SISTEMA DELL’INFORMAZIONE E SCONTRO DI CIVILTÀ


Alain de Benoist

Per parlare dei mezzi di informazione, bisogna cominciare col ricordare alcune banalità. Le tecniche di comunicazione hanno conosciuto, nel corso di questi ultimi anni, uno sviluppo straordinario: cablaggio, uso dei satelliti, televisione ad alta definizione, espansione delle telematica, diffusione di Internet ecc.. Grazie a queste nuove tecnologie, viviamo ormai nell’era della globalità istantanea, vale a dire della possibilità non solo di una diffusione o di una ritrasmissione, ma anche di un’interazione immediata, a livello sia finanziario e borsistico che politico-massmediale.

Questa globalizzazione massmediale si esprime in cifre di un ordine di grandezza mai visto sinora. Nello spazio di poche settimane, un film di grande spettacolarità, come Titanic o Guerre stellari, può essere visto da decine, se non da centinaia, di milioni di individui nel mondo. L’ultima Coppa del mondo di calcio è stata vista da due miliardi di telespettatori. "Con l’avvento del numerico e del multimediale", ha notato Ignacio Ramonet, "il sistema è in grado di diffondere lo stesso messaggio continuativamente e in diretta all’insieme del pianeta". Già da sola questa affermazione permette di misurare lo straordinario potere dei media – e la debolezza dei mezzi che si potrebbe opporre ad essi. I mezzi di informazione possono screditare o elevare alle stelle in un istante su scala planetaria. Possono decidere quali idee bisogna accettare e quali respingere, quali prodotti bisogna acquistare, quali spettacoli bisogna andare a vedere. Non è esagerato dire che un simile potere va largamente al di là delle capacità di propaganda di cui hanno potuto disporre in passato i regimi totalitari, e che esso apre delle possibilità di propaganda o di condizionamento che Goebbels o Stalin non avrebbero neanche immaginato.

Questa esplosione tecnologica mette in gioco anche formidabili interessi economici e finanziari, proporzionali ai mercati presi di mira e agli investimenti necessari per raggiungerli. Le industrie dell’informazione continuano ad aumentare i bilanci pubblicitari e promozionali. I prodotti derivati da un film spesso fanno incassare più del film stesso. Il lancio di un disco di musica leggera costa spesso più caro della sua produzione. A forza di acquisti e fusioni, si stanno costituendo dei semimonopoli planetari. L’acquisto del gruppo Time Warner, che stava per fondersi con Emi, da parte di Aol (America Online), primo fornitore mondiale di accessi a Internet, ha fatto nascere un mostro che totalizza oltre cento milioni di abbonati e qualcosa come 261 miliardi di dollari di capitalizzazione borsistica. L’operazione di acquisto è stata valutata 350 miliardi di dollari.

Régis Debray ha mostrato in modo molto efficace come l’umanità sia passata, nel corso della sua storia, attraverso tre diverse "mediasfere": prima dalla logosfera (scrittura) alla grafosfera (stampa), poi dalla grafosfera alla videosfera (audiovisivi). A ciascuna di queste mediasfere corrisponde un medium dominante e a ciascun medium dominante corrisponde una certa modalità di organizzazione e funzionamento della classe amministrativa, una certa tecnica di trasmissione, un certo tipo di dominio politico e simbolico. All’interno di una mediasfera, il medium dominante è sempre quello che garantisce il miglior rapporto fra costo ed efficacia. Oggigiorno, il mezzo di comunicazione dominante è con ogni evidenza la televisione.

Nessun elettrodomestico si è diffuso più rapidamente e più massicciamente della televisione. Oggi la si trova praticamente in tutte le case, anche le più misere. A tal punto che la sua assenza sconcerta e suscita interrogativi: chi non possiede la televisione appare nel migliore dei casi un tipo bizzarro, nel peggiore un avversario del progresso. Nella maggior parte delle case, la televisione troneggia nella stanza principale, la cui disposizione "si fa in funzione dell’apparecchio, e non per formare una cerchia conviviale". L’appartamento si trova così ad essere centrato attorno alla televisione, sorgente luminosa dispensatrice di immagini la cui apparizione mette spesso fine alle conversazioni. Parecchie persone accendono meccanicamente il televisore, così come si fa scorrere l’acqua in un rubinetto, o la lasciano costantemente accesa, a volte in varie stanze contemporaneamente. Un’inchiesta ufficiale ha dimostrato già nel 1990 che essa è "così integrata nella quotidianità che il fatto di accenderla non sembra costituire, nella maggioranza dei nuclei familiari, una decisione corrispondente a una vera e propria scelta". In più del 60% delle case, essa è in funzione durante le ore dei pasti. La maggioranza dei telespettatori non guarda peraltro un programma particolare. Guarda la televisione, che di conseguenza non è più un mezzo per captare una trasmissione, bensì l’oggetto stesso dello spettacolo.

Guardare la televisione costituisce oggi, per gli occidentali, la terza attività principale, dopo l’esercizio di un’attività professionale e il sonno. Vi si passano in media tre ore in Francia, quattro ore negli Stati Uniti – molte più che a nutrirsi, ad uscire o a fare l’amore. Il condizionamento inizia sin dall’infanzia, favorendo l’appetenza allo schermo. Prima ancora di saper leggere, un bambino ha passato migliaia di ore davanti alla televisione. Sin dall’età di due anni sa accendere l’apparecchio, la cui luminosità lo affascina: i genitori sanno bene che "la televisione è l’unica cosa che immobilizza il bambino, persona molto attiva in altre circostanze". Le cose non sono affatto diverse in età adulta. Il telegiornale delle 20 raccoglie in Francia molta più gente di tutti i quotidiani del mattino e della sera messi insieme. Si stima inoltre che circa il 70% dei francesi, ovvero i due terzi della popolazione, abbiano come unica fonte di informazione la televisione.

La televisione ha conosciuto un’evoluzione tecnologica rapida. Lo sviluppo delle tecniche video, la messa a punto di telecamere portatili e numeriche e la ritrasmissione via satellite le hanno conferito una mobilità che le consente di essere onnipresente. Essendo il mezzo di comunicazione dominante, imprime il proprio segno sugli altri media. Lo si constata dal modo in cui l’informazione viene trattata nella stampa scritta. Il contagio dell’audiovisivo vi si nota per lo spazio crescente assegnato all’immagine, la leggerezza dell’impaginazione, il tono umoristico o altisonante dei titoli, la brevità e la superficialità degli articoli, la moltiplicazione degli aneddoti, il ricorso all’emozione e, beninteso, il conformismo. Per sopravvivere, tutti i media devono adeguarsi alle norme e ai modi di fare del piccolo schermo. La dimensione dei supplementi dedicati alla televisione dai giornali aumenta di continuo. I giornalisti della carta stampata godono di una vera notorietà solo quando partecipano a trasmissioni televisive. Gli editori e i librai devono ormai fare i conti con le prospettive di edizione numerica smaterializzata. Lo stesso cinema viene sempre più spesso concepito in funzione dello sfruttamento in televisione, mentre lo sviluppo di Internet (che in Francia conta già su circa sei milioni di abbonati, un numero pari a quello degli acquirenti di quotidiani) lascia prevedere la cyberdistribuzione di taluni lungometraggi.

Il piccolo schermo, come è noto, è diventato anche l’elemento centrale della vita politica. Il futuro di un uomo politico dipende dalla sua notorietà e la sua notorietà dipende dai mezzi di comunicazione – il che significa che si confonde con la sua visibilità. Gli uomini politici sono dunque tenuti ad adattarsi alle esigenze della televisione. È in base alle sue regole che devono imparare a "comunicare", a dosare le "frasi ad effetto" e gli effetti da annuncio, a correre dietro all’ascolto che viene loro concesso da chi contabilizza immediatamente il punteggio che hanno ottenuto, a rispondere alle domande dei giornalisti che tengono nei loro confronti un comportamento sistematicamente irrispettoso, che non è il segno della loro indipendenza ma il rivelatore del loro disprezzo. Non ci sono mai tanti deputati presenti in parlamento come il giorno in cui i dibattiti vengono filmati. L’importante è farsi vedere. La televisione, in altri termini, è diventata, come ha scritto Pierre Bourdieu, "l’arbitro dell’accesso all’esistenza sociale e politica".

Questa influenza dei media sulla vita politica è a senso unico. Ciò significa che la politica dipende dall’elemento massmediale, che invece non dipende dalla politica. In passato, l’autorità politica si era sempre dedicata al controllo degli strumenti d’informazione. Quell’epoca è terminata. L’introduzione della pubblicità, la privatizzazione, l’invasione delle reti diffuse via cavo o via satellite impediscono allo Stato di esercitare la benché minima tutela sugli audiovisivi. Alexandre Zinoviev, ad avviso del quale i media esprimono "la quintessenza della vita sociale in tutte le manifestazioni della sua soggettività", afferma del tutto giustamente che essi sono "diventati un surrogato di Stato per la vita non statale della società". La relazione fra la politica e la medialità non può quindi essere ridotta all’emancipazione della seconda dalla prima. L’autorità ha semplicemente cambiato senso. Constatandolo, ci si accorge di ciò l’espressione "quarto potere", spesso utilizzata per definire la stampa, ha in sé di anacronistico. Così come l’economia si è prima affermata come un contropotere nei confronti della politica e poi si è issata in posizione di egemonia, i mezzi di comunicazione hanno smesso da un pezzo di essere un contropotere. Il "quarto potere" è diventato il primo e non esiste più nessun contropotere che riesca a contenerlo.

Esistono vari modi di esaminare il sistema massmediale. Il primo livello consiste nello studiarlo come uno strumento di propaganda o di disinformazione. Gli esempi non mancano. Ricordiamo i cadaveri dell’obitorio di Timisoara trasformanti in figuranti della rivoluzione rumena. Ricordiamo le frottole della guerra del Golfo e, durante la guerra contro la Serbia, massacri ribattezzati "danni collaterali" e bombardamenti di edifici civili definiti "strategici". Non insisterò tuttavia su questo punto, su cui si sono già espressi in molti. Né tratterò la questione della censura e del linciaggio massmediale, di cui mi sono già occupato in un precedente convegno.

Un secondo modo di analizzare il sistema dei media consiste nel considerarli uno strumento di controllo sociale, uno strumento per il "mantenimento dell’ordine simbolico" (Pierre Bourdieu), cioè uno strumento tramite il quale il sistema dominante si assicura la conformità del comportamento dei suoi membri. La tecnica, in effetti, non è mai neutra. Le caratteristiche tecniche degli organi di comunicazione ne definiscono non solo lo stile e il contenuto, ma anche le condizioni di esercizio dell’egemonia. Come scrive Régis Debray, "la correlazione medium dominante/pensiero egemone si esplica, a ciascuno stadio dello sviluppo tecnico, tramite la corrispondenza esistente fra la tecnologia culturale e la tecnologia politica di una società".

È banale constatare che i media sono diventati formidabili strumenti per formare e conformare gli individui: già nei primi anni Settanta, Jean Baudrillard poteva scrivere che "la televisione è, con la sua presenza, il controllo sociale a casa propria". Da molto tempo si è infatti fatto notare quanto la televisione tende a far scomparire i contatti sociali e le relazioni di scambio, quanto pone i telespettatori nella posizione dei consumatori passivi, isolati gli uni dagli altri, senza una forte vita di relazione. La televisione ha ampiamente contribuito al processo di ripiegamento su se stessi di cui siamo, da due decenni, spettatori. Invece di uscire, di andare al cinema o a teatro, di incontrare gli amici, si guarda la televisione. "Il trionfo del liberalismo, e i suoi effetti sulla collocazione e sul ruolo dell’individuo nella società, spiegano questo ripiegamento sulla sfera privata. Gli effetti di questi processi di frantumazione hanno ridotto i legami sociali, che si tessono ormai solo nel contesto lavorativo e, con l’emergere della produzione postfordista, scompaiono del tutto".

La televisione spinge ad isolarsi e nel contempo soddisfa un bisogno di evasione stimolato dal crescente isolamento. In questa cultura di evasione, che è anche una cultura di distrazione nel senso etimologico del termine, c’è chi ha visto un "nuovo oppio del popolo che si incarica di far dimenticare la miseria e la monotonia della vita quotidiana" (Gilles Lipovetsky). Si consuma a mo’ di spettacolo ciò che la vita reale rifiuta: il sesso, il lusso, l’avventura, il viaggio ecc. Ma per acquisire questa distrazione bisogna pagare il prezzo di una sorta di anestesia, che nasce dall’impressione di avere il mondo in casa, di poter andare dappertutto senza muovere un dito, di poter essere al corrente di tutto senza aver bisogno di un’esperienza vissuta.

L’immaginario proposto dalla televisione è inoltre nel contempo imposto e stereotipato. Lo spettatore non è più libero di crearsi le immagini che vuole; si lascia invadere da quelle che gli vengono proposte e che non lasciano più spazio ad altre. Infine, questo flusso costante di immagini svolge un ruolo determinante nel processo di disaffezione verso i grandi sistemi di significato. Dissolve le convinzioni, rende gli individui permeabili, labili, pronti ad abbandonare ogni sistema di riferimento. Il legame che unisce il telespettatore allo schermo è di natura ipnotica. Se il programma non gli va a genio, il telespettatore non spegne l’apparecchio ma salta da una rete all’altra fino a quando non trova un programma che non ha mai avuto intenzione di guardare ma che ne attira maggiormente l’attenzione. La televisione finisce così per guardare coloro che la guardano. Non è più il telespettatore a far funzionare l’apparecchio, ma è la televisione a modellarne il comportamento nel senso dell’adesione passiva. Continuando ad ampliare la sfera dell’espropriazione del soggetto, la televisione agisce dunque come un potente strumento di integrazione nel sistema esistente. In 1984 di George Orwell, tutti hanno un apparecchio televisivo, ma a nessuno è consentito spegnerlo – e nessuno può sapere in che momento l’organismo di diffusione se ne serve come telecamera. Nell’insieme, questo sistema richiama irresistibilmente ilo Panopticon di Jeremy Bentham, di cui Michel Foucault ha effettuato una brillante analisi in quanto metafora del ridispiegamento dei poteri moderni nella direzione della sorveglianza generalizzata. All’origine, il Panopticon è un sistema "panottico" che consente ai guardiani di una prigione di far sì che niente, nel comportamento dei prigionieri, possa sfuggire loro. La sua funzione essenziale è di interiorizzare in loro la chiara consapevolezza di non avere alcun modo per sfuggire allo sguardo onnipresente dei superiori. Fra questo sistema e la televisione vi è più di un’affinità.

L’avvento di Internet può modificare questa situazione? All’inizio, Internet è stato presentato come uno spazio di libertà totale e nel contempo come un prodigioso strumento di creatività interattiva, che si pensava avrebbe trasformato i telespettatori passivi in attivi cooperanti. Ciò è vero solo a metà. Oggi constatiamo che, al di là degli evidenti vantaggi, la "rete" è piuttosto uno spazio che offre nuove possibilità di sorveglianza totale, e che "la principale sfida che incontra questo tipo di rete è quella dell’insignificanza dei messaggi che vi transitano, per mancanza di differenziazione e di gerarchia fra di essi". Per più di un verso, Internet offre soprattutto la possibilità di una logorrea planetaria a persone sempre più indaffarate a comunicare fra loro benché fondamentalmente non abbiano niente da dirsi.

Vi è infine un terzo modo di studiare i media oggi dominanti, che consiste nel trattare del sistema mediale in quanto sistema, indipendentemente dall’uso che ne fanno i promotori. È senza dubbio quello più ricco di insegnamenti. Un approccio di questo tipo è tanto più necessario in quanto il passaggio dalla grafosfera alla videosfera ha comportato un inedito salto qualitativo. L’errore classico consiste, in questo caso, nel ritenere che un tipo di mezzi di comunicazione ne abbia semplicemente sostituito un altro. In altri tempi, un gruppo sociale esercitava egemonia sulla vita pubblica controllando i mezzi di informazione o di comunicazione e utilizzandoli per diffondere i propri messaggi. Ciò può ancora accadere, beninteso; ma ormai la sostanza del problema è altrove. La novità radicale della videosfera è che il medium dominante, nella fattispecie l’audiovisivo, non è più un mezzo ma tende a porsi come fine di se stesso. In altri termini, i media – a dispetto del nome che si continua a dar loro – non sono più, fondamentalmente, intermediari fra gli autori di un messaggio e i suoi destinatari. Come aveva genialmente notato Marshall MacLuhan, sono essi stessi il messaggio. I media non sono più istanze mediatrici, che permettono di passare da un livello all’altro, da uno stato del sociale ad un altro. Sono essi stessi il proprio contenuto: la notizia non è altro che il portatore di notizie.

È vero che i media contribuiscono a modellare le opinioni, i sentimenti e i gusti, e che da questo punto di vista sono uno straordinario strumento di influenza. Ma l’influenza più notevole che esercitano proviene non da quello che trasmettono, bensì dalla loro stessa esistenza. I mezzi di informazione non incitano a pensare qualcosa, incitano a pensare attraverso i media. "Il medium fa evento da solo", ha potuto affermare Jean Baudrillard, "e ciò quali che ne siano i contenuti, conformisti o sovversivi". Spingendosi ancora oltre, Régis Debray parla a ragion veduta di "padronanza del medium sui suoi padroni, o della macchina sui suoi meccanici". "Una mediasfera", scrive, "è un trascendentale tecnico e fissa a priori le condizioni del significato e dell’evento a chiunque voglia servirsene […] Il manipolatore dei media è il primo ad esserne manipolato, perché il macchinario veicola la propria visione del mondo – che è indipendente dai partiti e si impone ad essi". È la constatazione a cui addiviene anche Alexandre Zinoviev, quando scrive: "Tutti coloro che si considerano loro dirigenti o manipolatori devono conformarsi a loro volta ai criteri che permettono loro di dirigere e di manipolare i media […] I media sono la divinità senza volto della società occidentale, venerata persino da chi crede di esserne direttore e padrone".

Da questo punto di vista, contrariamente a quel che scrive Pierre Bourdieu, è una discussione inutile quella che mira a capire da che parte stiano i media, con il potere oppure con le masse. I media, dice ancora Baudrillard, "non stanno dalla parte di nessun potere perché sono una gigantesca forza di neutralizzazione, di annullamento del senso, e non una forza di informazione positiva, di accrescimento del senso. Neutralizzano sia le forze storiche sia le forze del potere, che diventa di conseguenza trasparente e fluttuante". Per questo sarebbe ingenuo e nel contempo anacronistico analizzare l’influenza massmediale in termini di "complotto", cercando di identificarne i "veri padroni" o i "direttori d’orchestra clandestini". I mezzi di informazioni sono padroni di se stessi, e coloro che credono di dirigerli sono di fatto diretti da essi. La "mano invisibile" dei media sono i media. L’unanimismo massmediale non deriva da una deliberata volontà di applicare ovunque le stesse direttive, ma dalla natura sistemica, intrinsecamente omogeneizzante, del potere massmediale. I mezzi di comunicazione funzionano nei fatti come se ricevessero istruzioni da una qualche centrale; ma non esiste un centro dei media. Come nel caso di Internet, dei mercati finanziari, delle reti planetarie, la loro circonferenza è dappertutto e il centro da nessuna parte. Il discorso massmediale è prima di tutto un discorso anonimo, perché non ha un’origine reperibile. Il sistema dei media è un operatore circolare perfetto.

Il mezzo essendo già in sé il messaggio, non ci si può dunque limitare a criticare le idee che veicola o che si suppone veicoli. Questa critica deve estendersi agli organi di trasmissione, a vale a dire al sistema che essi costituiscono.

La prima osservazione che si è portati a fare è ovviamente che il sistema massmediale è prima di tutto una enorme macchina economica e finanziaria, e in quanto tale un vettore essenziale dell’ideologia economicista. L’universo della comunicazione mobilita, lo sappiamo, somme di denaro sempre più considerevoli. Se ci si riflette un istante, ci si rende conto che in ciò vi è qualcosa di molto naturale. In quanto equivalente astratto universale, il denaro è infatti l’agente di comunicazione per eccellenza. Come Karl Marx aveva constatato sin dal 1984, è nella sua natura attraversare le frontiere e facilitare lo scambio, riconducendone i termini alla sola dimensione contabile. Scrive Georges Balandier: "Il denaro esprime l’essenza delle società in cui quasi tutto può essere tradotto in termini di merce; inoltre informa in un universo sociale e culturale in cui l’informazione è l’energia indispensabile ad attività sempre più numerose, e designa il rapporto scambista per eccellenza in un mondo che è quello della comunicazione, della moltiplicazione rapida e dell’intensificazione degli scambi di qualunque natura".

La logica interna dei media è la logica del mercato. È una caratteristica ovviamente ben lontana dall’essere esclusiva, ma su di essi ha conseguenze particolari. Un tempo il valore dell’informazione dipendeva, almeno in parte, dal suo valore di verità. Oggi, "il prezzo di un’informazione dipende dalla domanda, dall’interesse che suscita. Quel che conta è la vendita". In altre parole, l’informazione è diventata una merce come le altre. E come tutte le merci vale unicamente nella misura in cui si può vendere e acquistare. Ancora mezzo secolo fa, il successo commerciale immediato era sospetto – tanto più sospetto in quanto le elevate creazioni culturali facevano sempre fatica ad imporsi, e ci riuscivano solo opponendosi alla logica del mercato. Oggi accade il contrario. Il successo commerciale immediato è l’obiettivo che prevale su tutti gli altri e che determina la qualità. Non è quel che è buono a vendersi meglio, ma è quel che si vende bene ad essere considerato buono, e tanto migliore quanto meglio si vende.

È più facile capire, tenendo conto di queste condizioni, il ruolo centrale assegnato alla pubblicità. Essa non si limita ad assicurare introiti finanziari senza i quali la maggior parte dei media sarebbero deficitari, ma costituisce anche il modello del messaggio massmediale. Da un lato crea degli automatismi a livello di idee, grazie a concatenamenti di associazioni che sfuggono al controllo dell’attenzione. Dall’altro instaura e stimola fin dall’infanzia un desiderio imitativo orientato verso l’acquisizione di beni materiali (Non dimentichiamo che a dodici anni un bambino ha già visto in media centomila messaggi pubblicitari). Questa seconda funzione è ovviamente la più importante. La pubblicità non è solamente il vettore di un incitamento all’acquisto. Globalmente, serve prima di tutto ad alimentare l’idea che la felicità, ragion d’essere della presenza nel mondo, si riduca o si confonda con il consumo. Essa non mira tanto a valorizzare un particolare prodotto, quanto a valorizzare l’atto dell’acquisto nella sua generalità, vale a dire il sistema dei prodotti. La pubblicità incarna il linguaggio della merce, che sta diventando il paradigma di tutti i linguaggi sociali.

Dal momento che l’informazione migliore è quella che si vende meglio, la strategia massmediale si concentra sulla corsa all’ascolto, che, lanciata dalla televisione con l’auditel, si è estesa a poco a poco alla stampa, all’editoria e al cinema. L’argomento pubblicitario più classico è quindi quello del numero di consumatori attratti da un prodotto. Il fatto che milioni di persone siano andate a vedere lo stesso film diventa la prova che è un buon film. È il procedimento che è stato definito "intimidazione maggioritaria". Nel contempo, l’etichetta "visto in televisione" diventa di per sé un argomento di vendita: se è passato in televisione, deve per forza essere buono. Si noti che anche in questo caso un siffatto principio si pone in antagonismo con la cultura, nella misura in cui, per definizione, i beni culturali non trovano necessariamente rispondenza in un’ampia domanda immediata.

Chi afferma che niente è più democratico dell’auditel, beninteso, vuol farsi gioco degli altri. L’auditel consente non di misurare quel che la gente vuole, bensì di capire fino a che punto essa ha interiorizzato quel che la si è abituata a volere; il che non è la stessa cosa. Alla gente piace quel che gli vien fatto piacere. In questo ambito come in altri, è l’offerta a determinare la domanda, e non l’inverso. Ha scritto Pierre Bourdieu: "L’auditel è la sanzione del mercato, dell’economia, cioè di una legalità esterna e puramente commerciale, e la sottomissione alle esigenze di questo strumento di marketing è l’esatto equivalente in materia di cultura della demagogia orientata dai sondaggi di opinione in materia di politica. La televisione governata dall’auditel contribuisce a far pesare sul presunto consumatore libero e illuminato le costrizioni del mercato, che non hanno niente a che vedere con l’espressione democratica di un’opinione collettiva illuminata". Lo scopo del messaggio televisivo è raggiungere "tutti", senza interrogarsi sulla natura di ciò che può raggiungere tutti o chiedersi se tutto possa essere visto o sentito da tutti. Il fatto è che per toccare tutti bisogna innanzitutto abbassare il livello, e soprattutto non scioccare nessuno, cioè non andare contro lo spirito del tempo. Ne risulta uno straordinario rafforzamento simbolico di tale spirito del tempo, ovvero, per dirla più chiara, dell’ideologia dominante.

Il messaggio che raggiunge tutti corrisponde a quello che Pierre Bourdieu chiama il fatto "omnibus": "I fatti omnibus sono fatti che, come si usa dire, non devono scioccare nessuno, che non implicano alcuna posta in gioco, che non dividono, che creano un consenso generalizzato, che interessano tutti, ma in modo tale da non toccare niente d’importante". Fatti di questo genere sono il più delle volte futili o meramente spettacolari. Il loro accumularsi ha l’effetto "di fare il vuoto politico, di spoliticizzare e di ridurre la vita del mondo all’aneddoto o al pettegolezzo […] fissando l’attenzione su avvenimenti privi di conseguenze politiche, che si drammatizzano per "trarne delle lezioni" o per trasformarli in "problemi sociali"". Negli Stati Uniti, le principali reti televisive dedicano perciò soltanto il 5% del tempo alle notizie dall’estero. Nel 1998, i media statunitensi hanno dedicato più tempo e spazio alle avventure della signorina Lewinsky che a tutte le questioni di politica estera dell’anno. L’universalizzazione di messaggi di questo genere è collegata a una strategia entropica. Ogni discorso non conformista si trova così ad essere emarginato, e la critica è ammessa solamente sotto forma di derisione satirica.

Il concetto di "consenso generale" svolge qui un notevole ruolo. Questo concetto, che i sociologi hanno sempre fatto una grande fatica a definire (non è né una categoria politica, né una categoria giuridica, né una categoria morale), comprende sia l’ideologia dominante, sia tutto ciò che non si può mettere pubblicamente in discussione a meno di non voler passare per pericolosi sovversivi. Il fatto che la ricerca del "consenso generale" la si ritrovi anche in ambito politico, sebbene essa si ponga in assolto antagonismo rispetto alla democrazia, che presuppone lo scontro pacificato tra opzioni nettamente differenziate, è rivelatore. Da ciò discende questa osservazione di Jean Baudrillard: "Il consenso generale come grado zero della democrazia e l’informazione come grado zero dell’opinione sono in totale affinità: il Nuovo Ordine Mondiale sarà nel contempo consensuale e televisivo". In campo politico come in campo massmediale, la ricerca del "consenso generale" sfocia nello stesso risultato: l’indifferenziazione. In quella che è stata chiamata la democrazia di opinione, vale a dire la democrazia modellata dai sondaggi, i programmi dei partiti riconvertiti al centro si assomigliano a tal punto da diventare indistinguibili nei punti essenziali. Lo stesso accade con i giornali o con i programmi televisivi: un articolo pubblicato su un grande giornale potrebbe comparire su qualunque altro grande giornale, una trasmissione diffusa su una rete potrebbe essere programmata da qualunque altra rete. Gli stessi giornalisti passano senza preoccupazioni da un mezzo di informazione ad un altro. Gli uomini e i contenuti sono diventati interscambiabili.

I teorici liberali hanno sempre affermato che la concorrenza favorisce la qualità e la diversità. Ma vediamo tutti i giorni che essa ha effetti diametralmente opposti. La concorrenza non solo provoca la concentrazione del mercato, che ricrea monopoli e oligopoli, e all’abbassamento di livello che è reso obbligatorio dalla corsa all’ascolto; comporta anche l’uniformità dell’offerta a causa del generalizzarsi della rivalità imitativa. Il principio stesso di concorrenza obbliga ciascun medium a fare come tutti gli altri media, a trattare gli stessi temi o parlare degli stessi libri di cui gli altri parlano. "Questa sorta di gioco di specchi che si riflettono a vicenda produce un formidabile effetto di chiusura, di isolamento mentale". Il "pluralismo" si riduce perciò alla moltiplicazione di un unico modello. Mai la televisione è stata più monotona come lo è da quando si può "scegliere" fra varie centinaia di canali. Perché la scelta è solo apparente: quello che viene definito "pluralismo" dei media non è altro che concorrenza pilotata dalle costrizioni del mercato. Come scrive Joël Roman, "il pluralismo delle opinioni struttura il campo in maniera centrifuga, tendendo a far divergere le opinioni, a sottolineare più nettamente gli spigoli, mentre la concorrenza lo struttura in maniera centripeta, costringendo ciascuno ad imitare l’altro al fine di ottenere il più grande numero possibile di quote di mercato". La concorrenza, per sua stessa natura, riduce gli stili e i contenuti a stereotipi. Per questo i grandi media dicono tutti più o meno la stessa cosa, limitando nel contempo i temi di cui si ha il diritto di parlare.

L’omogeneizzazione del discorso massmediale è ulteriormente rafforzata, al livello degli uomini, dalla straordinaria connivenza fra i giornalisti, i direttori di giornali, i commentatori televisivi e gli uomini di potere, connivenza che favorisce l’autocensura, fa sì che gli interlocutori non si affrontino più in maniera rispettosa e rafforza una complicità oggettiva fondata su una comune appartenenza alla Nuova Classe e, soprattutto, su interessi comuni. Ogni mezzo di informazione è tenuto, in virtù delle proprie determinazioni, a privilegiare una visione del mondo, e quindi un’ideologia sociale. Dato che la televisione è il medium dominante, ne risulta che la sua visione del mondo si impone a sua volta come la visione dominante. Ma non va dimenticato che l’informazione non è mai data in maniera grezza; è sempre prodotta, costruita, il che implica una scelta inevitabile, ancorché raramente confessata. I giornalisti selezionano, consapevolmente o inconsapevolmente, le informazioni a seconda del fatto che esso corrispondono oppure no alla loro griglia, cioè alla visione del mondo che viene loro imposta dai media. Ciò spiega l’assoluta mancanza di curiosità che dimostrano nei confronti di tutto quello che considerano "fuori campo". Allo stesso modo, in televisione, il telespettatore non assiste mai ad un evento, contrariamente a ciò che crede, bensì a una rappresentazione di un evento, a una trasposizione in immagini, cioè a una messinscena, che implica sempre una selezione e un montaggio. L’informazione, si potrebbe dire, si è esaurita nella messinscena dell’evento, ovvero, in definitiva, nella simulazione.

Un avvenimento, del resto, esiste solamente nella misura in cui viene mostrato in televisione. Un avvenimento del quale i media non parlano è (come) un avvenimento che non si è verificato. Ma non appena un avvenimento è oggetto di un resoconto, di un’ostensione massmediale, può anche trasformarsi in un evento di un altro genere, un evento situato in un metalivello. I media, che pretendono di essere tutti in grado di fornire grandi prestazioni, in realtà sono assai spesso "performativi", cioè creano l’avvenimento più di quanto non ne rendano conto, oppure ne rendono conto in maniera tale da (ri)crearlo. Un avvenimento può pertanto diventare un "grande evento", non in virtù della sua importanza oggettiva ma perché milioni di individui lo hanno appreso simultaneamente. La morte della principessa di Galles ("Lady Di") è stata un tipico esempio del modo in cui un fatto di cronaca ha potuto essere istantaneamente trasformato in "grande evento" mondiale, provocando, sulla base di un ritratto trasformato in icona, fenomeni di isteria collettiva o di seduzione dell’immaginario assolutamente caratteristici (Lo si vede anche nell’eccellente film di Costa Gavras Mad City).

Si può dire, in generale, che l’informazione è diventata oggi sovrabbondante e contemporaneamente poco credibile. Se si prende l’esempio della televisione, si constata tuttavia che essa presenta un numero relativamente ristretto di informazioni: si apprende molto meno guardando un telegiornale di mezz’ora che dedicando una mezz’ora alla lettura dei giornali. La televisione, in compenso, fonda l’informazione sull’immagine. In un telegiornale, oltre i due terzi del tempo sono dedicati alle immagini, solo un terzo al commento. Questo primato dell’immagine ha varie conseguenze. La prima, e la più evidente, è che l’avvenimento di cui la televisione rende conto deve poter essere illustrato da immagini. Un avvenimento che non si può illustrare con l’immagine verrà con ogni probabilità passato sotto silenzio. Il corollario che se ne deduce è che tutto quel che esiste può e deve essere mostrato – è un’applicazione del principio della tecnica: tutto quel che può essere realizzato deve esserlo –, mentre quel che non può essere mostrato può essere a buon diritto considerato inesistente. Va da sé, d’altro canto, che l’immagine migliore è quella che attira maggiormente l’attenzione, che colpisce con più forza, che solleva l’emozione più intensa. L’informazione viene di conseguenza a dipendere strettamente dal suo carattere più o meno spettacolare. Questa esigenza spiega per esempio lo spazio che la televisione concede alle "grandi cause" umanitarie. Basandosi sulla messinscena dell’indigenza e dell’infelicità, l’elemento umanitario è per sua natura spettacolare. Lo stesso accade con lo spazio accordato al terrorismo, il cui sviluppo è stato d’altronde strettamente parallelo a quello dei media: dal momento che anche un’azione terroristica è spettacolare, chi la effettua è sicuro che il suo gesto riceverà la più ampia pubblicità. La televisione usa e abusa, inoltre, della testimonianza (frase tipica: "grazie della sua testimonianza"), che riduce tutto ciò che viene detto alla condizione di opinione fra le altre opinioni, fingendo di credere che queste testimonianze forniscano un effetto di realtà, cioè che attestino l’affermazione a cui fanno da contrappunto. Si tratta di testimonianze che non sono né spontanee né prese a caso. Nella maggior parte dei casi, sono il risultato di una selezione o di un montaggio, cosicché confermano unicamente le intenzioni o l’opinione di coloro che le hanno selezionate. Ci se ne rende particolarmente conto negli innumerevoli talk-shows che, facendo dello schermo televisivo un luogo di esibizione narcisistica, consentono a chiunque di venire ad esporre l’idiosincrasia delle proprie esperienze personali o delle proprie disgrazie, consegnando al voyeurismo pubblico una lunga scia di messaggi emotivi privi di contenuti che non siano punti di vista soggettivi immediatamente sottratti a qualunque giudizio.

La seconda conseguenza del primato dell’immagine è che l’ostensione sostituisce la dimostrazione. Il giornalismo intellettuale del dopoguerra aspirava a rivelare il senso degli avvenimenti. Il giornalismo attuale mira ad accumulare fatti quanto più in fretta possibile. I reportages devono essere brevi, i commenti semplici, inframmezzati da interviste frammentarie e da elementi aneddotici. L’immagine deve scioccare. Il ritmo deve essere rapido, tanto più che si deve avere l’informazione prima degli altri, il che in genere impedisce di verificarla e rendere impossibile situarla in prospettiva. L’ideale è che l’avvenimento venga mostrato in "tempo reale", vale a dire nel momento stesso in cui si verifica. "Nessun bisogno di memoria, di riferimenti, di continuità: tutto deve essere compreso immediatamente, tutto deve cambiare molto spesso", dice Gilles Lipovetsky. Al limite, la valorizzazione della diretta rende superfluo il commento. Il valore dell’informazione non risiede più nella sua importanza oggettiva o nel significato che riveste, ma nel solo fatto che rimanda a qualcosa che è appena accaduto. Il giornalista non vuole più mettersi nella condizione di capire, ma si limita a sorvolare o a sovrastare. La televisione conosce del resto un unico mezzo per imporre una gerarchia alle informazioni: il tempo più o meno lungo che ad esse concede; ma questa gerarchia non riflette l’importanza relativa reale di ciascuna informazione, è anch’essa determinata dai criteri del piccolo schermo. La televisione non possiede le risorse dell’impaginazione, che sono riservate alla stampa, ed è costretta a trattare tutte le informazioni in maniera simile, il che ne rafforza l’impressione di omogeneità.

Dal lato del telespettatore, questo succedersi di immagini a cascata, che rimandano ad altrettanti avvenimenti decontestualizzati, favorisce un consumo puramente passivo o affettivo dell’informazione. Così come non può esistere una storia in "tempo reale", una vera comunicazione presuppone sempre un effetto di differimento, di ritardo nella trasmissione, di sfasamento temporale fra l’emittente e il diffusore, necessario alla riflessione su ciò che è oggetto di comunicazione. In altri termini, essa presuppone una profondità di campo che l’audiovisivo ritrascrive in superficie liscia. La comunicazione istantanea non è altro che scambio di significanti senza significati, di messaggi senza contenuti. Nella misura in cui valorizza dei fatti senza avere né il tempo né gli strumenti per metterli in prospettiva, propaga una costante confusione fra vedere e sapere, fra vedere e capire. La televisione fa quindi pensare che non vi sia distanza tra la realtà e la sua rappresentazione attraverso l’immagine. Di conseguenza non vi è più possibilità di giudizio, poiché il giudizio non può situarsi che nella distanza, cioè in una certa resistenza alla percezione immediata: non è vedendo sempre di più che si capisce meglio, ma riflettendo sempre di più, cosa che l’invasione delle immagini proibisce per l’appunto di fare. Proibendo la presa di distanza, l’immagine televisiva scoraggia dunque la riflessione. François Brune ha fatto notare che "tutto sembra accadere […] come se l’attualità fosse prodotta per impedire alle persone di iniziare una riflessione su stesse e di prendere una certa distanza nei confronti di qualsiasi avvenimento". "Quando si è privi della possibilità di distinguere fra quel che si vede e quel che si è", aggiunge Marie-José Mondzain, "l’unica via di uscita è l’identificazione massiccia, cioè la regressione e la sottomissione".

Per definizione, il senso si mostra soltanto sullo sfondo del non-senso, così come la luce vale solo per via dell’oscurità che la circonda. Ma la televisione non conosce questa distinzione. Come scrive Régis Debray, essa "non propone una sequenza di segni ma un flusso di immagini senza sintassi, una griglia di programmi senza luogo discorsivo, che giustappone senza gerarchizzare, senza totalizzare, senza distinguere […] Non ha una natura tale da suscitare atteggiamenti di astrazione o di inferenza, di sintesi, né di critica […] Non è fatta per trasmettere idee né per produrre convinzione, bensì qualcosa che sta fra l’assenso superficiale e la chiacchiera sociale". In effetti, la televisione fa conoscere qualcosa esclusivamente sotto forma di chiacchiera. Con lei non si sa niente ma si è sentito parlare di tutto. La televisione funziona sul duplice registro della sovrabbondanza e dell’equivalenza generalizzata. Da un lato, la sovrainformazione dà gli stessi risultati dell’assenza di informazione. Dall’altro, un’immagine ne scaccia un’altra, dando l’impressione che essa valga più o meno quanto la precedente o la successiva.

Questa neutralizzazione che è frutto dell’"immediatismo", che potremmo definire con le parole di Régis Debray "il regime di autorità tipico delle società sotto controllo massmediale", questa neutralizzazione ottenuta attraverso la riduzione all’insignificanza e all’equivalenza generalizzata, è uno dei tratti più caratteristici del sistema audiovisivo. Siamo ben lontani dalla propaganda classica. Nel 1999 si è visto come sia bastato che venisse presa la decisione di stigmatizzare i serbi perché nello spazio di poche ore entrasse in azione contro la Serbia una propaganda planetaria. Tuttavia, come ha sottolineato Alexandre Zinoviev, "se domani, per ragioni x, il potere sovranazionale decidesse che, tutto considerato, gli albanesi pongono più problemi dei serbi, la macchina cambierebbe immediatamente direzione, con la stessa sensazione di avere la coscienza a posto". Perché in un sistema del genere tutto è equivalente, tutto è reversibile. Si può anche voler mettere l’immagine al servizio della "memoria", ma l’immagine non alimenterà mai la memoria, perché non è legata ad alcuna memoria. Circola nello spazio senza collocarsi nel tempo, provocando emozione solo per un istante, prima di generare indifferenza e oblio.

I media possono giustificare tutto, appunto perché non funzionano secondo la regola del vero e del falso. Sin dagli anni Sessanta, Edgar Morin aveva osservato che la cultura di massa rende "fittizia una parte della vita dei suoi consumatori. Fantomatizza lo spettatore, ne proietta la mente nella pluralità degli universi immaginati o immaginari, ne fa seminare l’anima negli innumerevoli doppi che vivono per lui". Tutte le inchieste effettuate in seguito mostrano che, quando lo si interroga sulla serata che ha passato davanti alla televisione, il telespettatore fa una grande fatica a distinguere fra informazione, pubblicità e finzione. Confonde i generi e mischia i contenuti. Ciò non si spiega solo con una mancanza di attenzione da parte sua. Vladimir Volkoff dice che "il tasso di veridicità di un’informazione non ha alcuna importanza, conta solo il suo tasso di verosimiglianza". Orbene: niente più dell’immagine crea la verosimiglianza. L’audiovisivo non distilla verità ma certezze legate all’apparenza, certezze emotive che appartengono all’ordine del sembiante. Fonde il principio di piacere e il principio di realtà rendendo fantastico il reale. Nel contempo, il criterio di verità cede il posto al criterio di efficienza o di rappresentabilità. In un mondo nel quale l’"opinione" è sovrana, la verità (politica, filosofica, religiosa o di altra natura) si trasforma in un’opinione fra tante altre. Come diceva Jacques Ellul, "non c’è una vera informazione in televisione, non c’è altro che televisione".

Joël Roman ha, dal canto suo, mostrato con molta efficacia la differenza esistente tra la logica della comunicazione e quella che dovrebbe essere una sana logica dell’informazione, scrivendo: "Là dove la logica dell’informazione è comandata da tre cose, la verità dell’informazione trasmessa (vale a dire sia la sua conformitàà alla realtà, sia la sua verifica), l’importanza dell’informazione (il suo ruolo, la sua funzione) ed infine la natura dei destinatari (coloro ai quali può essere necessaria o utile), la comunicazione propone ogni volta uno scivolamento di queste nozioni che ne trasforma completamente il senso. Al posto della verità troviamo la credibilità, cioè l’effetto di realtà suscettibile di produrre un’informazione […]; più che la sua importanza in quanto tale conta la sua posizione nella retorica dispiegata; […]; ed infine, il pubblico qui conta quantitativamente: il valore di un’informazione cresceva, poco tempo fa, in funzione della sua importanza strategica, dunque, al limite, in funzione della rarità del pubblico, mentre ormai è la sua insignificanza a qualificarla, nella misura in cui deve idealmente interessare ogni pubblico".

Quando la credibilità prende il posto della verità e l’intensità dell’effetto prodotto dal messaggio assume più importanza del messaggio, ciò che ne risulta non è la menzogna, ma un discorso in cui verità e menzogna diventano equivalenti. La televisione, da questo punto di vista, non "mente": svolge un discorso che è al di là sia del vero che del falso. È quella che Baudrillard chiama la "logica iperrealista di dissuasione del reale tramite il virtuale". Il virtuale ha il sopravvento sul reale presentandosi come più reale del reale. Il virtuale "è un mondo senza resistenza, un mondo fluido, duttile, maneggevole, operabile e combinabile a piacimento, insomma, un mondo smaterializzato". Tutto il sistema massmediale prende parte a questo grande processo postmoderno che mette fine al senso raddoppiando il reale attraverso i suoi segni ed introducendo ovunque il simulacro e la simulazione. Siamo dunque in un mondo nel quale non c’è più informazione e c’è sempre meno senso. Sarebbe un errore credere che l’informazione non abbia niente a che vedere con il significato, che siano due modelli operativi di diverso ordine. In realtà, questa concomitanza non ha niente di casuale. Dice ancora Baudrillard: "Vi è una correlazione e necessaria fra i due, nella misura in cui l’informazione è direttamente distruttrice o neutralizzatrice del senso e del significato. La perdita del senso è direttamente legata all’azione dissolvente, dissuasiva, dell’informazione e dei media". L’informazione in-forma, ovvero rende informe, sopprime ogni forma. Fa implodere il senso. E dissolvere il senso significa anche dissolvere e distruggere il sociale, ricondurre anch’esso all’entropia.

In ultima analisi, l’ideale della comunicazione potrebbe essere definito un ideale di trasparenza, che Jean Lacouture ha potuto definire "una forma relativamente morbida di barbarie". Questo ideale mira a sopprimere tutto quello che può esservi di opaco e di "rugoso" nei rapporti sociali. Joël Roman parla, al proposito, di "filosofia della comunicazione senza residui, senza parassiti, senza scarti di alcun genere". Sullo sfondo ritroviamo l’idea illuministica di uno spazio aperto alla discussione razionale come modello dello spazio pubblico, idea ripresa da Jürgen Habermas con il concetto di trasparenza come condizione di possibilità del pensiero comunicativo. Il sogno di una comunicazione totale si congiunge qui con quello di una concorrenza pura e perfetta, di una vita pubblica senza potere, di un’economia senza rarità, di una società concepita come un immenso acquario. È un ideale fondamentalmente nichilista. Ma è altresì un ideale totalitario, nella misura in cui è sostenuto da un sistema che si pretende planetario. Per descrivere questo nuovo totalitarismo, che potrebbe essere definito un sistema di oppressione senza oppressore, Paul Virilio ha forgiato il nome "globalitarismo". La principale caratteristica di questo totalitarismo è infatti il suo basarsi sull’abolizione della differenza fra interno ed esterno. Il sistema mediale pretende di essere un mondo senza esterno. Contrariamente ai vecchi totalitarismi, che esercitavano il proprio potere solo su una parte del globo, permettendo agli avversari di raggrupparsi e di lottare contro di loro nelle altre parti, esso si estende all’intero pianeta e ne fa un universo chiuso su se stesso.

L’esplosione del sistema mediale segna l’ingresso in un’era in cui non è soltanto il potere politico a minacciare le libertà, come sempre ha fatto in passato, ma anche e piuttosto i poteri privati. Come le grandi multinazionali, i principali media si sforzano innanzitutto di fare in modo che le norme private diventino norme pubbliche. Ma la costrizione che ne risulta è di natura diversa. Mentre la vecchia censura discendeva da un sistema di proibizioni, quella nuova è paradossalmente espressione di un sistema di libertà. Questa nuova censura di fatto non mira tanto ad impedire l’espressione di un’opinione – anche se ciò contuna ad accadere correntemente – quanto piuttosto a delegittimare tutte le opinioni nella misura in cui esse significhino qualcosa, cioè a ridurre al non-senso tutto ciò che si propone di creare senso. Al limite, volersi servire dei media per far circolare un messaggio propagandistico testimonia ancora un certo ottimismo sulla loro natura. Quando niente ha più importanza, quando tutto è diventato insignificante, un messaggio del genere è certamente destinato a non produrre effetti. Lo constata ancora una volta Joël Roman quando scrive: "Perché censurare, se il rumore di tanti messaggi accumulati svuota di senso il gesto sovversivo, se ogni parola dissonante è destinata ad inabissarsi in un interminabile chiacchiericcio […] Perché la libertà se essa si svuota del proprio contenuto, se si ottiene di poter parlare al prezzo di non dire più niente? Che cosa ci minaccia maggiormente, le forbici del censore oppure la ridondante marea di discorsi che non infastidiscono più nessuno non potendo emergere dal rumore?". È quel che aveva detto anche Solzenycin dopo aver passato alcuni anni in America: "Un tempo ho vissuto in un sistema dove non si poteva dire niente, sono arrivato in un sistema dove si può dire tutto e ciò non serve a niente".

Quel che infatti è maggiormente scomparso è il rapporto critico fra i media e l’ideologia dominante. In passato, quando abitavamo ancora nella grafosfera, il libro e il giornale possedevano perlomeno una virtù critica, che mobilitava i censori. Quel ruolo ormai è svolto solo da minuscoli cenacoli. Oggi l’audiovisivo destituisce il politico senza neppure aver bisogno di criticarlo o di cercare di confutarlo. È il segno indiscutibile che i media non sono più un contropotere, ma sono diventati in tutto e per tutto il primo potere. Se esiste perfetta consonanza fra il sistema dei media e l’ideologia dominante, è perché essi si compenetrano e si appoggiano l’uno all’altro, confortandosi vicendevolmente.

Non esiste ovviamente alcun rimedio miracoloso per modificare una simile situazione. Il rimedio migliore consiste senza dubbio nel prendere le misure esatte del sistema mediale e non ingannarsi sulla sua natura. Il rimedio migliore è altresì uscire da questo sistema e dalla sua zona d'’nfluenza. È probabile, d’altronde, che in futuro vedremo sempre più movimenti o mobilitazioni nascere al di fuori del sistema dei media. Il loro maggiore rischio sarebbe di essere risucchiati da tale sistema. Al momento, è possibile quantomeno formare sacche di resistenza. Si possono raggruppare gli spiriti ribelli. Si può proclamare il diritto all’opacità, il diritto a non sapere tutto, il diritto al silenzio. Ma bisogna dirsi anche che tutto quello che esiste muore a causa di chi lo ha fatto nascere. Il sistema mediale non sfuggirà alla regola. Si distruggerà da solo per effetto della propria inflazione. Più un sistema ingrossa, più diventa fragile. Anche questa è una delle caratteristiche della globalizzazione: ogni crisi locale si propaga istantaneamente all’insieme del sistema. Dice ancora Jean Baudrillard: "Più si rafforza l’egemonia del consenso generale mondiale, più crescono i rischi, o le opportunità, del suo crollo".