Quale Nazione nel Terzo Millennio?
tratto da www.rivistaindipendenza.org



QUALE NAZIONE NEL TERZO MILLENNIO

L’anomalia politica di Indipendenza risiede nell’importanza attribuita alla problematica nazionalitaria come ineludibile premessa per ogni processo di trasformazione radicale in senso emancipativo ed egualitario. In tal senso la negazione della questione nazionale italiana costituisce non solo la causa dell’immobilismo che caratterizza la vita della nostra nazione, ma ancor più la ragione dell’impossibilità di un’autentica, piena, effettiva forzatura dei vincoli di sudditanza imperialistica e di sovranità molto limitata del nostro paese. Una problematica che, se non è misconosciuta, relativizzata o enfatizzata strumentalmente per interessi solitamente non nazionali, suscita solo imbarazzo, fastidio e pregiudizio. Un nodo irrisolto, quello di una autentica indipendenza della nazione italiana, che, al continuo riscontro dei fatti, è sempre più difficile dissimulare, minimizzare, negare. Una condizionante cerniera tra politica estera e politica interna, la cui rimozione finisce con l’essere la rimozione di una prospettiva possibile ‘altra’, l’alibi per l’accettazione di fatto dello status quo, della compatibilità nel sistema, anche quando ci si ammanta di un linguaggio e di un tono di apparente radicalismo. Quando parliamo di possibilità di liberazione non ci affidiamo al caso, tantomeno alla provvidenza, ma alla capacità politica di articolazione e di sviluppo dei contenuti -e delle forme- che debba assumere un soggetto autonomo nazionalitario, allo stato inesistente nel nostro paese, ma la cui ragion d’essere è nelle cose. Formidabili ostacoli sono già insiti nel controllo informativo/culturale delle coscienze, subalterno alla logica ultracapitalista delle oligarchie produttive e finanziarie transnazionali. Che tendono a diffondere una percezione ‘negativa’ del concetto di nazione -salvo dove possa essere utile a fini imperialistici e di acquisizione di aree di mercato- e a spingere ogni nazione alla perdita politico/culturale di sé, alla sua riduzione a fattore folkloristico magari mercificabile, rifiutandola, combattendola, criminalizzandola, affamandola, se solo intralci i loro interessi.
Se ieri il capitale -per risvolti molto materiali- aveva necessità di sfruttare l’idea di nazione manipolandola e ne sceglieva una dominante (a scapito di altre pertanto oppresse) facendola Stato (di fatto plurinazionale) perché gli garantisse un contesto sociale favorevole e di consenso alla sua accumulazione, oggi questo stesso capitale si transnazionalizza e quanto più lo fa, tanto più paventa le nazioni e le considera un orpello della storia, obsoleto e antistorico. Di questa visione economicistica della realtà se è comprensibile che venga contrabbandata dall’ideologia capitalistica attraverso la sua grancassa culturaloide e massmediatica, è singolare che ne sia impregnato chi dialetticamente -e materialmente- si pone come il suo antagonista. Il cosiddetto proletariato (ci si scuserà il genericismo) si trova così ad essere sempre all’inseguimento del capitalismo nelle sue tendenze. Ieri sposandone lo Stato (leggi: welfare, cioè un compromesso sociale nel sistema) e dimenticandosi della propria nazione (riscrittura complessiva di interessi collettivi fisiologicamente incompatibili -quindi alternativi- al sistema), ha soltanto creato i presupposti temporali delle sue stesse successive ed ulteriori sconfitte. Oggi che il capitale sempre più si transnazionalizza, con la condiscendenza delle élite politiche di sinistra si decreta la morte dello stato-nazione (simbiosi mistificatoria), taluni credendo così di sublimare l’internazionalismo. Che invece muore per mano sia di chi lo vorrebbe materializzare in una -peraltro parziale (tolta l’Africa, gran parte dell’Asia, dell’Europa orientale, del Centro e Sud America)- globalizzazione di stampo neoliberista da ‘socialdemocratizzare’, sia di chi -‘antagonisticamente’, beninteso- lo ha confinato in un’aurea di astrattismo e di impotenza. Questo stesso proletariato resta schiavo se non ha nazione, la sua nazione, se rimane interno ai canoni dell’industrialismo e del capitalismo (che sono categorie diverse per quanto intrecciate nella storia) e lo insegue nel suo sviluppo, non rendendosi conto che quel modello riesce ad alimentarsi delle sue stesse crisi e non lo emanciperà mai. Anzi. Lottare per la propria nazione è la condizione necessaria, la cornice imprescindibile perché un popolo possa riscrivere la sua società, anche eventualmente in modo conflittivo al suo interno. Nelle forme più libertarie e partecipative possibili. Effettive. L’approccio del caso per caso è quindi inevitabile. Non esiste un modello già scritto da calare in ogni dove. Esistono dei parametri planetari, forse cosmici, di dignità, rispetto, giustizia, libertà, eguaglianza che vanno articolati e circostanziati in ogni dove, certamente nei modi più avanzati e radicali possibili, più comunistici possibili, che attengono al grado di coscienza di ogni popolo. Con questi presupposti un inter-nazionalitarismo di liberazione può rinascere come vera e propria araba fenice.
Ma è una lettura della realtà esclusivamente e riduttivamente economicista di per sé frammentaria, debole, perdente che va contrastata. Se certamente, dall’avvento della società industriale, l’interesse economico è stato -ed è- un elemento decisivo che caratterizza le moderne società, altri elementi concorrono in modo anche non irrilevante: la contraddizione uomo/ambiente, ad esempio, non riducibile alla dicotomia capitale/lavoro -semmai a quella ambiente/industrialismo- o anche quella uomo/donna. Cercare di comprendere la realtà, la molteplicità dei suoi fenomeni, significa saper cogliere i vari elementi nel peso reale assunto in quella determinata circostanza, servendosi degli adeguati strumenti analitici disponibili per la loro comprensione strutturale. Per una prospettiva nazionalitaria che rappresenta, in non pochi angoli del mondo, la punta più avanzata di conflittualità di liberazione sono le scelte di indirizzo -qualità del vettore- il più credibile asse ‘direzionale’ di una lotta politica di tipo anticapitalista ed antimperialista. Nessun idealismo rivoluzionario, quindi, che trasforma soggettivamente la realtà. Non avendo mai operato alcuna trasposizione metafisica del concetto di classe operaia, di nessuna classe ‘particolare’ -che non significa affatto negare l’esistenza delle classi, dei conflitti di classe od il nostro appoggio alle classi sfruttate e subalterne nelle loro lotte- allo stesso modo non siamo disposti alla divinizzazione della categoria di nazione.
L’approccio -e l’analisi- devono essere metodologicamente strutturali e radicali, cioè -letteralmente- andare alla radice delle questioni, per una prospettiva di liberazione di tutti e di ciascuno (uomo/donna, animali, ambiente). La rivendicazione nazionalitaria, in questo contesto, rappresenta una sorta di raccordo in grado -potenzialmente- di valorizzare, in chiave anticapitalista, esigenze e aspirazioni altrimenti condannate ad una deriva corporativa, settoriale ed illusoriamente liberatoria. La non centralità assoluta di una conflittualità di classe da nessuna parte non significa -lo ribadiamo- che, nei tempi e nei luoghi in cui si manifesti, anche in modo ‘forte’ -che sia la sola, la principale, o anche soltanto una delle conflittualità esistenti in quella determinata situazione storico/geografica- noi non si sia schierati sempre dalla parte degli sfruttati. Quel che sosteniamo è la non centralità assoluta del conflitto di classe che, da sempre, se sconnesso dalla nazione, non rappresenta -nemmeno potenzialmente- un fattore liberatorio per tutti e per ciascuno. Tutto ciò comporta una riflessione culturale e politica di portata enorme su un appropriato concetto di nazione (non organicista, non etnicista, non discriminatorio) che sappia materializzarsi nelle sue applicazioni particolari, sulla valenza ‘comunistica’ e globale di riferimento in termini amplissimi (culturali, politici, economici, sociali...) e sul come -altrettanto appropriatamente (in termini liberatori)- riempirla di contenuti, anche a contrastare il rischio che possano prevalere interessi di parte a snaturare il significato ‘comunistico’ di ogni lotta di liberazione nazionale.