo eletto” e dall’esser, dall’altro, la stirpe perseguitata e odiata da tutti: è un dissidio che porta con sé, fra l’altro, le complicazioni proprie al sentimento di colpa e di espiazione e quindi, nel tipo umano, una vera dilacerazione, da un lato odio e dall’altro abiezione e insofferenza. Considerare questo caos di sentimenti contradditori divenuti, per atavismo, dei “complessi” inconsci, significa anche individuare la fonte d’ispirazione della gran parte delle creazioni letterarie e ideologiche del “genio d’Israele” e ravvisare i fermenti di decomposizione che essi contengono.

    d) Concepire nei termini anzidetti, riferentisi al diritto del “popolo eletto” e alla “Promessa”, la vera giustizia, significa del resto sancire – direttamente o indirettamente – non tanto un diritto, ma quasi un dovere, per l’Ebreo, di promuovere ogni sovversione, ogni rivolta contro ogni forma d’ordine e di civiltà che non sia “neutra” ma si rifaccia a tradizioni, razze e idealità diverse da quelle israelitiche. La logica stessa della legge impone di distruggere e abbattere con ogni mezzo, per spianar la via al Regnum d’Israele. Le antiche formule d’odio, relative a un piano religioso, sono note a tutti e sono state messe in rilievo in un recente estratto del Talmud. “Tu divorerai tutte le nazioni che il tuo Signore di darà”. “Il migliore fra i non-Ebrei uccidilo” – sono testuali parole della Legge. Nel Shemoné-Esrè, preghiera ebraica quotidiana, si trovano parole come queste: “Che i Nazareni e i Minim (i Cristiani) periscano tutti in un istante, che essi siano cancellati dal Libro di Vita e non siano contati fra i giusti”. Ma, ciò a parte, vi sono forme secolarizzate e moderne dello stesso spirito, sopravvissuto, adattandosi, come istinto: l’Ebreo, che si sente straniero dappertutto, non vi è luogo che trovi a suo agio e invece di riconoscere il lui stesso la causa del dissidio, la proietta all’esterno, ed è portato a credere all’imperfezione del mondo e della società, alla loro “irrazionalità”. Ed ecco dunque che l’Ebreo, dovunque non giunge a trasformare ed erodere nascostamente le istituzioni tradizionali dei non-Ebrei in modo che esse si adattino ai suoi fini, appare in ogni tempo come riformatore, liberale e rivoluzionario, come l’apostolo d’una “giustizia” che sembra astratta e democraticamente umanitaria, ma che effettivamente riflette solo le precise condizioni per aver via libera e preparare l’avvento. Anche in questi termini, vale a dire anche prescindendo da un’azione precisa d’odio e di rivolta, vi è una incompatibilità fondamentale fra l’idea ebraica e l’idea di patria e di tradizione.Tutto ciò che resiste, per aver un suo volto, una sua specificità, è sentito da Israele come un ostacolo. Basta che un popolo risorga e si riaffermi perché Israele senta un pericolo e manifesti un istinto di conservazione e di difesa, il quale poi riconosce che la miglior difesa è l’attacco. Come il Batault lo ha giustamente rilevato [6], “tutto quel che tende a disgregare e a dissolvere le società tradizionali, le nazioni, le patrie, è loro istintivamente simpatico. Gli Ebrei hanno il senso e l’amore dell’umanità, considerata come un aggregato di individui astratti e simili fra loro il più possibile, staccati dalla routine delle tradizioni e liberati dalle “catene” del passato, rimessi – sradicati e nudi, ridotti a vero materiale umano – alle imprese dei grandi architetti del futuro, che finalmente costruiranno, secondo la Ragione e la Giustizia, la città messianica in cui Israele regnerà”. E già da questo accenno si vedono le convergenze fra l’ideologia massonica e quella ebraica, per quanto i retroscena di una tale convergenza restino, in una considerazione approfondita, alquanto enigmatici.

    e) Date le premesse, un’altra logica conseguenza è la teoria della doppia verità e della doppia morale. Ciò che vale per i rapporti fra Ebrei, non vale più per i rapporti fra Ebrei e non-Ebrei, per il semplice fatto che il non-Ebreo viene considerato, più o meno, come un fuorilegge. Tutto è lecito usare con lui: inganno, menzogna, tradimento, spietata usura sono ratificati con chiare parole dai testi talmudici e, per così dire, fin nella procedura. “La proprietà di un non-Ebreo – si legge nel Talmud – equivale a cosa abbandonata; il vero possessore è colui (fra gli Ebrei, naturalmente) che la prende per primo”. Ciò, nel passato, condusse talvolta a conseguenze incredibili: il Kahal ebraico in certi paesi giunse perfino a vendere preventivamente una proprietà appartenente a un Cristiano, nel senso di dare a un dato Ebreo il diritto di impadronirsene senza dover temere della concorrenza degli altri Ebrei, potendo anzi contare sul loro aiuto. Ciò ricorda la teoria comunista, secondo la quale, la proprietà essendo un furto, il furto sarebbe già una anticipazione e quasi un acconto di quel che al proletario, nel futuro, secondo “giustizia”, dovrà esser restituito. Da qui, la nota mancanza di scrupoli dell’Ebreo: conseguenza, essa stessa, di una concezione originariamente religiosa. La terrestrità del mito messianico ebraico ha dato facile modo di associare a questo “stile” l’ideale di una potenza puramente materiale, da realizzarsi attraverso il danaro, l’alto capitalismo e l’alta finanza. Si ha, qui, il primo esempio di dopia verità: da un lato, vediamo che l’internazionale marxista e socialista si intende a distruggere ogni distinzione di classe e ogni privilegio “borghese”, puntando, in ciò, essenzialmente, contro le nazioni e le classi arie; dall’altro, abbiamo l’internazionale finanziaria, essa stessa ebraica o ebraizzata, che rastrella, raccoglie i frutti e vede come le nobili vie della giustizia sociale conducono alla nuova Gerusalemme, tanto da non esitare, ove occorra, a sovvenzionare rivoluzioni, quella bolscevica compresa. E’ una situazione che si ripete in tutti gli altri campi. Per addurre ancora qualche esempio, vediamo che gli Ebrei predicano agli Ariani il vangelo della eguaglianza e dell’internazionale, per sé riservano invece la teoria del più geloso nazionalismo; mentre deprecano la barbarie del razzismo quando questa dottrina è difesa da goi, a casa loro si mostrano razzisti e antiassimilazionisti al cento per cento; mentre le loro leggi hanno un rigore draconiano contro il delitto, e lo considerano nella sua più bruta oggettività misurando la pena con lo ius talionis, ecco che invece per i non-Ebrei somministrano teorie varie intese a giustificare il delinquente, a trasformarlo in una vittima delle ingiustizie sociali, studiano la più raffinata casuistica delle circostanze e degli attenuanti, inventano perfino il subcosciente che rende irresponsabile il reo; insomma, trovano ogni espediente per disautorare lo Stato nel suo diritto sovrano di punire e di condannare. E così si potrebbe continuare. Chi, avendo l’occhio aperto, consideri tutta la “letteratura” e l’ “arte” ebraica, vi riconoscerà quasi senza eccezione la predicazione sistematica della “seconda verità”, cioè di quella intesa a dissolvere la vita, i costumi, gli ideali, le facoltà di discernimento e le verità dei non Ebrei. Quanto all’altra verità, essa non bisogna cercarla in tali opere moderne del “genio d’Israele”; bisogna invece cercarla nei testi originari, nella tradizione ebraica ortodossa che, come s’è detto, oggi può esser forse completamente conosciuta solo da una élite ebraica ristretta, senza per questo cessare di esser presente e attiva come istinto negli altri, tanto da far da cemento segreto alla comunità degli ebrei sparsi nel mondo.

    5. – Circa questa dispersione, è poi assai significativa la dichiarazione di alcuni Ebrei, secondo i quali essa, lungi dal significare una sventura, dovrebbe considerarsi come un fatto provvidenziale: dato che Israele è rimasto uno, la sua dispersione non può significare che la condizione migliore per un’azione volta al dominio universale. Si vede, da ciò, che chi considera come una soluzione del problema ebraico il sionismo in termini moderni, vale a dire nella forma della costituzione di uno Stato nazionale che raccolga tutti gli Ebrei sparsi nel mondo, si sbaglia di grosso, perché non comprende il senso tradizionale dell’ideale sionista. Devesi del resto rilevare che la Diaspora, cioè la dispersione degli Ebrei, cominciò affatto volontariamente già prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme; gli Ebrei avevano già preso l’iniziativa di lasciare le loro terre per installarsi nei posti che più guadagno promettevano e quando un re persiano si dichiarò pronto a ridar loro la sede donde essi erano stati scacciati, ben si guardarono dall’accettare, avendo trovato, in quel momento, di meglio. La soluzione sionistica nel senso ora detto sarebbe dunque desiderabile non dal punto di vista degli ideali ebraici, ma dal punto di vista di una necessaria misura di polizia da parte dei popoli non ebraici: il nuovo Stato nazionale israelita che dovrebbe accogliere tutti gli Ebrei dispersi nelle varie nazioni, qualora potesse venire realizzato superando le gravissime difficoltà materiali, non potrebbe avere, per gli Ebrei, che il significato di un enorme campo di concentrazione, nel quale i reclusi finirebbero col divorarsi a vicenda, l’Ebreo potendo ben far suo il motto: “Je m’attache ou je meurs”. La vera forma in cui l’Ebreo invece si trova suo agio, è quella, già accennata, di una umanità completamente democratizzata, “libera”, informe, ove egli ha dunque le mani libere e può facilmente condurre i goi là dove vuole: e questa non è che la traduzione in termini moderni della stessa idea tradizionale ebraica della “giustizia” e un’approssimazione all’avvento della promessa divina. Ed è per questo che l’Ebraismo giocherà la sua estrema partita dalla parte delle grandi democrazie e in una coalizione di queste con l’internazionale rossa, coalizione che per i profani apparirà soltanto tattica e strategica, per gli altri – per gli iniziati – rivelerà invece anche la convergenza profonda di queste due idee opposte, in eguale misura ebraizzate.

    6. – Una impostazione seria del problema ebraico non deve però trascurare ciò che si riferisce agli stessi popoli “ariani”: deve impedire che si faccia dell’Ebreo una specie di capro espiatorio circa delle responsabilità le quali, invero, cadono anche sui non-Ebrei. Ciò vale soprattutto nell’ambito spirituale e culturale: nel campo della materia si può pensare che solo mediante l’astuzia e l’intelligenza, una abilità specializzata e un sistema di inganni e di corruzione gli Ebrei posson aver preso il sopravvento sui non-Ebrei. Negli altri campi una simile spiegazione cade in difetto. Non è possibile, in questi altri campi, che il superiore sia sopraffatto dall’inferiore. Ora, chi constata l’egemonia che l’Ebraismo e le altre forze della sovversione mondiale stavano per realizzare sull’intero mondo occidentale e l’opera innegabile di distruzione da essi svolta con successo, deve scegliere fra due soluzioni: o deve pensare che il nemico era più forte e quindi ammettere, da parte degli Ariani, una vergognosa inferiorità; ovvero deve pensare che l’egemonia e l’azione suddette sono state possibili solo perché gli Ariani hanno tradito se stessi, sono venuti meno alle loro vere tradizioni, si sono degenerati e aperti alle forze dell’avversario, le quali altro non hanno aspettato per irrompere e accelerare la caduta.
    Non vi è dubbio, che sia la seconda alternativa a corrispondere alla verità. L’attacco ebraico-massonico, marxista e disfattista in tutte le sue appendici culturali e intellettuali non avrebbe avuto possibilità di successo se avesse trovato di contro delle forze sane e intatte. Molti “Ariani”, che avrebbero dovuto resistere, hanno abbandonato i posti e talvolta son perfino passati all’avversario. Il fenomeno della “assimilazione a rovescio” è una triste realtà. Il De Vries de Heekelingen ricorda quel passo del Talmud, in cui si legge che un non-Ebreo, avendo detto al rabbino Tancham: “Su, diveniamo finalmente un unico popolo”, si ebbe la tranquilla risposta: “Benissimo. Purtroppo noi, essendo circoncisi, non possiamo divenire simili a voialtri. Fatevi dunque circoncidere anche voi e saremo tutti uguali”. Il De Vries commenta giustamente che nei tempi moderni non ci è stata imposta la circoncisione corporale ma, assai peggio, quella spirituale: “La sgiudaizzazione religiosa di una parte degli Ebrei ha avuto per inverosimile conseguenza la giudaizzazione delle nostre istituzioni cristiane. Noi non abbiamo dunque assimilato gli Ebrei, ma sono gli Ebrei che sono in procinto di assimilarci e soggiogarci”. L’emancipazione culturale dell’Ebreo si è compiuta in gran parte automaticamente, attraverso l’ebraizzazione della nostra cultura. L’involuzione delle nostre forze spirituali ha permesso all’Ebreo un facile gioco, ha permesso una immissione in grande stile del virus ebraico nella nostra cultura, tale, che in vari casi vi è da chiedere che cosa resti, in essa, di veramente “nostro” e in che modo si possa procedere a una vera discriminazione.
    In questo campo, come in quello fisiologico e organico, l’inferiore procede spesso di là dalle sue cause originarie. Si potrà dunque mettere al bando un romanzo, un dramma, un film, un sistema ideologico e così via quando ci si accorge che l’autore è di razza ebraica – e cio, malgrado qualche eventuale, inevitabile parzialità, sarà bene. Ma che si potrà fare quando si tratta dell’ebraismo divenuto, per infezione e involuzione, stile mentale e modo di sentire e di procedere di uomini di “razza ariana”? Considerando questo problema, vediamo che con le nostre considerazioni ci troviamo ricondotti all’idea da noi esposta a tutta prima, vale a dire alla necessità di integrare le considerazioni proprie a un razzismo di “primo grado”, cioè soltanto biologico, con considerazioni di un razzismo superiore, di secondo e di terzo grado, che individua e discerne la razza dell’anima e, poi, la razza dello spirito. Nel parlare, oggi, di “Ebrei onorari” e di “bolscevismo culturale” ci si è già avviati verso questo razzismo d’ordine superiore. Bisogna portarsi più avanti, e ben precisare i punti fondamentali di riferimento. Per poterci orientare nel caos di valori propri alla cultura contemporanea, figlia, a sua volta, di tanti incroci e effetto di influenze spesso oscure ed eterogenee, bisogna poter risalire al piano, nel quale le razze appaiono come tante idee universali: come idee le quali, se hanno avuto una precipua e preminente incarnazione in una data razza fisica e in una data civiltà storica, tuttavia sono suscettibili a essere definite a priori, come possibilità permanenti dello spirito. Dal Weininger, il quale, mezzo-ebreo in cuii la razza lottava contro una aspirazione superiore, poteva ben avere il senso di simili problemi, è stato scritto [7]: “Forse il grande merito dell’Ebraismo sta nel condurre continuamente l’uomo ario alla coscienza di sé, nell’ammonirlo a restare quello che è: l’ario deve esser quasi grato all’Ebreo: per suo mezzo egli sa esattamente da che cosa egli deve guardarsi: dall’Ebraismo come possibilità in sé medesimo”. Questo punto di vista è assai importante e capovolge lo “stile” che, purtroppo, in qualche caso si verifica tra gli antisemiti: l’Ebreo, cioè, non deve servire all’uomo ario per scaricarsi della propria responsabilità così come quando, poco virilmente, questo crede di esser stato la “vittima” del primo: l’Ebreo deve piuttosto servire a scoprire la parte della responsabilità che cade sull’Ario e il punto in cui questi ha cominciato a tradire se stesso e ad assumere un modo d’essere a lui estraneo. Per giungere a tanto, ripetiamolo, occorre considerare su di un piano superiore il problema dell’essenza dell’Ebraismo così come di ciò che a esso è opposto, cioè dell’idea ariana. Queste due grandi idee debbono esser studiate “allo stato puro”, non in una delle loro molteplici manifestazioni, e senza che l’esame vada a esser turbato da quanto procede dalla “realtà” della storia – cioè dalle varie misture e alterazioni. Quando si sia giunti a ciò, si avrà anche una sicura misura per misurare la vera arianità e per accusare lo spirito ebraico anche là dove, per una specie di assimilazione a rovescio, esso ha compenetrato di sé importanti settori della vita sociale e culturale ariana, senza la corrispondenza rigorosa a un Ebraismo, anche, di sangue e di razza fisica.
    Chi ricorda i nostri due precedenti e già citati saggi, vede che il tutto va a collegarsi organicamente: la formulazione dei compiti superiori della dottrina della razza, nel fissare l’idea di una razza del corpo, ma, poi, anche dell’anima e dello spirito, prepara il miglior terreno per venire a fondo, con serietà e imparzialità, del problema ebraico mentre questo problema, se svolto in tutti i suoi aspetti, rimanda a sua volta a compiti, che solo nell’ambito dei gradi superiori del razzismo possono trovare una adeguata soluzione [8].

    Anno 1939 – XIV

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    I corsivi sono dell’autore; i neretti di Patrizio.

    Le note tra parentesi quadra sono di Patrizio.

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    [1] I contributi evoliani a questo periodico, compreso il presente, sono raccolti nell’opera “Esplorazioni e disamine”, in due volumi, edita dalle Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 1994.

    [2] qui Evola si riferisce alla psicoantropologia di Ludwig Clauß, il cui “Razza e anima” (orig.: Rasse und Seele), inedito in Italia, dovrebbe vedere la luce per i tipi di una editrice specializzata. Un’ esposizione del pensiero del Clauß Evola la diede nel suo “Il mito del sangue”, sopr. capitolo VI (ultime edizioni: Edizioni di Ar, e SeaR). Un saggio del Clauß è contenuto nell’antologia “Orizzonti del razzismo europeo”, Editrice il Corallo, Padova, 1981.

    [3] La ristampa anastatica di detta edizione, contenente lo studio evolvano dei Protocolli, la si può trovare presso le Edizioni all’Insegna del Veltro. Le stesse edizioni stampano anche un altro studio sui Protocolli, che riassume lo stato delle ricerche sull’autenticità, e che può essere contrapposto alla pubblicistica assolutoria oggi vigente: A. Vloskij, I veri Protocolli, Parma, 1993.

    [4] E’ stata riedita dalle Edizioni di Ar, la cui ristampa della terza edizione è del 1989.

    [5] Si possono approfondire le maledizioni contro i non-ebrei contenute nel Talmud ebraico in tre testi: H. De Vries De Heekelingen, Il Talmud e i non ebrei, Ed. La Sfinge, Parma, 1991 (ma ristampa anastatica di un testo degli anni ’30 del ‘900); AAVV, Studi sul Talmud, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 1992; e, per quanto riguarda i rapporti con i cristiani in particolare: I.B. Pranaitis, Cristo e i cristiani nel Talmud, Tumminelli, Roma-Milano, 1939 (ristampa anastatica). Tutti e tre acquistabili presso le Edizioni all’Insegna del Veltro.

    [6] Evola si riferisce al libro di Georges Batault, Le problème juif, del 1921, tradotto e pubblicato nel 1983 dalle Edizioni di Ar col titolo “Aspetti della questione giudaica, presso cui è reperibile. Il testo è molto illuminante.

    [7] Otto Weininger, Sesso e carattere, ultima edizione delle Ed. Mediterranee (l’originale venne scritto in tedesco negli anni ’10 del ‘900 dall’autore triestino). Si veda il cap. XIII “Gli Ebrei”, una delle analisi più profonde dell’anima ebraica.

    [8] Sintesi di dottrina della razza, lo studio organico in cui Evola, dopo averlo esposto in forma ridotta in diversi saggi ed articoli, espone per esteso i tre gradi del razzismo, è stato ripubblicato dalle Edizioni di Ar nel 1994.

  3. #3
    Mjollnir
    Ospite

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    Solo un appunto a proposito del sionismo moderno: sarebbe certo inadeguato ed insufficiente ritenere tale fenomeno capace di sciogliere definitivamente l'ambiguità ebraica nei rapporti coi non-ebrei. Nè potrebbe impedire del tutto che l'azione di questa forza spirituale cessasse o si esplicasse in forme radicalmente diverse da quelle abituali. Penso che chi, da un punto di vista genericamente non modernista, guardi positivamente all'esistenza dello stato di Israele, o comunque - pur essendo filopalestinese - non arrivi ad auspicare la distruzione di esso, lo faccia prefiggendosi un obiettivo molto + modesto e pragmatico: evitare una seconda diaspora, che avrebbe come probabile meta l'Europa, ricattabile e manipolabile a piacimento secondo i ben noti schemi.
    In ogni caso non chiuderei completamente la porta per le conseguenze positive (sempre dal punto di vista europeo) che una stretta connessione ebraismo-sionismo potrebbe avere, sia nel senso di sciogliere alcuni equivoci su doppia appartenenza e doppia cittadinanza, sia nel senso di una pur ardua normalizzazione e svuotamento della portata sacerdotale-messianica dell'ebraismo. La quale poi è l'aspetto + nocivo, mentre una nazione storico-politica potrebbe perseguire solo la via dell'espansionismo militare. Forse i regimi fascisti d'Europa hanno tentato qualcosa di simile all'epoca ? E' un dubbio che nutro da diverso tempo

  4. #4
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    Sì, credo anch'io che quello fosse l'intento di quei regimi: confinare la portata dell'Ebraismo, ovvero dargli dei confini fisici, nel tentativo di separare definitivamente europeità ed ebraicità. Ecco perché la Soluzione doveva essere "Finale", ovvero definitiva separazione, dove per la prima volta nella storia sarebbero state le nazioni gentili a guidare il gioco, e non solo gli Ebrei a isolarsi nel loro mondo interiore (ma rimanendo all'interno dei Gentili).

    E' in quest'ottica che si inquadra la collaborazione tra i nazionalisti ebrei tipo Jabotinsky e i nazionalisti tedeschi per la creazione del focolare ebraico fuori dall'Europa.

    Perdendo la guerra, anche il titanismo faustiano delle iniziative del regime nazionalista tedesco finì. E l'Europa perse l'iniziativa del trasferimento ebraico, così l'Ebraismo colse due piccioni, contemporaneamente prendendosi il suo stato e rimanendo all'interno delle nazioni Gentili. Se questo sia stato un bene, lascio giudicare ad ognuno.

  5. #5
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    titanismo faustiano

    ah, adesso gli stermini di massa si chiamano così? interessante.
    bentrovato patry.

  6. #6
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    Originally posted by shambler
    titanismo faustiano

    ah, adesso gli stermini di massa si chiamano così? interessante.
    bentrovato patry.
    Uno "sterminio di massa", caro Shamby, sarebbe stata impresa infinitamente meno onerosa (basta una pallottola pro capite, alla sovietica) di un trasferimento di massa con tanto di centri di raccolta provvisoria, treni, viveri, etc. Spese in parte mitigate dal lavoro coatto per la produzione bellica e sociale, certo, ma comunque un'impresa - appunto - titanica e faustiana. Il riordinamento etnico dell'Eurasia rientrava nelle imprese scaturenti da quello spirito titanista del nazionalsocialismo.

  7. #7
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    Per continuare la riflessione su questo fondamentale tema, e per fornire documenti di prima mano e non dicerie partigiane sull' "antisemitismo" (in realtà antigiudaismo) fascista, ecco qui di seguito un altro scritto sempre dello stesso autore (Julius Evola). Autore per la verità piuttosto anticonformista e indipendente rispetto al potere del regime, al punto da sollecitare correzioni e rettificazioni delle iniziative culturali del Fascismo e dello stesso Nazionalsocialismo, all'insegna di una maggiore profondità nel condurre le proprie battaglie. E uno studioso delle tradizioni sapienziali antiche della fatta di Evola poteva ben reclamare questa maggiore profondità.
    Sper di fare cosa gradita per chi intenda studiare l'argomento.

  8. #8
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    SULLE RAGIONI DELL’ANTISEMITISMO

    di Julius Evola

    da “Vita Nova” – maggio 1933

    I

    Il semitismo nel mondo spirituale.

    Il problema semita in Italia non è molto sentito, a differenza di quel che accade in altri paesi – soprattutto nei paesi tedeschi – ove esso oggi, come tutti sanno, suscita violente attitudini polemiche non pure in sede ideale, ma anche in sede politica e pratica. Tuttavia noi riteniamo che una considerazione del problema semita anche fra noi, non sia priva di un certo interesse. Il fatto, poi, che in Italia non sono in egual misura presenti quelle circostanze speciali, che altrove hanno dato luogo alle forme più crude e istintive di antisemitismo, ci permetterà di considerare l’anzidetto problema con più calma e oggettività.
    Nell’antisemitismo spesso troviamo associati irrazionalmente i motivi più disparati, anzi antitetici. Mentre si vorrebbe esser radicali, non ci si accorge di quanto di ciò che si nega continui ad essere ammesso in ciò che si afferma, e viceversa. Soprattutto, manca un punto di vista generale, che permetta di riferirsi a delle salde premesse dottrinali e storiche, per giungere, partendo da esse, fino alla giustificazione di tesi pratiche sociali e politiche. Se, per conto nostro, ci crediamo fondati nel riconoscere nell’antisemitismo una precisa ragion d’essere, noi vediamo nella debolezza e nella confusione dei motivi spesso addotti da molti antisemiti il pericolo di pregiudicare la posizione – a tutto vantaggio degli avversari – facendo nascere il sospetto che tutto si riduca ad atteggiamenti unilaterali e settari di una politica contingente, a prevenzioni di razza, a reazioni irrazionali, ad assunzioni arbitrarie.
    E’ così che noi crediamo opportuno procedere, in queste note, ad una disamina delle ragioni vere da cui un atteggiamento antisemita può esser confortato. Si dice, che se oggi esiste in modo particolarmente visibile un pericolo semita sul piano della finanza e dell’economia mondiale in genere, vi è anche un pericolo semita in sede di etica, e, infine, in sede di spiritualità, di religione, di visione del mondo.
    Noi assumeremo dunque totalitariamente il problema: e in tre scritti analizzeremo successivamente la questione semita nel suo aspetto spirituale, etico e infine politico (economico-sociale).
    Come punto di riferimento, prenderemo una delle opere più complete a questo riguardo: l’ultima edizione del Manuale della questione ebraica di Theodor Fritsch [1]. Questo manuale raccoglie un gruppo di monografie dedicate appunto ai varii aspetti della questione ebraica, alla storia dell’ebraismo, all’influenza del semitismo sui varii dominii della civiltà moderna; riassume opere antisemite più vaste e riporta opinioni sugli Ebrei di autori a partir dall’antichità romana sino ad oggi; raccoglie testimonianze di Ebrei e di testi ebraici proprie a precisare lo spirito della razza; cerca infine di trarre delle conclusioni generali.
    Noi in parte analizzeremo il materiale raccolto nel grosso volume del fritsch, e in parte ci serviremo di esso come punto di partenza per un ordine più vasto di considerazioni. Ma, prima, una avvertenza: il fatto che Vita Nova ospita cortesemente le nostre idee, non implica necessariamente la sua adesione a queste stesse idee. In secondo luogo, il fatto che Vita Nova sia una rivista soprattutto politica, in questa occasione, non limiterà la nostra ricerca. Vogliamo dire che potrà anche darsi che qualche nostra considerazione non collimi interamente con idee assunte in alcuni ambienti in sede politica, sulla base del fatto che esse sono feconde di risultati pratici. E’ in sede affatto extrapolitica che noi qui accenneremo, se mai, a tali considerazioni, le quali non sono quelle che a noi piacciono, ma quelle a cui crediamo che l’esame oggettivo delle cose stesse debba portare in sede astratta, dottrinale, e che noi non avremo dunque nessun interesse a mantenere non appena, in questa stessa sede oggettiva, e non per via di ragioni pratiche, ci si dimostrasse che le cose stanno altrimenti.
    [1] Theodor Fritsch, Handbuch der Judenfrage, 21° ediz., Hammer Verlag, Leipzig, 1932, pp. 560.

    * * *

    Esiste una idea semitica come visione del mondo, della vita e del sacrum? Questo è il punto fondamentale. E’ con intenzione che qui usiamo la parola “semitico”, poiché essa corrisponde ad un concetto più vasto che non quello, semplicemente, di ebraico. Noi infatti crediamo che l’elemento ebraico non si possa separare nettamente dal tipo di civiltà diffusasi anticamente nell’intero bacino orientale del Mediteraneo, nella Sisra e nell’Asia Minore: per notevoli che possano pur essere le differenze fra i singoli popoli. Senza una considerazione complessiva dell’elemento semita, varii aspetti dello stesso spirito ebraico in azione in tempi più recenti sono condannati a sfuggirci.
    Che fondamenti abbiamo per considerare l’attitudine semitica rispetto alla spiritualità come qualcosa di negativo? Se qui ci rifacciamo al manuale del Fritsch, siamo lungi dal trovare risposte veramente soddisfacenti. E’ assai curioso che questo autore, nel raccogliere le varie testimonianze, abbia trascurato del tutto quelle di Nietzsche, di Bachofen e di De Gobineau, le quali avrebbero potuto fornire i veri punri di riferimento. In ogni modo, per dire ciò che l’attitudine semitica ha di negativo, bisognerebbe cominciare col definire il concetto positivo, valido, che si ha della spiritualità. Gli antisemiti sono assai più attenti alla polemica che non alla affermazione: ciò, in nome di cui essi negano e condannano è, sotto questo riguardo, assai spesso contradditorio e incerto. Così gli uni si rifanno al cattolicesimo (p.es. Moeller van der Bruck), gli altri al protestantesimo (Wolf, Guenther), altri ancora al pensiero laico-nazionale (Ludendorff) con l’aggiunta, talvolta, del “mito del sangue” (Rosenberg); e via dicendo. La debolezza di simili posizioni si tradisce già per via del fatto, che i rispettivi punti di riferimento ci riportano ad idee storiche cronologicamente posteriori all’affermazione delle prime civiltà semitiche, e in parte influenzate da elementi o derivazioni di esse, invece di porci dinanzi ad un polo spirituale egualmente originario e allo stato puro.
    Per noi, in tanto si può essere antisemiti in modo radicale, in quanto si creda ad una opposizione fondamentale fra spirito semitico e spirito ariano – cioè in quanto si sia capaci di determinare il contenuto positivo e universale di una idea ariana da contrapporsi al tipo delle divinità, del culto, del sentimento religioso, infine della stessa etica, della stessa politica dei popoli semiti e poi, in particolare, degli Ebrei. Insomma, bisogna esaminare quel che di positivo vi è nell’idea di Gobineau sulla preminenza delle razze indogermaniche; bisogna veder di connettere tale idea a quanto più recentemente Herman Wirth ed altri han cercato di precisare nei riguardi di una origine nordica e nordico-occidentale delle più alte forme di civiltà antica, non trascurando, infine, le geniali intuizioni del Bachofen sull’antagonismo fra civiltà solari (uràniche) e civiltà lunari (o telluriche), fra società rette dall’idea virile e società rette dall’idea “ginecocratica”.
    E’ evidente che qui non possiamo sprofondarci in una indagine del genere, da noi altrove intrapresa. Ci limiteremo a darne la conclusione delineando il tipo di quella spiritualità – che possiamo parimenti chiamare ariana o nordico-ariana o solare o “virile” – che, nella sua antitesi, deve farci conoscere quel che è veramente proprio allo spirito semita.
    Proprio agli arya – ai “nobili” – fu, come è noto, un’assunzione eroica del divino. Dietro ai loro simboli mitologici tratti dal cielo splendente si celava il senso della “virilità incorporea della luce” e della “gloria solare”, cioè di una virilità spirituale vittoriosa, per cui quelle razze non solo credevano nell’esistenza reale di una superumanità, di una stirpe di uomini non-mortali e di eroi divini, ma spesso a tale stirpe attribuivano una superiorità e un potere irresistibile rispetto alle stesse forze del “sovramondo”. In relazione a ciò, gli arya ebbero per ideale caratteristico più quello regale che non quello sacerdotale, più quello dell’affermazione trasfigurante che non quello dell’abbandono devoto, più quello dell’ethos che non quello del pathos. Originariamente i re ne erano i sacerdoti, nel senso che si riconosceva eminentemente ad essi, e non ad altri, il possesso di quella forma mistica, cui non solo si lega la “fortuna” della loro razza, ma altresì l’efficacia dei “riti”, concepiti come operazioni reali, oggettive, sulle forze soprasensibili. Su questa base, l’idea del regnum aveva un carattere sacrale peperò, più o meno direttamente, universale. Dai misteriosi concetti indù del ciakravarti o “signore universale”, passando per l’idea irànica del regno universale dei “fedeli” del “dio di luce” fino a giungere alla romana aeternitas imperi e in fine all’idea ghibellina medievale appunto del Sacro Romano Impero – sempre si è affacciato nelle civiltà ariane o di tipo ariano l’impulso a fornire un corpo universale alla forza dall’alto di cui gli arya si sentivano eminentemente i portatori.
    In secondo luogo, allo stesso modo che invece del servilismo devoto e orante si aveva l’idea del rito concepito, ripetiamolo come secca operazione necessitante rispetto al divino, così pure, più che non ai “santi”, agli eroi erano dischiuse fra gli arya le sedi più alte e privilegiate di immortalità: il Walhalla nordico, l’Isola dei beati dorico-achea, il cielo di Indra indù. La conquista dell’immortalità o del sapere conservò sin nei miti tratti virili e trionfali: là dove Adamo nel mito semita è un maledetto, per aver tentato di far presa sull’albero divino, il mito ariano ci mostra consimili avventure in un esito vittorioso e immortalante nella persona di eroi come p.es. Reacle, Giasone, Mitra, Siegurt. Di là dal mondo “eroico”, se il più alto ideale ariano è quello “olimpico” di essenze immutabili, compiute, staccat dal mondo inferiore del divenire, luminose in se stesse come le nature siderali – gli dei semitici sono essenzialmente degli dei che mutano, che hanno nascita e passione, gli “dei-anno” che, come la vegetazione, subiscono la legge del morire e del rinascere. Il simbolo ariano è solare, nel senso di una purità che è forza e di una forza che è purità, di una natura radiante che – ripetiamolo – ha luce in sé, in opposto al simbolo lunare (femminile), che è quello di una natura in tanto luminosa, in quanto riflettente la luce da una origine da lei distinta. Infine, per quanto riguarda i rapporti fra uomini in un piano inferiore, sono caratteristicamente ariani il principio della libertà e della personalità da una parte, della fedeltà e dell’onore dall’altra. L’ariano ha il piacere della indipendenza e della differenza, ha la ripugnanza per la promiscuità; ma ciò non gli impedisce la facoltà di obbedire virilmente, di riconoscere un capo, di aver l’orgoglio di servirlo con un legame liberamente stabilito, guerriero, irriducibile all’interesse, a tutto ciò che si può vendere e comprare e, in genere, volgare in termini di oro. Bhakti – dicevano gli ariani dell’India; fides – dicevano i Romani; fides si ripeteva nel medioevo; trust, treue – saranno le parole d’ordine del regime feudale. Se nelle stesse comunità religiose mithriache il principio di fraternità risentiva più dell’unione virile di soldati associati da una comune impresa (miles era il nome di un grado dell’iniziazione mithriaca), già gli ariani dell’antica Persia fino all’epoca di Alessandro conoscevano la facoltà di consacrare non pure le loro persone e le loro azioni, ma i loro stessi pensieri ai loro capi concepiti come esseri “divini”. Non una violenza, ma parimenti una fedeltà spirituale – dharma e bhakti – fondava fra gli ariani dell’India lo stesso regime delle caste nella sua gerarchia. Il contegno grave e austero, schivo di misticismo, diffidente degli abbandoni dell’anima, che fu proprio ai rapporti del civis e del pater romani con le sue divinità ha gli stessi tratti dell’antico rituale dorico-acheo e della tenuta “regale” e dominatrice dei brahmana del primo periodo vedico o degli atharvan mazdei. Nel complesso, è un classicismo del dominio e dell’azione, un amore per la chiarezza e per la distinzione, un ideale “olimpico” della divinità e della superumanità insieme ad un ethos della fedeltà e dell’onore, a caratterizzare lo spirito ariano.
    Con ciò, se pure sommariamente, il punto fondamentale di riferimento è dato. Si tratta di tener presenti i lineamenti di una antitesi ideale, da servire per procedere all’analisi di ciò che la realtà storica ci mostra spesso allo stato di mescolanza: giacché sarebbe assurdo, una volta giunti a tempi meno antichi, voler ritrovare in qualche luogo dell’ariano e del semitico allo stato assolutamente puro.
    Che cosa caratterizza la spiritualità delle civiltà semitiche in genere? La distruzione della sintesi ariana di spiritualità e virilità. Noi abbiamo fra i Semiti, da una parte una affermazione grassamente materiale e sensualistica, ovvero rozzamente e ferocemente guerriera (Assiria), del principio virile; dall’altra, una spiritualità devirilizzata, un rapporto “lunare” e prevalentemente sacerdotale rispetto al divino, il pathos della colpa e dell’espiazione, tutto un romanticismo impuro e incomposto e, a lato, un contemplativismo a base naturalistico-matematica.
    Precisiamo qualche punto. Anche nella più remota antichità mentre gli ariani – come gli stessi egizii (la cui civiltà deve considerarsi di origine “occidentale”) – avevano dei loro re il concetto di “pari degli dei”, già in Caldea il re non valeva che come un vicario - patesi – degli dei, concepiti come enti da lui distinti (Maspero). Vi è qualcosa di più caratteristico per questa deviazione semitica dal livello di una spiritualità virile: l’umiliazione annuale dei re a Babilonia. Il re, vestito da schiavo o da prigioniero, confessava le sue colpe e solo quando, battuto da un sacerdote rappresentante il dio, le lacrime gli sgorgavano dagli occhi, veniva confermato nella sua carica e tornava a rivestire le insegne regali. In realtà, come il sentimento della colpa o “peccato” (quasi del tutto estraneo agli ariani) è connaturato nella razza ebraica e si riflette in modo caratteristico nell’Antico testamento, così altrettanto caratteristico per i popoli semiti in genere, strettamente legato a tipi di civiltà patriarcale (Pettazzoni) e invece estraneo agli ariani è il pathos della “confessione dei peccati” e della redenzione da essi. E’ già il complesso “cattiva coscienza” che usurpa valore “religioso” e altera la calma purità e la superiorità “olimpica” dell’ideale aristocratico ariano.
    Nelle civiltà semitico-siriache e in quella assira è caratteristica la predominanza di divinità femminili, di dee lunari, o telluriche, della vita, spesso date nei tratti impuri di etère. Gli dei, per contro, con cui esse si accompagnano quali amanti, non hanno nessuno dei tratti sovrannaturali delle grandi divinità ariane della luce e del giorno. Spesso sono nature subordinate dinanzi alla Donna o Madre divina. Essi o sono dei “in passione” che soffrono e che muoiono e risorgono, o sono divinità feroci e guerriere, ipostasi della forza muscolare selvaggia o della virilità fàllica. Nell’antica Caldea le scienze sacerdotali, specie astrologiche, son poi appunto l’esponent di uno spirito lunare-matematico, di un contemplativismo astratto e, in fondo, deterministico, scisso da ogni interesse per l’affermazione eroica e sovrannaturale della personalità. Un residuo di questo spirito, agirà – secolarizzato – tra gli stessi Ebrei di epoche successive: da un Maimonide ad uno Spinosa, fino ai matematici moderni oggi prevalentemente forniti (Einstein compreso) appunta dalla razza ebraica, noi troviamo una passione caratteristica per il pensiero astratto, o per la legge naturale data in sede di numeri senza vita. E questo, in fondo, è ancora il migliore aspetto dell’antica eredità semitica.
    Naturalmente, per non apparire unilaterali, noi dovremmo svolgere considerazioni ben altrimenti vaste, di quelle qui permesse. Diremo solo che elementi negativi, come quelli ora accennati, oltre che fra i Semiti si possono ritrovare altre in altre grandi civiltà. Senonché in queste, fino ad un dato periodo, rispetto al tipo predominante della loro spiritualità, appaiono come elementi secondari e subordinati, connessi quasi sempre al substrato di razze inferiori soggiogate. E’ fra l’VIII e il VI sec. A.C. che noi assistiamo quasi contemporaneamente nelle più grandi civiltà antiche ad una specie di crisi o climaterium, ad un tentativo di insorgenza di quegli elementi inferiori. Può darsi che in Oriente – dalla Cina all’India e all’Iran – tale crisi sia stata superata per mezzo di congrue reazioni o riforme (Laotze, Confucio, Buddha, Zarathustra). In Occidente la diga sembra essersi rotta, l’ondata sembra non aver trovato nessun ostacolo importante per la sua emergenza progressiva. In Egitto è il prorompere del culto popolare di Iside e di divinità affini, con il loro incomposto misticismo, di contro all’antico culto regale, virile e solare, delle prime dinastie. In Grecia, è il tramonto della cultura acheo-dorica con i suoi ideali eroici ed olimpici, è l’avvento del pensiero laico, antitradizionalistico e naturalistico da una parte, del misticismo orfico e orfico-pitagorico dal’altra. Ma il centro da cui il fermento di decomposizione si è soprattutto irradiato in tutto l’Occidente (ironia dell’ex Oriente lux!) sembra essere stato costituito appunto dal gruppo dei popoli semiti e, in ultimo, dalla razza ebraica.
    Rispetto a quest’ultima, per essere oggettivi bisogna distinguere due periodi che si differenziano l’uno dall’altro proprio in quel momento storico di crisi, cui abbiamo accennato. Se vi è una accusa fondamentale da fare agli Ebrei, è quella di non aver avuto nessuna tradizione in proprio, di dover ad altri popoli, semiti o non semiti, sia gli elementi positivi sia gli altri, negativi, che poi essa seppe più particolarmente sviluppare. Così se noi consideriamo la religione ebraica più antica, l’antico culto fariseo di Yahveh, la stirpe dei re sacerdoti come Salomone eDavid, non si può negare un certo carattere di purezza e di grandezza. Il presunto “formalismo” dei riti in quella religione aveva con grande probabilità lo stesso spirito antidevozionale, attivo, determinativo, da noi indicato nel rituale aristocratico ariano primordiale. La stessa idea di un “popolo eletto”, chiamato a dominare il mondo in nome di Dio – a parte il discutibile diritto degli Ebrei di riferirla alla loro razza- è, come abbiamo accennato, una idea che si ritrova in tradizioni ariane, soprattutto fra gli Iràni: come fra gli Iràni si ritrova anche, benché in tratti virili e non passivamente messianici, il tipo del futuro “signore universale” Saoshians. Fu un punto di crisi, connesso al tracollo politico del popolo ebraico, a distruggere questi elementi di spiritualità positiva, che con grande probabilità vanno riconnessi agli Amorini, ceppi di cui taluno sostiene l’origine nordica. Il profetiamo rappresenta la decomposizione dell’antica civiltà ebraica e la via di ogni successiva decadenza. Al tipo del “veggente” – roeh – si sostituisce appunto quello del “profeta” – nabi – dell’ispirato o ossesso di Dio, tipo che precedentemente veniva considerato quasi come un malato. Il centro spirituale si sposta su lui e sulle sue apocalissi – non cade più sul gran sacerdote o sul re sacerdotale governante in nome del “Dio delle armate” Yaveh Sebaot. Qui la rivolta contro l’antico ritualismo sacrale in nome di una informe, romantica e incomposta spiritualità “interiore” si associa ad un sempre crescente servilismo dell’uomo di fronte al Dio, ad un sempre maggior piacere dell’autoumiliazione e ad una sempre maggior menomazione del principio eroico, fino all’abbassamerento del tipo del Messia a quello dell’ “espiatore”, della “vittima” predestinata sullo sfondo terroristico delle apocalissi – e, sopra un altro piano, fino a quello stile di inganno, di ipocrisia servile e, insieme di subdola indomabile insinuazione disgregatrice, che resterà caratteristico per l’istituto ebraico in genere. Scalando, mediante il cristianesimo, l’impero romano già minato da ogni sorta di culti spurii asiatico-semitici, lo spirito ebraico si pose effettivamente alla testa di quella grande insurrezione dell’Oriente contro l’Occidente, dei sudra contro gli arya, della spiritualità promiscua del Sud pelagico contro la spiritualità olimpica e uranica di razze superiori conquistatrici, che aveva già avuto nell’antica storia mediterranea i suoi primi episodii.
    Con il che, si è giunti al punto, in cui si può esaminare a che cosa si riducano sotto questo riguardo, le ragioni degli antisemiti.
    Anzittutto è davvero ingenuo pensar di giustificare l’avversione verso la religione ebraica mediante una scelta dei passi della Bibbia, da cui apparirebbe che il Dio ebraico è un Dio “umanizzato”, “suscettibile di errore”, “mutevole”, “ingiusto”, “crudele”, “disonesto” e via dicendo (Fritsch, pp. 111-117) e nello stigmatizzare questo o quell’episodio ebreo – con lo Spinosa – si può riconoscere una prevalente corpulenza e sensualità nella imaginazione mitologica ebraica. Tuttavia, questo a parte, sarebbe da chiedersi se, quando una religione dovesse venir giudicata alla stregua di tali elementi contingenti, le stesse mitologie di puro ceppo nordico-ariano avrebbero modo di salvarsi. Giacché è un tedesco che parla, che si dovrebbe dire, per esempio, della fedeltà dello stesso Odino-Wotan ai patti stabiliti con i “giganti” ricostruttori dell’Asgard e della “moralità” del re Guenther che fa di Siegfrid il noto uso per ricondurre Brunhild ai suoi doveri di sposa? Poi, addirittura ridicola è la protesta contro i sacrifici di animali del rituale ebraico, cosa che sarebbe “un’onta per ogni popolo civile” e un tratto … antiariano! (pp. 141-148). Dove si vede che la difesa dell’ideale eroico ariano e quello della imbelle protestantica società per la protezione degli animali (“nostri fratelli minori”, secondo il sentimento dei teosofisti) cadrebbero per alcuni, a maggior gloria dell’antisemitismo, in un sol punto!
    Quando il Guenther (p. 24) dice che lo spirito semitico-orientale in genere ha per caratteristica “l’oscillare fra il sensibile e il soprasensibile, la mescolanza fra sacralità e bordello (Oldenberg), la gioia per la carnalità e simultaneamente per la mortificazione della carnalità, l’opposizione antinordica (noi meglio diremmo: anticlassica o antidorica) fra spirito e corpo, il piacere del potere su comunità servili, l’insinuarsi strisciando nel sentimento altrui”; quando il Wolf (p. 42) dice che dall’Oriente semitico scaturirono tutte le malattie di cui soffriamo, “dal terreno paludoso del caos etnico orientale son nati l’imperialismo e il mammonismo, l’urbanizzazione dei popoli con la distruzione della vita coniugale e famigliare, il razionalismo e la mecanizzzione della religione, la civiltà sacerdotale mummificata, l’ideale assurdo di uno stato divino abbracciante l’intera umanità” – quando gli antisemiti dicono questo, ci dànno un’insalata russa ove si trova certamente del giusto, ma fra confusioni di idee veramente singolari. Per rendersi conto di queste confusioni, basterà dire p.es. che per il Wolf Greci e Romani non avrebbero avuto altro merito, fuor che quello di avere sviluppato una “fiorente civiltà laica nazionale” (p. 42): dal che si vede, quanto poco l’antica spiritualità ariana valga a tale autore come punto di riferimento. Al posto di tale spiritualità avendo messo l’idea protestantica – cioè proprio una diramazione di quello spirito ebraico contro cui egli vorrebbe combattere – egli vede l’opposto della verità: il trionfo del profetiamo sull’antica spiritualità rituale ebraica gli sembra (p. 52) un progresso anziché una degenerazione, analoga appunto a quella costituita dalla rivolta luterana contro il ritualismo e il principio cattolico d’autorità. Egli accusa l’ideale di uno stato universale sacrale come semitico (p. 54) mentre i semiti, come si è detto, tale ideale, se mai, lo hanno tolto dagli ariani, ed esso in sé è così poco ebraico, da far d’anima al medioevo cattolico-germanico, al sogno di un Federico II e di un Dante, Si è che, strano a dirsi, Roma, in tale ideologia protestantica antisemita, finisce col divenire un sinonimo di Gerusalemme: essa sarebbe non tanto cristianesimo, quanto ebraismo, e in pari tempo eredità dell’imerp pagano il quale, a sua volta, nel suo universalismo, sarebbe già ebraico, o presso a poco (p. 67). Che cosa sarebbe antiebraico, invece? Il cristianesimo evangelico, cioè precattolico, nel suo aspetto individualistico, fideistico-devozionale e antidogmatico che risale proprio all’impuro fermento semita: poi, e appunto, Lutero, cioè colui che contro la “romanità” della Chiesa cattolica ha rivalorizzato l’Antico testamento. Non si saprebbe trovare un antisemita più… filosemita di questo.
    Nel contesto, ci sembrano dunque molto più giuste e coerenti le idee di Alfred Miller (pp. 235-264), il quale contesta il diritto di assumere il protestantesimo come tipo di una religione purificata dall’elemento semita, e se fa accuse alla Chiesa di Roma, lo è perché vede conservarsi anche in essa tradizioni e pretese ebraiche (p.es. la pretesa di Israele di essere il “popolo eletto” per la rivelazione), oltre che per il fatto che la Chiesa, da un rigorismo antiebraico, sarebbe oggi poco a poco passata ad un regime di tolleranza. Il Miller accusa Roma anche di esser l’erede di un fariseismo sacerdotale che, al pari di quello ebraico aspirerebbe con ogni mezzo al dominio universale. D’altra parte, nei famosi Protocolli dei Savi del Sion vien dato come ebraico l’ideale di un regno universale retto da una autorità sacra. Qui, ancora una volta, si associano e confondono cose che invece, sulla base dei principii già indicati, andrebbero distinte. Se nessuno vuole contestare l’asiatizzazione e quindi la decadenza che subì, nella Roma antica, l’idea imperiale universale, ciò non può essere un argomento contro questa idea presa in sé stessa: né un argomento è che l’ebraismo, in una certa misura, in quell’elemento fariseo che per noi non è negativo ma positivo, si sia appropriato di ideali consimili. Da un punto di vista “ariano” la Chiesa cattolica in tanto ha valore, in quanto ha saputo in una certa misura “romanizzare” il cristianesimo (senza Roma – ebbe a dire Mussolini – il cristianesimo sarebbe rimasto la religione di una oscura setta ebraica) riprendendo idee gerarchiche, tradizioni, istituzioni e simboli che si rifanno ad un più vasto patrimonio, rettificando l’elemento deleterio, strettamente connesso al messianesimo ebraico e al misticismo antivirile siriano, proprio alla rivoluzione del cristianesimo primitivo. Certo, chi pensi a fondo, troverà più di un compromesso nell’idea cattolica, più di un residuo di spirito non-ariano. Purtuttavia nei tempi più recenti Roma resta l’unico punto di riferimento relativamente positivo, mentre la Riforma, per via di una fatale deviazione e perversione dell’istinto nordico di indipendenza, ha ridestato proprio quel substrato di spiritualità antiariana, che il cattolicesimo aveva in qualche misura superato e limitato.
    Il relazione a ciò, vi son da fissare due punti. Come vedremo nei prossimi scritti, vi è, sì, oggi, un’idea universale ebraica che cerca di travolgere i resti delle antiche tradizioni europee: ma questa idea va detta internazionale più che universale, rappresenta il capovolgimento materialistico e mammonistico di quel che potè essere l’antica idea sacrale di un regnum universale. In secondo luogo si può scoprire la molla nascosta di un certo antisemitismo d’oltralpe appunto attraverso la sua polemica antiuniversalistica e antiromana, attraverso la sua confusione fra l’universalismo quale idea supernazionale e un universalismo che significa solo quel “fermento attivo di cosmopolitanismo e di decomposizione nazionale” che, secondo il Mommsen, anche nel mondo antico è stato propiziato soprattutto dall’ebraismo. Qui vi è essenzialmente da rilevare la contraddizione in cui cade chi, mentre da una parte rimprovera gli Ebrei di avere un Dio nazionale solo per loro, una morale e un senso di solidarietà ristretto alla razza, un principio di non-solidarietà per il genere umano, e così via, poi viene proprio a partecipare di questo “stile” ebraico quando polemizza contro quell’altro (presunto) aspetto del pericolo semita, che sarebbe l’universalismo. Chi infatti proclama la formula ”Gegen Rom und gegen Judentum” spesso in ciò obbedisce al tipo più gretto di nazionalismo, più condizionato dal sangue (quindi da un elemento affatto naturalistico), manifestando nel tentativo perfino di costruire delle chiese nazionali – die deutsche Volkskirche – lo stesso spirito di scisma del gallicanismo e di analoghe eresie che riprendono, mutatis mutandis, lo spirito di esclusivismo e di monopolio del divino a beneficio di una data razza, proprio all’antico popolo ebraico. E a tale stregua è naturale che si finisca in una dichiarata antiromanità la quale però per noi equivale senz’altro ad antiarianesimo, ad un pensiero ibrido, senza nervi, senza chiarità né capacità di ampi liberi orizzonti.
    Queste considerazioni però ci portano già all’altro aspetto, etico e politico, dell’antisemitismo, che sarà l’oggetto degli scritti successivi. Così è tempo di concludere brevemente sulle ragioni dell’antisemitismo sul piano della spiritualità. Il Duhring (p. 461) ha avuto occasione di scrivere, che “una questione ebraica esisterebbe anche quando tutti gli Ebrei avessero abbandonata la loro religione per passare in seno alle nostre Chiese dominanti”. Bisogna estendere questa idea fino a dire che, nel presente riguardo, si può perfino prescindere dal riferimento obbligato alla razza per parlare di un semitismo in universale, di un semitismo come attitudine-tipo rispetto al mondo spirituale, tanto che lo si può ritrovare anche là dove mancano relazioni dirette, etniche e culturali, con l’elemento ebraico. Dovunque viene meno l’assunzione eroica, trionfale, virile del divino e viene esaltato il pathos di una attitudine servile, spersonalizzante, ibridamene mistica e messianica rispetto allo spirito – là ritorna l’originaria forza del semitismo, dell’antiarianesimo. Semitico è il senso della “colpa” e altresì dell’ “espiazione” e dell’autoumiliazione. Semitico è il risentimento dei “servi di Dio” che non tollerano nessun capo e volgono a costituirsi come mera collettività onnipotente (Nietzsche) – con tutte le conseguenze di tale idea antigerarchica, fino alla sua materializzazione moderna come marxismo e comunismo. Semitico è infine quello spirito “infero” di agitazione oscura e incessante, di intima contaminazione e di improvvisa rivolta, per cui, secondo gli antichi, Tifone-Set, il sepre nemico della divinità solare egizia, sarebbe stato il padre degli Ebrei e Jeronimo e gli Gnostici considerarono il dio ebraico come una creatura tifònica.
    Così oggi, in sede spirituale, il fermento semitico di decomposizione è da trovarsi sia nell’intimo delle ideologie culminanti nella mistica di una umanità servile collettivizzata sotto i segni tanto dell’internazionale bianca che dell’internazionale rossa, sia del “romanticismo” tutto dell’anima moderna – riemergenza del clima “messianico” – nel suo attivismo spiritualmente distruttore, nel suo èmpito scomposto, nella sua irrequietezza nevrotica percorsa dalle forme più impure e sensualistiche di “religione della vita” o di evasione pseudospiritualista. Per essere antisemiti a fondo, qui non vi è da ricorrere a mezzi termini, a idee intaccate esse stesse dal male contro cui si vorrebbe reagire. Bisogna essere radicali. Bisogna rievocare i valori ariani di una spiritualità solare e olimpica, di un classicismo fatto di chiarezza e di forza dominata, di un amore nuovo per la differenza, per la libera personalità e insieme per la gerarchia e per l’universalità che una razza capace di nuovo di elevarsi virilmente dal “vivere” al “più che vivere” può creare di contro ad un mondo dilacerato, senza principii e senza vere tradizioni. Così, la base si ha solo risalendo ad una antitesi universale, libera dal vincolo etnico. Il semitismo qui, in fondo, ci vale come sinonimo di quell’elemento “infero”, barbarico, che ogni grande civiltà ha soggiogato all’atto del suo realizzarsi come cosmos di contro a [/i]caos[/i]. Anche senza riferirsi alle tradizioni circa una derivazione nordica (e solo più recentemente ariana, indogermanica) assolutamente preistorica della spiritualità “solare” formatrice di tali civiltà, restringendoci all’Occidente, in quanto abbiamo accennato circa lo spirito delle civiltà del Mediterraneo orientale, la crisi subita dallo stesso popolo d’Israele, la connessione delle forze liberate da tale crisi con quelle che alterarono sia la cultura egizia che quella dorica e, infine in un moto d’insieme, quella romana – in tutto questo noi abbiamo dato sufficienti elementi per giustificare il diritto di un riferimento al “semitismo” nei confronti di ciò, contro cui oggi combattiamoi in nome delle tradizioni più luminose del nostro passato e, in pari tempo, di un migliore futuro spirituale.

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    II
    “Il semitismo nel mondo culturale”

    Come in un seme la forza germinativa non si manifesta appieno che quando esso si spezza e fa passare i suoi elementi nella materia circostante, così l’ebraismo non avrebbe cominciato a manifestare universalmente la sua potenza distruttrice e eticamente sovvertitrice, che con la caduta politica e la dispersione nel mondo del “popolo eletto”. Gli ebrei non sarebbero mai venuti meno alla loro pretesa messianico-egemonistica, al loro istinto di dominio universale statuito dalle tre massime bibliche: “Tutte le ricchezze del mondo debbono appartenerti” – “Tutti i popoli debbono esserti servi” – “Tu devi divorare tutti i popoli che il tuo Signore di darà” (1). Solo che questo istinto indomato si traveste, assume forma serpentina, diviene azione occulta, sotterranea. Precluse le vie della affermazione diretta, esclusa la possibilità di vittoria attraverso una lotta leale, “ariana”, di razza di fronte a razza, gli ebrei avrebbero creato per la realizzazione del loro ideale un fronte interno unitario di insidia e di tradimento in seno ad ogni nazione.
    E due principali istrumenti sarebbero stati prescelti: il danaro e l’intelligenza. Non attraverso armi, bensì attraverso la potenza dell’oro da una parte, e dall’altra attraverso tutto ciò che l’intelligenza può, in senso di disgregazione spirituale e etica, di miti sociali e culturali fomentatori di rivolta e di sovvertimento di fronte ai valori e alle istituzioni tradizionali dei popoli ariani, gli ebrei da secoli sarebbero scesi in campo per la conquista del mondo. E il segreto della storia politica e culturale degli ultimi secoli, soprattutto dopo le rivoluzioni, sarebbe esattamente l’adergersi progressivo dell’ebreo a dominatore supernazionale invisibile dell’Occidente.
    Tali le tesi generali dell’antisemitismo sul piano della storia universale. E così si precisa l’oggetto del presente articolo e dell’ultimo, che seguirà; l’ebraismo nel mondo culturale e nel mondo economico-sociale corrispondono appunto ai due strumenti: intelligenza e danaro, che la supposta congiura ebraica avrebbe assunti per la sua azione universale.
    Alcune osservazioni preliminari. Mentre nel precedente scritto abbiamo visto che per precisare una antitesi all’elemento ariano sul piano della spiritualità si doveva parlare non tanto di ebraismo, quanto, e più in generale, di semitismo, qui nelle varie attitudini antisemite ciò che invece entra più particolarmente in considerazione è appunto l’elemento ebraico. Purtuttavia è facile vedere che a queste attitudini è proprio uno spostamento più o meno consapevole di bersaglio: si punta contro l’ebreo, mentre in realtà si fa il processo contro un insieme di fenomeni culturali e sociali così vasto, che sarebbe davvero superstizioso riferirne l’origine ai soli ebrei, si siano pur ammessi i “superiori sconosciuti” (von Molte) e occulte organizzazioni, delle quali la massoneria giudaizzata sarebbe soltanto la forma più recente e più nota. In realtà, nella rivolta contro l’ebreo spessissimo si cela una rivolta contro il mondo moderno in genere, oltreché contro degli antecedenti di esso presenti nello stesso mondo antico: almeno, ogni qualvolta la tesi antisemita ci si presenta in forma veramente chiara, decisa e coerente.
    In che modo lo spirito ebraico ha agito nel mondo della cultura nel senso anzidetto di vendetta, di odio e di disgregazione nei riguardi delle civiltà non-ebraiche?
    Chi, come il Wolf (p. 54), riporta l’indagine ai tempi antichi, indica tre elementi fondamentali: nomadismo, mammonismo (materialismo) e razionalismo.
    Con spirito di nomadi, di dispersi, di senza-patria, gli ebrei avrebbero immesso nei varii popoli, a partir da quello romano, il virus della snazionalizzazione, dell’universalismo e dell’internazionalismo della cultura. E’ un’azione incessante di erosione di ciò che è qualitativo, differenziato, individuato dai limiti di una tradizione e di un sangue. E’ ciò che nelle epoche più recenti vedremo concentrarsi particolarmente sul piano sociale come lievito di rivoluzioni socialitarie, ideologia democratico-massonica iudaizzante e relativi miti umanitario-sociali e internazionalistici.
    Mommsen ebbe a scrivere (p. 461): “L’ebreo è essenzialmente indifferente di fronte allo stato: tanto egli è duro nel rinunciare alla sua caratteristica nazionale, altrettanto egli è pronto a travestirla con una qualsiasi nazionalità. Anche nel mondo antico l’ebraismo fu fermento omogeneo indomabile, sfuggente e senza patria all’interno di ogni patria, nell’elemento ebreo il Wolff (p. 94) vede dunque il principio stesso dell’antirazza, dell’antinazione, dell’anticultura: non l’antitesi di una determinata cultura, ma di ogni cultura in quanto cultura razionalmente individuata.
    Secondo elemento di decomposizione: il razionalismo. Procedente da una religione che concepiva i rapporti fra uomo e Dio come una regolazione interessata e quasi contrattuale di profitto e perdita, il germe razionalistico giudaico avrebbe fruttificato lungo le epoche in una direzione spersonalizzante, meccanicistica, antiqualitativa convergente con quella già detta dell’internazionalismo, fino a sboccare nell’illuminismo e nel razionalismo vero e proprio dell’epoca moderna. Su modello ebraico si credette di poter tutto calcolare e regolare con la ragione umana. Con l’intelletto calcolatore gli uomini si costruirono una vita statale, sociale, giuridica e economica che si suppose “conforme alla natura e alla ragione”, tenuta a valere per tutti e a dominare in tutti i luoghi e in tutti i tempi (p. 80). Ilcoronamento è la religione naturale e razionale propria alla ideologia universalistica massonico-enciclopedica, al centro della quale sta appunto il simbolo ebraico del Tempio di Salomone, gran Maestro dell’Ordine (p. 81).
    Il terzo elemento – il materialismo – ha due aspetti principali: il mammonismo e il praticismo da una parte – dall’altra, tutto ciò che nella cultura, nella letteratura, nel’arte e nella scienza moderna attraverso gli ebrei falsifica, deride, mostra illusorio o ingiusto quanto per noi ebbe valore ideale, facendo invece spiccare al primo piano con carattere di unica realtà effettiva ciò che vi è di inferiore, di sensuale e di animale nella natura umana (Max Wundt). Sporcare, far vacillare ogni appoggio e ogni certezza, infondere un senso di sgomento spirituale che propizia l’abbandonarvi alle forze più basse e sgombra il campo al giuoco occulto dell’ebreo – questa sarebbe la tattica, in tale campo.
    Mammonismo: la di vinificazione del denaro e della ricchezza, la trasformazione del tempio in banca, secondo il precetto biblico: “Il tuo Dio ti vuole ricco: tu presterai danaro a molti popoli, ma non ne prenderai in prestito da nessuno” – sarebbero una caratteristica ebraica, la quale ha agito nella storia come causa fondamentale del crollo della tradizione occidentale nel materialismo moderno, sino all’onnipotenza di una economia senza spirito e di una finanza senza patria. E se tratti ebraici hanno la glorificazione protestantico-puritana del successo e del guadagno, lo spirito capitalistico in genere, il predicatore-impresario, l’uomo d’affari e l’usuraio col nome di Dio sulle labbra, l’ideologia umanitaria e pacifista ai servigi della prassi materialistica e via dicendo (Halfeld) – acquista certamente una base l’affermazione del Sombart, che l’America è in tutte le sue parti un paese giudeo e l’americanismo “non è che spirito ebraico distillato” – o quella del Guenther (p. 29), che i portatori e i diffusori del cosidetto spirito moderno sono in prevalenza degli ebrei – e infine, quella del Wolff (p. 81), che la più stretta connessione fra anglosassoni e massoni sotto segno ebraico dà la chiave della storia occidentale degli ultimi secoli.
    E come l’ebreo Carlo Marx (il cui nome originario era Mardochai), su questa linea, si era dato a dimostrare che di veramente reale nella storia e nella società vi è soltanto il danaro e il determinismo economico, ogni spiritualità e idealità restando vuota “superstruttura” (vangelo culminante nell’ideologia sovietica sorta dal fenomeno bolscevico, che per capi principali, ad eccezione del mongolo Lenin, ebbe parimenti degli ebrei) – così una analoga azione dell’intelligenza in senso di degradazione materialistica, di riduzione del superiore all’inferiore o di torbida rivolta del secondo contro il primo, si lascia ravvisare come tratto comune alle manifestazioni più varie dello spirito ebraico nella cultura moderna. Ebreo, infatti, era già lo Heine e il Börne, con la loro ironia corrosiva e contaminatrice. Ebreo è il Freud, assertore del primato delle forze oscure della libido e dell’inconscio psichico su tutto ciò che è vita cosciente e autoresponsabile, riduttore di ogni forma spirituale a “sublimazioni” o “repressioni” di istinti sessuali ovvero a mero tabù sociale. Ebreo è il Bergson che, su una via non diversa, toglie all’intelligenza e ai suoi principii esplicativi il primato, bandendo la religione della “vita” e dell’irrazionale. Ebreo è il Nordau, intento a ridurre la civiltà a convenzione e menzogna, nello stesso modo che l’ebreo Lombroso si era dato a stabilire delle sinistre equazioni fra genio, epilessia e delinquenza. Ebrei sono in larga misura – a partir dal Reinach – i promotori di quelle moderne interpretazioni “sociologiche”, “naturalistiche” e “ancestrali” delle religioni, che più ne contaminano e ne ottenebrano il contenuto trascendente e non-umano. Ebreo è l’Einstein, che dopo aver dissolto con il principio della relatività generalizzata ogni certezza fisica precedente, lascia solo sussistere l’ “invariante” di un mondo matematico disanimato, staccato da ogni intuizione sensibile e da ogni punto di riferimento concreto. Se Riccardo Wagner già nel 1850 aveva nettamente denunciato il pericolo ebraico nella musica – dallo spirito ebraico è sorto effettivamente l’ironismo operettistico (Offenbach e poi Sullivan erano ebrei) nei suoi inizi, poi un tipo di musica o atonale (l’ebreo Schönberg) o ritmico-orgiastica (l’ebreo Strawinsky), infine, e soprattutto, il ritmo sincopato negro-americano che introduce insensibilmente un elemento barbaricamente disgregatore nell’anima moderna, inquantoché i principali compositori e esecutori di jazz sono appunto degli ebrei. Ebrea è in gran parte quella letteratura e quel teatro in cui la sensazione è l’elemento predominante; in cui l’ossessione dell’ eros con le sue complicazioni adulterine o abnormi e, in genere, tutto ciò che nel profondo dell’uomo si cela come insofferenza per i principii del costume, morbosità, istinto, diviene il nucleo centrale, unendosi a processi rettorici contro presunte ingiustizie della civiltà, miranti solo all’erosione delle certezze etiche tradizionali. Né mancano influssi ebraici nel nuovo naturismo e, a quanto sembra, nei rivolgimenti dello sporti in senso teratologico e semplicemente corporeo (pp. 358 sgg.); in una prassi medica intonata ad un puro materialismo e specializzata soprattutto nel dominio sessuale e in opere che con la scusa di esser tecniche e scientifiche, sempre di nuovo riportano l’attenzione sui lati inferiori dell’uomo e della storia (pp. 393-403); infine, nella banalità soffocante e nella standardizzazione imposta al mondo dalla cinematografia americana, quasi interamente (paramount, Metro-Goldwin, United-Artists, Universal-Pictures, Fox-Film) in mano ad ebrei (pp. 341 sgg.). Ora, se così stanno le cose, acquista certamente una base l’affermazione di chi – come un Miller, un Rosenberg o un Fritsch – non esita a dichiarare che lo sviluppo della cultura mondiale negli ultimi secoli, se non addirittura fenomeno ebreo, purtuttavia è cosa non pensabile prescindendo dall’influsso e dall’elemento ebreo.
    Questa affermazione ci porta pertanto al punto fondamentale del problema dell’ebraismo nel campo della cultura – e, come vedremo nel prossimo articolo, anche sul piano economico-sociale. Fino a che punto nell’ebreo si può considerare davvero la causa determinante, l’elemento necessario e sufficiente a spiegare tutti i rivolgimenti negativi sopra indicati – e fino a che punto l’ebreo appare invece solo come una delle forze in azione in un fenomeno più vasto, che non si lascia definire in termini di razza, ma solo idealmente? Appunto questo si tratta di vedere, se si deve giungere ad una posizione antisemita realmente giustificata.
    Rifacendosi ai fattori già indicati, il fenomeno internazionalistico eccede sicuramente quel che potrebbe esser sensatamente attribuito all’influenza del popolo ebraico, disperso e divenuto uno stato internazionale diffuso in ogni stato. Qui si tratterebbe, se mai, di riandare a teorie, come quelle del De Gobineau, circa la mescolanza delle civiltà ariane, e vedere in quale misura esse sono sostenibili. In secondo luogo, se si vuole esser coerenti, a tale stregua come non si potrebbe riconoscere le cristianesimo, più che non nel solo ebraismo, appunto il massimo fattore di internazionalizzazione e di anti-razza sul piano dello spirito? Infine, ricordando quanto già dicemmo nello scritto precedente, bisogna non confondere internazionalismo con universalismo: errore che porta più di un antisemita da strapazzo fino ad identificare l’idea ebraica con l’idea… romana, a maggior gloria di prettissime ideologie nazionalistico-razziste. In sede di cultura, nemico e deleterio può esser ciò che livella e scancella le differenze (internazionalismo), non ciò che le integra riportandole ad una unità superiore a ciascuna di esse (universalismo). Questo è il punto positivo per una nostra difesa. E’ indubbio che, come nel mondo antico dal cristianesimo, oggi sul campo della cultura e della letteratura le tendenze internazionalistiche son propiziate da elementi ebraici. In questa misura, un antisemitismo pratico può esser giustificato: ma non più oltre. E mai bisogna perder di vista che il cancro dell’internazionalismo non può esser vinto senza prima eliminare aspetti strutturalmente insiti nel tipo della moderna civiltà e già nella religione ebraico-cristiana, che lo propiziano direttamente e indirettamente.
    Passiamo al secondo punto. Il razionalismo e il calcolo son fenomeni soltanto ebraici? Per dir di sì, dovremmo ammettere che i primi rivolgimenti antitradizionali, criticistici, antireligiosi e “scientismi” della cultura greca sono stati fomentati da ebrei; che Socrate fu ebreo, e poi ebrei furono non solo i nominalisti medievali e un Descartes, ma anche un Bacone, un Galileo e via dicendo. Infatti, se vogliamo caratterizzare analogicamente come “semita” l’ideale che pone la misura e il calcolo volto ad una potenza sulla materia come metodo, al luogo della contemplazione disinteressata e della considerazione di tutto quel che vi è di qualitativo e irriducibile a cifre e leggi matematiche senza vita nelle cose – non dovremmo forse dire “semita” tutto il razionalismo scientista e tutto il metodo sperimentale che hanno dato luogo al mondo moderno della tecnica? Per quanto la passione per il numero disanimato e per la ragione astratta sia caratteristica nei semiti, e l’ebreo in tutti i campi sia stato dipinto come colui che calcola e conteggia – pure qui appare chiaro che in questo campo si può parlare ancora di uno spirito ebraico disgregatore attraverso il razionalismo e il calcolo, fino ad un mondo fatto di macchine, di cose, di danaro e di numeri e enti di quantità più che di persone, di tradizioni e di patrie – solo usando questo termine “ebraico” in senso analogico, peperò senza un riferimento obbligato alla razza. Si può proprio identificare ebraismo a americanismo? Nei riguardi del processo storico della cultura, ci sembra che anche qui, quella degli ebrei sia stata una forza operante di concerto con altre nella costruzione della “civilizzata” decadenza razionalistica, scientifica e meccanista moderna, più che non l’unica causa lungimirante.
    E qualcosa di simile si lascia dire, infine, per l’ebraismo come forza di materialismo sociale e culturale. Forse, la tesi antisemita ha il maggior diritto di esistenza sul piano sociale, in ordine alla genesi effettiva sia del capitalismo che della sua opposizione dialettica, parimenti pervertitrice, il marxismo: ma di ciò avremo ad occuparci nel prossimo articolo. Sugli altri piani, ossia in sede di arte, di pensiero di letteratura, è sì incontestabile che moltissime produzioni degli ebrei manifestano il tratto comune di un effetto dissolvitore, di una Schadenfreude, di un istinto di avvilire, insozzare e abbassare tutto quel che è alto e nobile, e di scatenare in pari tempo complesso oscuri, sensuali, istintivi prepersonali. Ma qui si incontra il punto fondamentale, valevole anche per tutti gli altri elementi: fino a che punto possiamo riconoscere una intenzione e un piano a base di questa azione, sì che essa appaia come mezzo a fine? Abbiamo noi a che fare con una sostanza che manifesta un’azione negativa per la sua stessa natura, cioè senza volerlo, come al fuoco è proprio il bruciare – ovvero ha un fondamento ideale l’idea di una specie di congiura del popolo ebraico, in atto di promuovere un’opera distruttiva ben oculata come premessa per la realizzazione dei suoi fini di dominio universale?
    Crediamo che la prima ipotesi sia la vera. Certo, se noi portiamo lo sguardo solo sugli effetti dell’ebraismo, ci si presenta quasi l’idea, che tutto procede come se la seconda ipotesi sia la giusta, come se vi fosse effettivamente una intelligenza – una intelligenza “demoniaca” – nell’insieme di tali effetti, per dispersi che siano nel tempo e nello spazio, oltre che nelle varie categorie della civiltà. Ma se noi consideriamo in generale tutto ciò che può valerci come negativo e come caduta, a partir dai tempi antichi dal punto di vista degli ideali di una spiritualità e di una civiltà “ariana” – allora una realtà ben più complessa ci si fa innanzi, e l’idea che ci si presenta è forse ancora quella di un piano, però tale che in esso l’elemento ebraico e in genere semitico vi esegue solo una parte singolare, non irrilevante (specie se si constatano le dovute relazioni del semitismo sia col cristianesimo, sia col protestantesimo, sia con l’Occidente massonizzato e capitalistico), ma pur sempre singolare e probabilmente strumentale. In altre parole, lungi dal riferire alla razza giudaica la direzione cosciente di un piano mondiale, noi tendiamo a vedere nell’istinto semitico di umiliare, degradare, dissolvere, la forza che in certi momenti storici è stata messa in giuoco quale causa occasionale per la realizzazione di una trama ben più vasta, le cui prime fila retrocedono, a nostro parere, ben più in là dove può giungere lo “spirito” di una particolare razza o anti-razza.
    Perciò, come conclusione, nel campo della cultura non crediamo che l’antisemitismo possa senz’altro valere come simbolo per un’attitudine di difesa “tradizionale” dello spirito ariano: mentre ciò è in più larga misura possibile sul piano generale della spiritualità e della visione della vita e del sacrum. Altrimenti, scambiando il tutto con la parte, si perderà di vista ciò che va colpito nel tutto, oltre che nella parte. Qui, l’antisemitismo potrà aver diritto solo come episodio di una lotta più vasta, sì che esso non saprebbe esser giustificato in generale, ma solo praticamente, caso per caso, dando al mito dell’ebreo onnipotente attraverso le due armi dell’oro e dell’intelligenza disgregatrice solo il valore di una “ipotesi di lavoro”. L’antisemitismo non potrà dunque figurare che come momento di una attitudine totale, che si definisce in sé, con l’ideale di una cultura differenziata, se mai, da integrarsi universalmente – di contro alla dissoluzione internazionalistica; col culto della personalità e della qualità di contro al razionalismo meccanizzante, all’illuminismo laico e alla visione del mondo come numero e quantità; con i valori dell’antico spirito aristocratico e eroico ariano e con quello stile, che faceva chiamare gli antichi duci nordici, “i nemici dell’oro” di contro ai valori praticistici, mercantilistici, socialitari; con le manifestazioni di una nuova fermezza nell’elemento olimpico – cioè calmo, chiaro e dominatore dall’alto – dell’essere umano di contro alle contaminazioni di un’arte, di una scienza e di una letteratura volte a dar risalto all’irrazionale, all’erotico, al patologico, al promiscuo e all’istintivo dell’anima moderna.

    (1) Il riferimento è del Manuale della questione ebraica del Fritsch, citato nel precedente articolo. Ad esso si riportano i numeri delle pagine che si incontreranno fra parentesi nel testo.

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    III
    “Il semitismo nel mondo economico-sociale”


    Nel primo degli articoli di questa serie abbiamo trattato del semitismo nel mondo spirituale e religioso: mettendo in rapporto il giudaesimo con le altre civiltà di ceppo semita, studiando i caratteri che differenziano queste civiltà nei riguardi del concetto del divino e dell’attitudine di fronte ad esso propria alle razze ariane, siamo giunti a giustificare un’attitudine antisemitae, in particolare, antiebraica in sede spirituale, soprattutto per quanto riguarda le forme assunte dallo spirito ebraico col profetiamo, dopo il crollo del “popolo eletto”, e poi col cristianesimo primitivo. Nel secondo articolo abbiamo trattato dell’ebraismo (poiché qui appunto all’ebraismo, non più al semitismo in genere, era d’uopo restringersi) nel mondo culturale, e abbiamo trovato giustificate le tesi antiebraiche solo parzialmente: pur riconoscendo l’azione negativa che l’elemento ebraico diffusosi nei tessuti delle varie civiltà nazionali ha operato, sia come “intelligenza” disgregatrice e avvilitrice, sia come germe di razionalismo, di materialismo, di internazionalismo e di ravvivamento e di esibizione dell’ “elemento demonico” latente nell’animo umano e nelle collettività – noi abbiamo trovato estremamente problematica l’idea degli antisemiti – che quest’azione sia conforme ad una specie di piano preordinato, ad una vera e propria congiura d’odio, anziché esser l’effetto naturale della sostanza ebraica stessa: e se di un piano – in relazione alla caduta della civiltà nei tempi ultimi – deve parlarsi, esso abbiamo visto doversi concepire così che l’elemento ebraico vi figuri solo come mero strumento, spesso inconsapevole, di forze che in fondo vanno di là dall’idea stessa di razza, fors’anche di “umanità”.
    Questa stessa è la conclusione a cui verremo nel presente articolo, che si occuperà del semitismo nel mondo politico-economico, giungendo alla parte più “attuale” del nostro problema, giacché è appunto sul piano politico ed economico che l’antisemitismo ha provocato la nota azione del governo nazionalsocialista tedesco! La precisazione delle ragioni dell’antisemitismo in questo campo ci permetterà dunque di vedere, fino a che punto questa stessa azione – tanto discussa – sia realmente giustificata e, in ogni caso, ci darà modo di comprenderla in funzione delle premesse, da cui parte.
    L’antisemitismo nel mondo politico ed economico si presenta sotto due forme principali: estremistica e “teleologica” l’una, relativa e pratica l’altra.
    La prima di tali forme si può dire aver per centro il famoso Protocollo dei Savi anziani del Sion. Molto si è parlato sull’autenticità o meno di questo documento, che sarebbe stato trafugato dagli arhivi di una loggia occulta o quartier generale dell’ebraismo, e pubblicato di sorpresa da persona uccisa per questo. Dal Preziosi (che ha edito in italiano tale documento) però è stato giustamente rilevato che tale questione dell’autenticità resta, in fondo, secondaria, per questo: che siffatto documento, pubblicato prima della guerra, espone un piano, di cui la storia mostra la realizzazione con una corrispondenza, in molti punti, davvero impressionante. Così, fosse pur falso il documento, non esistesse pur quella congiura metodicamente organizzata, di cui spesso si parla, resta purtutavia che è come se essa fose esistita, sì che il concetto di tale congiura è suscettibile a valere come uan ipotesi di lavoro atta a raccogliere secondo un significato unitario fenomeni, avvenimenti e rivolgimenti sociali vari, ma pur intimamente concordanti e ben determinati nella realtà.
    Il piano dei Protocolli è quello già indicato nel precedente articolo: la volontà di potenza d’Israele, che vuol rendersi padrone del mondo ariano e cristiano, tenace nella persuasione, di essere il popolo eletto, chiamato da Dio a ciò. Solo che ora il tema va trasposto in termini propriamente politici ed economici. L’ostacolo degli Ebrei sarebbe stato l’Occidente costituito come un blocco di società nazionali differenziate, monarchiche e spirituali. Si trattava dunque di distruggere per prima cosa tutto questo, ma non direttamente – ché questo sarebbe stato mimpossibile agli Ebrei – bensì indirettamente: diffondendo ideologie propizianti la rivolta sociale; cercando di accentuare gli aspetti negativi, gli abusi e i difetti degli antichi regimi per provocare reazioni distruttrici da parte degli strati più bassi; spargendo il germe di uno spirito critico e illuminista volto a corrompere l’intimo cemento etico delle antiche gerarchie; propiziando, allo stesso scopo, il materialismo e la riduzione di ogni interesse a quello economico: al danaro. Come azione pratica più diretta: alimentare e sorreggere rivolte di classe, rivoluzioni e perfino guerre. Disgregata per tal via l’Europa, intronati in essa gli idoli del liberalismo anarchico e dell’oro, la diga tradizionale capace di crear resistenza all’ebreo è spezzata e può iniziarsi l’offensiva, parimenti invisibile, per la scalata del potere da parte d’Israele. Ridotte le genti a non creder più che all’oro, a non obbedire più che agli esponenti della cultura razionalistico-critica e dell’ “opinione pubblica”, per l’Ebreo non si trattava più che di rendersi signore di tutto ciò: della finanza, del professionismo intellettuale e della stampa. Con questo i fili conduttori del mondo moderno sarebbero passati invisibilmente nelle mani d’Israele. Nazioni, governi, parlamenti, trusts, gruppi, ecc., anche senza saperlo, ne divengono degli strumenti. Non resta che condurre, con una oculata tattica, i popoli, e soprattutto gli strati sociali inferiori, ad uno stato tale di disperazione, da produrre l’ultimo crollo. Allora Israele si presenterà alla luce quale sovrano universale, annunciatore delle verità e della giustizia di fronte a genti ridotte a masse senza personalità e senza libertà. Questo, in sintesi, è il piano contenuto nei Protocolli. La principale corrente antisemita che parte da premesse del genere è quella del generale Ludendorff. Vediamo fino a che punto una simile visione contiene elementi corrispondenti davvero alla realtà.
    La prima cosa da concedere è che il corso della storia sociale e politica dell’Europa moderna sembra rispondere effettivamente allo sviluppo progettato dai Protocolli: crollo delle antiche costituzioni aristocratico-monarchiche, illuminismo rivoluzionario, giusnaturalismo, avvento della borghesia liberaldemocratica, oligarchia del capitalismo e dell’economia sovrana, infine, marxismo e – dopo il crollo della guerra mondiale – bolscevismo. Il problema è: fino a che punto come elementi direttori – o provocatori – di tali fenomeni, son da trovarsi nella storia delle cellule dell’Ebraismo? E’ naturale che chi, come un von Molte (p. 441), crede a dei “superiori sconosciuti”, rifacendosi a loro volta ad un capo supremo chiamato “principe della schiavitù”, a cui non solo obbedirebbero gli elementi ebraici di qualunque luogo, ma che agirebbe nella penombra servendosi di elementi non ebraici e filoebraici – è naturale che chi creda ciò non possa pensare di poter condurre troppo a fondo un’analisi del genere, tanto la materia retrocederebbe, allora, nell’occulto.
    Ciò malgrado, alcuni punti possono esser fissati. Se è innegabile la relazione che, anche dal lato esoterico, intercorre fra tradizione ebraica e massoneria (pp. 224-226 – nel 1848 il massone von Knigge ebbe a scrivere: “Gli Ebrei hanno visto che la massoneria era un mezzo per fondare saldamente il loro impero segreto” – p. 104, cfr. p. 230) – altrettanto innegabile, per quanto non nota in tutta la sua vera portata, è la parte che la massoneria ha avuto sia teoricamente, nella formazione dell’ideologia illuminista, sia praticamente, in forma più invisibile, nella stessa rivoluzione francese, germe primo di ogni successivo rivolgimento antitradizionale e antieuropeo. Come secondo punto, il marxismo e il socialismo son direttamente creature di ebrei e dello spirito ebraico, e lo stesso può dirsi in genere per i padri e gli apostoli della socialdemocrazia internazionale. Son infatti ebrei anzitutto Karl Marx (Mardochai), poi Vassalle (Wolfson), Rosa Luxenburg, Landauer, Singer, Elsner, Bernstein: il liberalismo unendosi alla democrazia trova i suoi esponenti in ebrei, come Riessler, Jakoley, Simson (p. 100). La devastazione livellatrice e antitradizionalista di simili dottrine si continua nell’ideologia pacifista intesa come quella che tende alla pace ad ogni prezzo, senza riguardo se essa sia più nociva che non una guerra di difesa o di conquista; che rende ridicolo l’ideale della morte eroica per la patria; che pone come più alto scopo e valore l’affratellamento universale, con subordinazione incondizionata di ogni interesse nazionale ad un interesse dell’ “umanità” (Miller, p. 198). Ma è parimenti incontestabile la relazione che una simile ideologia ha con la massoneria ebraizzata, e poi il fatto che la cosiddetta Società delle Nazioni ne rifletta perfettamente lo spirito. L’ebreo Klee ebbe a scrivere (p. 202): “La Società delle Nazioni non è tanto opera di Wilson, quanto un capolavoro ebraico di cui possiamo essere fieri. L’idea di una Società delle Nazioni si rifà ai grandi profeti d’Israele, alla loro visione del mondo piena d’amore per ogni essere umano che ci sta d’intorno. Così l’idea di una Società delle Nazioni è un autentico patrimonio ebraico”. Ad una identica antica origine ebraica da altri ebrei vien ricondotto altresì lo spirito dello stesso “socialismo” moderno in genere (p. 476).
    Senonché nell’idea antisemita, che ora stiamo esaminando, sta fermo che tutto ciò procederebbe dal piano ebraico non come un elemento positivo, bensì appunto per il suo valore di elemento socialmente e politicamente disgregatore. Il Frank scrive p.es.: “La dottrina marxista non corrisponde alla realtà ma allo spirito e al bisogno dell’ebraismo, il quale non considera che problemi di materialità e di danaro e deride ogni ideale e ogni “superstruttura” spirituale. E’ una forza di livellamento lanciata contro ogni valore di razza e di sangue”. L’azione ebraica prenderebbe, a seconda dei casi e dei luoghi, ora l’una ora l’altra forma, travestendosi p.es. ora come militarismo e ora come pacifismo, ora come capitalismo e ora come socialismo, purché dalle cause varie gli effetti convergano occultamente allo stesso fine. Così parallelamente che sulla linea della democrazia e dell’internazionale rossa, l’ebraismo agirebbe anche sulla linea di guerre e di rivoluzioni. Ora, anche qui alcuni fatti restano certi, e cioè che un influsso ebraico ha accompagnato quasi tutte le rivoluzioni moderne: massoni ebrei sono Crémieux e poi Gambetta, in relazione alla rivoluzione francese del 1848; l’eroe dei rivoluzionarii spagnoli fu l’ebreo Ferrer e altri ebrei apparvero nella rivoluzione portoghese del 1907 e del 1910. I Giovani Turchi furono in gran parte massoni ebrei e la massoneria ebraica giuocò una parte innegabile nella rivoluzione russa del 1905 e poi nella stessa rivoluzione bolscevica: ad eccezione di Lenin, tutti i capi più noti della rivoluzione bolscevica di ottobre, a partir da Trotzki, (Bronstein), essendo infatti ebrei o ex-socialdemocratici, e il bolscevismo ha conservato anche successivamente oscuri rapporti di protezione con la finanza ebraico-massonica inglese e americana. Nella stessa rivoluzione magiara, in quella tedesca del 1818 e nel successivo regime repubblicano tedesco, elementi ebraici tornano di nuovo in scena, e così via. Dunque: ritmo concordante di rivolte antimonarchiche da una parte, di livellamento internazionalista e pacifistico-democratico o socialistico dall’altra. E a tale riguardo, noi, che oggi nella guerra mondiale ci troviamo in grado di riconoscere essenzialmente la coalizione della democrazia internazionale – sotto ipocriti pretesti umanitari e nazionalistici – contro gli stati europei che più conservano le linee dell’antica costituzione aristocratico-imperiale, possiamo considerare questa stessa guerra come cosa disposta su una non diversa linea e verso un nuovo diverso effetto. Son dell’ebreo Ludwig (Cohn) queste parole assai significative (p. 491): “Il crollo di queste tre potenze (la Russia zarista, la Germania monarchica e l’Austria cattolica) nelle loro antiche forme significa una facilitazione essenziale per le direttive della politica ebraica. La guerra fu condotta al fine di imporre all’Europa centrale delle forme politiche moderne (cioè democratico-liberali) quali vigevano già tutt’intorno… I difensori di una pace separata avrebbero potuto salvare sia lo Zar che il Kaiser conservandoci una Europa insopportabile”.
    D’altra parte, come noi vediamo, a partir dall’ebreo Rotschild, che per gli ebrei qualunque guerra, rivoluzione o disastro, si converte in fonte di guadagno e di potenza (p. 90), per contro, sulla base di simili dichiarazioni del Ludwig, permangono molti elementi per aderire in parte a chi crede che la guerra mondiale, il cui esito per un momento sembrò significare socialmente il trionfo dell’ideologia internazionalistico-democratica, se pur non anche marxista, sia stata o preparata, o almeno finanziata e sorretta, soprattutto attraverso l’Inghilterra o l’America, dalla finanza ebraica (p. 199).
    Ma abbiamo detto che le apparenze del liberalismo e della democrazia nasconderebbero la scalata al potere da parte dell’ebreo, anzitutto attraverso l’oro: capitalismo e alta finanza. Il danaro e il tipo di economia di conio ebraico divengono strumenti di dominio sui popoli. Anche questo è un punto, di cui difficilmente si saprebbe riconoscere la corrispondenza alla realtà. Come spirito, il Sombart, che non è un antisemita, ebbe a dire che “il capitalismo non è che un mosaismo pratico”; a considerare, sotto tale riguardo, nell’America un paese in tutto e per tutto ebreo e nell’americanismo uno spirito ebraico distillato. D’altra parte allo stesso modo che elementi massonici ebbero già a sostenere la stessa guerra d’indipendenza americana (p. 104), così sta di fatto che i primi mercanti e industriali americani furono degli ebrei (p. 82) e spirito ebraico e farisaico ha la morale puritana e calvinista, la quale doveva divenire la molla principale della cosiddetta “ascesi del capitalismo” (Max Weber) e dello sviluppo economico in senso americanistica. E son dello stesso Marx (p. 496) le parole: “Quale p il principio mondano dell’ebraismo? L’esigenza pratica, il proprio vantaggio. Quale è il suo dio terrestre? Il danaro. L’ebreo si è emancipato in modo ebraico non solo in quanto si è appropriato della potenza del danaro, ma anche in quanto per suo mezzo il danaro è divenuto potenza mondiale e lo spirito praticistico ebraico è divenuto lo spirito praticistico dei popoli cristiani. Gli ebrei si sono emancipati in quanto i cristiani sono divenuti degli ebrei. Il dio degli ebrei si è mondanizzato ed è divenuto il dio della terra. Il cambio è il vero dio degli ebrei”. La codificazione religiosa del prestito ad interesse propria agli ebrei (p. 134) può dirsi effettivamente la base stessa dell’accettazione e dello sviluppo teratologico di tutto ciò che è banca nel mondo moderno, fino all’invadenza propria ad un vero cancro. E resta d’altra parte un fatto, che creatura ebraica e strumento ebraico è in larga misura la “società ad azioni”, e che in mani ebraiche sia tutt’ora la gran parte dell’oro del mondo.
    Fino a tanto giunge, nella migliore ipotesi, una corrispondenza degli elementi della presunta congiura ebraica con la realtà. Ma anche constatata tale corrispondenza, il punto decisivo del problema resta ancora indeterminato. Ancora una volta l’alternativa è: Istinto ebraico o pianoebraico? Si può ammettere che ai fini di un antisemitismo pratico questa alternativa non ha bisogno di esser completamente decisa. Ma allora si deve rinunciare ad ogni trasposizione in universale della tesi e giustificare l’avversione caso per caso, senza preconcetti di sorta. Il che significa passare alla seconda delle forme suaccennate di antiebraismo sociale e politico: q auella, appunto, pratica e relativa. Che Israele sia rimasto uno malgrado la sua dispersione e volga al dominio divenendo l’elemento direttore delle singole società, eliminando ogni monarchia, ogni nazionalismo e ogni differenza di razza, propiziando a tale scopo il fenomeno rivoluzionario fino al bolscevismo (pp. 487-488) – questa resta dunque una semplice idea-limite, una ipotesi di lavoro da assumere nella stretta misura in cui ciò che ne deriva sia veramente confermato dalla realtà. Ripetiamolo: se nel respingere tale ipotesi si rischia di trascurare tutto quel che può retrocedere “dietro le quinte” e cader di là dall’aspetto esteriore di tanti fenomeni – accettandola senz’altro e facendo del solo elemento ebraico il deus ex machina, si rischia di scambiare il tutto con la parte e quindi di non vedere la necessità di una reazione egualmente energica contro altri aspetti e altre cause della negazione moderna, che in nessun modo possono dedursi dall’ebraismo. In via particolare, non vi è dell’avventuroso nel pensare che perfino l’antitesi di due fenomeni quali il capitalismo e il marxismo, che sarebbero stati generati parimenti dalla congiura ebraica, possa comporsi nel senso di esser mezzo per raggiungere un fine ulteriore? Inoltre, se è vero che l’elemento ebraico ha fomentato e accompagnato rivolte e rivoluzioni, fino al bolscevismo, spesso si ha anche da constatare che esso in un secondo momento è stato travolto dalle stesse forze evocate o è passato ad obbedire ad altri elementi: cosa che riporta alla maggiore verosimiglianza dell’ipotesi, che l’azione dell’elemento ebraico sia da considerarsi più come istintiva e sparsa che non come unitaria, controllata e conforme ad un ordine superiore.
    Passiamo dunque ad una breve considerazione della seconda forma, meno assoluta e più concreta, dell’antisemitismo. Essa poggia essenzialmente su premesse nazionalistiche. Il punto di partenza è questo. Se non una congiura trascendente, esiste un sentimento di solidarietà fra gli ebrei sparsi nei varii stati, una unità in una loro morale, opposta a quella delle altre razze, una tattica di menzogna, di astuzia e di sfruttamento, una abilità nello scalare i posti di comando. I capi d’accusa, qui, vengono indicati nelle massime del Talmud, secondo le quali “gli ebrei (soltanto) si chiamano uomini, i non-ebrei si chiamano non uomini ma animali”! Per ciò si ammette senz’altro che all’ebreo è permesso di sfruttare, per mezzo dell’inganno, il non ebreo; che l’adulterio commesso dall’ebreo con una donna non ebrea non è tale e ogni analogo abuso morale non è peccato (citazioni dai testi a p. 140); che “il patrimonio e i beni dei non ebrei son da considerarsi come privi di padrone e chi prima arriva ha diritto su di essi” (p. 134); che ebrei possono aiutarsi insieme nello sfruttare ingannando il non ebreo pur di spartirsi il ricavato (pp. 134-136), e, se hanno danaro in prestito da un non-ebreo, e questo muoia, possono appropriarselo, dato che nessuno ne sappia (p. 137); che, infine, dovere della razza ebraica è dare danaro in prestito ma non prenderne alcuno. Queste massime segrete – dice il Fritsch (p. 139) – danno alla comunità ebraica i caratteri non di una comunità religiosa, ma di una congiura sociale: e gli stati “ariani”, ignorandole e non difendendosi, dando inconsideratamente agli ebrei uguali diritti, quasi come se essi seguissero la loro stessa morale, si pongono virtualmente in una condizione d’inferiorità, riducendosi, spesso senza rendersene conto, fra le mani della razza straniera, internazionale e antinazionale (p. 185-186). Per tal via si impongono due pregiudiziali: una morale e l’altra sociale. Non può esservi alcun rapporto – si dice – fra noi e una razza priva di sentimento di onore e di lealtà e agente con due forze principali: inganno e danaro. Il concetto sociale ariano è: “L’uomo sincero e cosciente pone il suo orgoglio nel meritare il diritto all’esistenza attraverso una forza letale e una retta produttività. Egli preferisce perire che ottenere dei vantaggi attraverso azioni disonorevoli. L’idea rigorosa dell’onore e dell’incondizionata giustizia verso gli altri uomini costituisce il presupposto di ogni vita eroica e si irradia nel più profondo strato dell’anima: nel sentimento dell’onta. Un popolo che rinuncia al sentimento d’onore e di onta è indegno della qualifica umana: è subumanità” p. 541). E’ quindi assurdo – si conclude – richiedere parità di leggi per ebrei e “ariani”. Delle misure difensive o, almeno, preventive, si impongono. Dare la “libertà” agli ebrei – presso a tali premesse – significherebbe aprir loro la via del dominio. Ed è per questo che l’ideologia liberalistica e democratica è invece, pour cause, una ideologia ebraica.
    In secondo luogo, praticamente, vien constatato che nei riguardi speciali dei paesi tedeschi e dei paesi ebraizzati gli ebrei e gli amici degli ebrei, oltre la Borsa, hanno scalato non pure gli strumenti della formazione dell’opinione pubblica, cioè la stampa (in più: radio e cinematografo), ma altresì il teatro e istituti di informazione e di traffico, e poi, in genere, quasi tutte le professioni intellettuali, soprattutto come avvocati, medici, critici, editori. Ciò va fino al punto che in alcune città tedesche la percentuale ebraica in tali professioni giungeva fino all’80%, restando nemmeno il 20% di veri tedeschi, mentre nelle altre occupazioni sociali si aveva più che l’inverso, e fra operai e artigiani gli ebrei talvolta non giungevano nemmeno alla percentuale del 5 o del 7%. L’antisemitismo qui accusa anche per altra via lo stile dello sfruttamento sociale: l’ebreo non fa, non produce, ma specula e commercia su ciò che gli altri fanno e per tal mezzo si arricchisce (p. 96); si costituisce nelle superstrutture intellettuali della società, e di la domina, lasciando agli altri forme inferiori di lavoro.
    Senonché ad un tale antisemitismo si dovrebbe domandare di spiegare come, in fondo, ciò sia stato possibile! Si sa che il nuovo governo tedesco ha preso misure atte ad imporre che in ciascuna delle professioni intellettuali la percentuale ebrea non ecceda una percentuale massima proporzionata alla percentuale complessiva degli ebrei nei confronti della restante popolazione. Sono misure, contro cui molti hanno protestato, vedendovi un attentato alla “libertà” e una violenza, ma alle quali non si può disconoscere una certa logica quando si parta dalle premesse nazionalistiche e dall’idea, che l’ebreo in ogni stato è da considerare come una razza a sé, se non pure come uno “stato nello stato”. Tuttavia, per una completa giustificazione, bisognerebbe rispondere alla domanda di cui sopra. Non si può sempre spiegar l’avvento degli ebrei alle professioni intellettuali con la loro astuzia e i loro raggiri. Allora si dovrebbero riconoscere forse negli ebrei delle facoltà intellettuali che gli “ariani” possederebbero solo in grado minore? Se ciò non deve equivalere ad una umiliante confessione di inferiorità si impone l’assumere una attitudine radicale, atta a valorizzare, in nome di più alti ideali, gran parte di ciò che si riferisce alle pseudo-élites intellettuali e professionali moderne in genere. Altrimenti per avversare l’elemento ebraico e precludergli legittimamente la via delle professioni intellettuali e dei posti di comando bisognerebbe mostrare che nel modo proprio all’ebreo di esercitare una professione si manifesta un carattere o una intenzione speciale. Vogliamo dire che se fra l’esercizio p.es. dell’avvocatura da parte di un ebreo o di un “ariano” non vi fosse alcuna differenza oggettiva, non si vede perché ci si dovrebbe preoccupare per il fatto che la percentuale maggiore degli avvocati sia o no ebrea. Anche ammessa una solidarietà quasi massonica fra ebrei, isognerebbe, in più, dimostrare che ogni ebreo, nell’esercitare una data professione, o la perverte in un dato senso, ovvero la subordina ai fini della sua razza e, al limite ipotetico, ai piani di dominio universale di Israele.
    Siffatte questioni non sono invece avvertite che scarsamente da coloro che hanno bandita la lotta ad oltranza contro gli ebrei, e che nelle loro attitudini è materialisticamente nazionalista che non [dovuta] ad un’antitesi veramente spirituale o ideale di difesa ariana. Né altrimenti può essere fino a che non si sia capaci di assumere una attitudine radicale, tanto da non porsi il problema del semitismo sul piano pratico, sociale e politico, che dopo aver risolto quello del semitismo sul piano spirituale e poi culturale. Il punto più giustificato di una avversione pratica antisemita, in ogni caso, ci sembra cadere là dove si vede nell’elemento ebraico una delle cause principali della crescente spersonalizzazione della vita sociale, dell’avvento del danaro senza volto a forza direttiva centrale, della borsizzazione della vita economica, cioè della speculazione su valori creati da altri e dei quali agli altri non resta che in minimo grado il frumento, attraverso interessi, società ad azioni, prestiti non più fra persone e persone, ma fra sconosciuti, sino ad un mostruoso ingranaggio onnipotente che trascina con sé gruppi e governi (p. 96).
    In tal senso – peperò in un senso in buona misura traslato – la lotta contro l’ebreo onnipotente può essere un simbolo legittimo ed efficace. Ma a tradurre ciò in realtà occorre ben altro che non una qualche reazione razzista o nazionalistica e che non la stessa soluzione, proposta dal Fritsch nella conclusione del suo Manuale (p. 545), di espellere da ogni stato gli ebrei e di imporre loro di comprarsi qualche parte della terra, o in Australia o in Africa, per svilupparvi la loro vita e la loro economia: dato che a ciò essi hanno sicuramente abbastanza danaro. Infatti il virus, come lo stesso Marx avvertiva, ormai è passato nelle stesse fibre dei popoli “ariani”, ed anzi alla stregua di finanza impersonale, di industria e di lavoro meccanizzato molti di quei popoli continuano ancora infantilmente e irresponsabilmente a misurare i criteri della grandezza e della potenza. Non provvedimenti estrinseci, ma un profondo rivolgimento e risanamento spirituale e un moto dall’interno secondo i valori che noi abbiamo già indicati negli articoli precedenti come essenziali all’anima “ariana” può portare ad una soluzione vera. Altrimenti da un male si può anche non passare che ad un altro: come quando non si sa combattere il capitalismo o la finanza o l’internazionale ebraica che finendo in larvate tendenze socialistiche e plebee, rimanenti tali anche quando prendan veste di nazionalismo o di dittatura nazionale.
    E’ l’ipotesi di lavoro dello stesso Protocollo dei Savi anziani del Sion che invece ci dice quel che davvero ci occorre. Se è vero che per realizzare il suo piano di dominio l’ebraismo ha dovuto distruggere l’Europa monarchico-aristocratica e eroica, gerarchica, differenziata e spirituale, solo la restaurazione non artificiale ma austera e vivente di una simile Europa è il nuovo fronte che solo potrà contrapporsi non pure ai varii aspetti concreti, parziali e visibili, culturali, economici e sociali del pericolo ebraico, ma potrà anche sventare lo stesso piano occulto della conquista ebraica del mondo, quando esso dovesse corrispondere davvero non ad un mito, ma ad una occulta verità.

    [FINE]

 

 
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