Biografia del giornalista di Liberazione che,
con La Stampa, ha sprangato la Lega e il suo quotidiano

di Igor Iezzi

Da che pulpito viene la predica: un detto che si adatta benissimo per chi in questi ultimi giorni ha aperto il fuoco su Liberazione “in collaborazione con la Stampa”, contro il nostro giornale, e di conseguenza tutta la Lega Nord. Un ex militante della sinistra extraparlamentare, Saverio Ferrari, condannato a 5 anni e 6 mesi per vicende legate agli anni di piombo e membro influente di Rifondazione Comunista. Ma andiamo ai fatti e leggiamo i documenti.
Primo episodio: «Il 13 marzo 1975, verso le ore 13, Ramelli Sergio residente a Milano stava appoggiando il motorino nei pressi della sua abitazione. Veniva aggredito da alcuni giovani armati di chiavi inglesi; il ragazzo, dopo aver tentato disperatamente di difendersi proteggendosi il capo con le mani ed urlando, veniva colpito più volte e lasciato a terra esanime. Alcuni passanti lo soccorrevano e veniva ricoverato al reparto Beretta del Policlinico per trauma cranico (più esattamente ampie fratture con affondamento di vasti frammenti), ferita lacero-contusa del cuoio capelluto con fuoriuscita di sostanza cerebrale e stato comatoso. Nelle settimane successive alternava a lunghi periodi di incoscienza brevi tratti di lucidità e decedeva il 29 aprile 1975» ( Ordinanza di rinvio a giudizio dei colpevoli, redatta dai giudici istruttori Maurizio Grigo e Guido Salvini).
Secondo episodio: «Nell’abbaino di viale Bligny ( a Milano, ndr), vero archivio logistico della struttura di Avanguardia Operaia è stata rinvenuta una mole impressionante di materiale (...). Sono state infatti trovate migliaia di schede, fotografie con ingrandimenti, con studio di abitudini e indicazioni di targhe, descrizioni di bar e locali pubblici, nonché di sedi politiche con tanto di piantina degli interni, agendine, tessere di partito, documenti di identità... provento di numerose aggressioni anche con conseguenze molto gravi... E ancora, indicazioni di appartenenti alle forze di polizia e su forze politiche oggetto in quel periodo di atti di intimidazione quali gruppi rivali della stessa estrema sinistra e gruppi cattolici». ( Stessa ordinanza di rinvio a giudizio).
Terzo episodio: Nel 1976, per l’esattezza il 31 marzo, alcuni militanti di Avanguardia Operaia assaltano e incendiano un bar in Largo Porto di Classe a Milano. I frequentatori del locale furono massacrati. Tre giovani rimasero gravemente feriti e rovinati per sempre: Fabio Ghilardi (due operazioni, coma, polmone d’acciaio, epilessia Permanente), Giovanni Maida, che all’epoca aveva 16 (sedici!) anni (quattro fratture alla mandibola, una alla spalla, invalido permanente) e Bruno Carpi (doppio sfondamento della calotta cranica). Secondo i medici che accolsero i feriti negli ospedali, «negli aggressori c’era la volontà di uccidere».
Quarto episodio: Martedì 16 luglio 2002 sul quotidiano di Rifondazione Comunista Liberazione “in collaborazione con la Stampa” di Torino, nelle pagine milanesi, viene pubblicato un articolo che contiene frasi deliranti che dipingono i giornalisti del nostro quotidiano come pericolosi razzisti.
A parte la comune matrice comunista e la violenza che li pervade, cosa accomuna gli episodi citati? La risposta è semplice, senza possibilità di smentita: una firma, un nome, Saverio Ferrari.
Questo “noto” personaggio che negli anni settanta contribuì a far definire quel periodo “gli anni di piombo” non è sconosciuto alla Giustizia italiana che il 16 marzo 1987 nell’aula della II Corte d’Assise di Milano, presidente Antonio Cusumano, avviò un procedimento per l’assassinio di Ramelli, per le schedature di viale Bligny e per l’assalto al bar di Largo Porto di Classe. Uno dei protagonisti di questo processo fu proprio Saverio Ferrari. Il 16 maggio 1987 la II Corte d’Assise lo condannò per l’assalto al bar e per le schedature a 11 anni. Il due marzo 1989 la II sezione della Corte d’Assise d’Appello, presieduta dal dottor Cavezzoni, gli riduce la pena a 5 anni e sei mesi. Infine la sentenza diventò definitiva il 22 gennaio 1990 con la conferma della Corte di Cassazione, presieduta dal giudice Corrado Carnevale.
Sembrerà una storia anomala, ma, a guardare nell’universo della sinistra italiana non è difficile trovare personaggi di questo tipo che si annidano nelle direzioni dei partiti, nelle redazioni dei giornali oppure in associazioni di vario tipo. Tutti a pontificare, a fare le anime belle, i buonisti, ma avendo sulle spalle, e sulle coscienze, reati pesantissimi: omicidi, tentati omicidi e lesioni. Saverio Ferrari, condannato a 5 anni e sei mesi per tentato omicidio, si permette di “schedare” i giornalisti de La Padania ( pratica che abbiamo visto gli è abituale), accusarli di essere razzisti, nazisti, facendo intendere che potrebbero essere pericolosi criminali. Lui, che “sa” che cosa è accaduto a un giovane di 16 anni che per tutta la vita rimarrà invalido, lui, che ha schedato centinaia di ragazzi ritenuti fascisti. Si ricordi, a questo proposito, che Ramelli, un giovane di 18 (diciotto!) anni, fu aggredito da militanti, o “militi”, di Avanguardia Operaia, che neppure lo conoscevano. Per colpirlo e stanarlo si erano serviti di una foto e di un indirizzo forniti dai loro preziosi schedari. Non dimentichiamo che i “militi” che uccisero Ramelli erano del servizio d’ordine (?) di Avanguardia Operaia, gruppo di Città Studi, e «a livello più alto, elemento di spicco era Saverio Ferrari» come sottolineato dall’ordinanza di Salvini e Grico.
Non sappiamo come in tutti questi anni abbia vissuto Saverio Ferrari, ma conosciamo le sofferenze che hanno patito le sue vittime e i loro familiari. Il rifiuto della violenza, che molti predicano, si vede anche da queste cose.
Ferrari attacca La Padania? C’è da andarne orgogliosi.
LA STAMPA COMPLICE DI QUESTA CAMPAGNA
Ci meravigliamo che un direttore come Marcello Sorgi e un giornale come La Stampa si rendano complici e partecipi di una simile campagna di menzogne e di odio contro un giornale e contro un partito. E soprattutto che, dopo 5 giorni , Sorgi non abbia ancora sentito il dovere morale di prendere le distanze da certe “collaborazioni”; anzi, con il suo silenzio, le avalli.