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Discussione: Dal sito del MGP

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    Predefinito Dal sito del MGP

    De Benoist sul moderno



    Distinzione nata con la modernità
    La distinzione tra sinistra e destra è nata con la modernità e assieme ad essa scompare. Se si prendono in considerazione tutti i grandi avvenimenti che sono sopravvenuti nel mondo dopo la caduta del sistema sovietico (riunificazione tedesca, trattato di Maastricht, guerra del Golfo, intervento in Kosovo, rinascita del regionalismo, globalizzazione, attentati di New York e Washington, ecc.),l si constata che questa distinzione è diventata totalmente inefficace per qualificare le prese di posizione che si sono manifestate e le linee di frattura che esistono attualmente.

    I nuovi spartiacque che fanno oggi la loro comparsa sono trasversali. Attraversano sia la "destra" che la "sinistra" e rivelano nuove linee di frattura: regionalisti e giacobini, comunitaristi e liberali, federalisti e sostenitori della sovranità dello Stato centralizzato, atlantisti e critici degli Stati Uniti, eccetera. In parallelo, si constata uno straordinario restringimento dei programmi politici dei "partiti di governo": le squadre dirigenti "di destra" e "di sinistra" praticano sempre più di frequente la stessa politica, i loro rappresentanti aderiscono in fondo alle medesime idee caratteristiche dell’ideologia dominante e si separano soltanto sulla scelta dei mezzi migliori per giungere allo stesso scopo.

    Questo fenomeno è alla fonte della crisi di rappresentanza che le democrazie occidentali conoscono: i cittadini sono costantemente delusi dai risultati delle loro scelte elettorali, si considerano sempre più estranei alla Nuova Classe presa nel suo insieme e tendono a disinteressarsi del gioco politico istituzionale. Ma, nel contempo, la politica ricompare alla base nella forma "postmoderna" delle comunità e delle reti, lontano dalle istanze statali, la cui capacità di azione ed i cui margini di manovra continuano a restringersi. Le alternative si affermano al di fuori delle istanze politiche classiche. Ciò può essere il segno di un rinnovamento.

    Alain de Benoist
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  2. #2
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    Tavola rotonda



    (ALAIN DE BENOIST)

    Sul primo punto all'ordine del giorno della nostra tavola rotonda, quello che riguarda il rapporto fra potere e cultura nelle relazioni, internazionali, mi limiterò a qualche breve cenno Si nota, oggi, una straordinaria trasformazione delle forme di potere, che le rende sempre meno identificabili. Aumentano le forme di potere impersonali che pesano sulla vita sociale - gli esempi più eclatanti sono i mercati e le tecnologie - e, in questo senso, le articolazioni del rapporto fra potere e cultura cambiano costantemente di forma. Ci troviamo, potremmo dire, di fronte alla dissoluzione postmoderna dei discorsi strutturati. Il grande racconto ideologico, che trasmetteva una concezione del mondo in una forma unitaria univoca, ha fatto il suo tempo. La cultura è sempre meno separabile dal prodotto e può essere colta come una proiezione della tecnologia, nel contempo riappaiono forme di cultura di base più tribali, più comunitarie, che ricreano una coerenza sociale al di fuori una ristrutturazione ideologica del tipo al quale siamo stati abituati in passato.Per quanto riguarda invece la questione delle pretese di universalismo della cultura occidentale, a mio avviso il problema più rilevante consise nel capire in quale misura la globalizzazione e la modernizzazione siano sinonimi dell'occidentalizzazione.Ci sono dei riferimenti, nel libro di Huntington attorno al quale è ruotato questo convegno, che trovo fortemente discutibili. Io credo che la globalizzazione non sia sinonimo semplicemente di occidentalizzazione. A volte assistiamo all'impiego di tecnologie molto moderne nell'ambito di movimenti che siamo usi definire fondamentalisti; il che dimostra che non vi è necessariamente contraddizione tra tecnica e fondamentalismo in tutte le parti del mondo. Ciò che è più contestabile nel libro di Huntington è che mette quasi in rapporto univoco la rinascita delle culture regionali con i processi di conflitto nei confronti della cultura egemone. Non è necessariamente così. Certo, la tendenza all'omogeneizzazione può essere fonte di conflitti ma non esiste un rapporto necessario di causa ed effetto tra rinascita di culture locali e conflitti. Anzi, negli ultimi anni è stata proprio l'ideologia dei diritto umani, cioè il presunto discorso comune su cui si fonderebbe anche il diritto all'egemonia culturale planetaria dell'occidente, a produrre guerre. Come tutte le ideologie, come tutti i miti, ha prodotto guerre, perché se chi si arroga il compito di difendere e diffondere i valori che stanno alla base della cultura occidentale ritiene di essere l'unico depositario dei diritti umani, è inevitabile che la sua retorica rappresenti chiunque lo critica come inumano, come un nemico - se non addirittura il nemico - dell'umanità. E in questo caso, quello che nasce come un contrasto di valori e di opinioni degenera rapidamente in dichiarazione di guerra senza confini, in designazione di un nemico assoluto, da estirpare ad ogni costo.Questo è un primo aspetto del problema. La sua seconda dimensione riguarda il sistema delle relazioni internazionali. La domanda che ne sta al centro è questa: potranno, all'interno di tale sistema, determinarsi nel medio periodo equilibri alternativi a quelli attuali? Per dirla in altre parole: la logica della superpotenza americana potrà trovare dei contropoteri regionali? Naturalmente, ad un simile quesito non possiamo che dare delle risposte in forma ipotetica, che sottintendono ulteriori interrogativi.Il primo di essi è: l'Unione Europea potrà mai costituire in futuro una di questi contropoteri? Io sono fortemente critico sul modo in cui l'Unione Europea si è andata costruendo e si va allargando in questa fase, perché questa processo formativo sta riproducendo le strutture dello Stato moderno, dello Stato Giacobino, in contraddizione con ogni ipotesi federalista. Occorre dunque pensare ad atri contropoteri che nascano dal basso, che si costruiscano dal basso a partire da identità locali, a partire da idee di comunità, a partire cioè da un'attenzione alla micropolitica, alla ricostruzione di legami sociali. Tutto ciò viene però contraddetto dalla logica della globalizzazione, comunque la si voglia intendere.MASSIMO CACCIARIVorrei partire da alcune considerazioni che mi sono state suggerite dalle relazioni che ho ascoltato questa mattina. Avrei la tentazione di partire da molto, molto lontano, perché penso che una tendenza ad un pensiero unico - potremo poi discutere sul significato del termine - sia un po' insita nel Dna della nostra civiltà. Quando si dice che il "logos dei desti" è uno solo, già un passo fatale è stato compiuto in una determinata direzione. Non sono fra coloro che vogliono sempre riportare tutto ai Greci, ma non possiamo non partire da questa constatazione.C'è una tendenza formidabile, nella nostra civiltà, a unificare il pensiero, a fare del logos non - come a me piacerebbe tradurre la parola - il luogo dove i distinti e differenti si accolgono e si riconoscono; il logos non è accolto nel senso originario del termine, bensì come appare all'inizio della nostra filosofia (e quindi, della nostra scienza, della nostra tecnica). Non, dunque, come rapporto e relazione tra distinti che tali rimangono, ma come volontà unificatrice ed egemonica di una forma di razionalità. La storia della nostra civiltà europeo-occidentale è la storia di questo confronto, che, io credo, continuerà sin tanto che continuerà questa storia; essa, cioè non si deciderà mai per l'uno o per l'altro dei significati in conflitto. Questa è tragedia, nel senso che è una malattia che non potrà essere curata, come diceva Nietzsche, se non uccidendo il malato.Oggi, in concreto, la questione si pone in termini molto diversi; non c'è dubbio. Qui è stato detto: la globalizzazione politica non è necessariamente un'entità omogonea; la globalizzazione economico-finanziaria è una cosa, la globalizzazione culturale è un'altra. Sul punto mi permetto di rivolgere un invito alla riflessione, perché qui forse sta la grande differenza rispetto ai modi e alle forme passate in cui il pensiero, la civiltà europeo-occidentale ha affrontato questo nodo. Oggi, per la prima volta, la dimensione tecnica (nel senso più largo del termine che include economia, tecnologia, finanza, eccetera), non ha nulla che la trascenda. La dimensione culturale è tecnica. Per noi, la tecnica ha cessato di essere un insieme di strumenti, per quanto importanti, ed è diventata il valore. Il valore, il fine, lo scopo del tutto autoreferenziale è lo sviluppo della tecnica in tutte le sue dimensioni. La grande differenza rispetto al passato consiste nel fatto che non possiamo più porre una differenza tra globalizzazione economico-finanziaria e globalizzazione culturale, perché per la prima volta proprio la dimensione tecnica è diventa dimensione culturale. Tra le due vi è una tendenziale perfetta coincidenza.Questo è oggi il pensiero unico, se l'espressione ha un qualche significato: l'idea che la dimensione economico-tecnico-scientifica debba essere posta al comando, e che tutte le altre funzioni valgano e siano legittime in quanto amministrano il buon esito dell'impresa tecnica. Se, in qualsiasi modo, ciò non avviene, e quindi tali funzioni si dimostrano di ostacolo o di freno all'argumentum scientiarum, o comunque non ne, comprendono le esigenze, esse non più sono legittime; non hanno valore, perché il valore, da tutti i punti di vista, è diventato, appunto, l'augmentum scientiarum.Anche questa è una novità? No, è quello che diceva Bacone all'inizio del XVII secolo. La nuova Atlantide dice esattamente questo; ma la scienza e l'impresa scientifica moderna nascono anche politicamente sotto l'egida di un'idea di questo genere, perché al di fuori di essa vi sono le contraddizioni laceranti delle ideologie, dei miti, delle religioni, di quel valore negativo delle differenze la cui complessità nessuna politica - in quanto tale - riesce a ridurre, mentre la tecnica si rivela all'altezza del compito. Si può pensare che questa sia un'utopia; resta il fatto che è la vera novità rispetto al passato. Non si va più in cerca di una funzione politica nel senso tradizionale del termine, come ciò che riesca a realizzare il pensiero unico e il sistema unico, ideale. La politica è derubricata ad amministrazione della vera potenza che si ritiene sia in grado di realizzare questo sistema unico: la tecnica. Per questo il potere, come diceva de Benoist, appare impersonale. È un network power. Al suo centro non c'è più il rappresentante eletto - democraticamente o non -; c'è un'aristocrazia assolutamente impersonale, il network power della tecnica, e poi - via via scendendo - ci sono gli amministratori che hanno il compito di rendere i territori del tutto disponibili al network power, di aprirli, di renderli disponibili, di amministrare quelle contraddizioni che sorgono di continuo durante il funzionamento del meccanismo. Man mano che si scende di livello appaiono dei volti: al vertice il network power è del tutto impersonale: sono le grandi istituzioni, anche quelle dell'Unione Europea; scendendo appaiono i volti degli amministratori, giù giù fino a coloro che stanno in trincea rispetto ai conflitti locali delle nostre città: personalità di sportello chiamate ad amministrare tutte le inevitabili contraddizioni.L'idea che questo network power possa essere democraticamente ridefinito è utopia regressiva, irrealizzabile. La democrazia, come qualsiasi altra forma personalizzata di potere, non può svolgere ormai che un ruolo amministrativo all'interno di questo disegno; e nell'Unione Europea è lo stesso, perché a contare sono le burocrazie impersonali, non i deputati che siedono nel Parlamento europeo. Anche lì, quelle che contano sono le commissioni, cioè appunto gli organi di un'impersonale burocrazia.Potrà funzionare, questo meccanismo? Non lo so. Certo, il suo funzionamento incontrerà estreme difficoltà; è difficile dire se questa operazione di riduzione potrà completarsi; certamente, però, essa appartiene alla nostra storia. Questo discorso appartiene al nostro linguaggio. Anche sul linguaggio ci sarebbe molto da dire … Il problema del pensiero unico non è quello del diffondersi dell'uso dell'inglese come lingua egemone. Perché il progetto si compia, non è necessario che ci sia un unico linguaggio; possiamo anche parlare, tutti quanti, i nostri linguaggi materni. Il problema fondamentale, all'interno di questo sistema, è che il linguaggio cessa di essere comunicazione e diventa informazione. La riduzione del linguaggio a strumento informativo è ormai un dato di fatto dominante. Non è necessario che in televisione si parli inglese; si può benissimo continuare a parlare una lingua locale, magari con accento dialettale: non cambia nulla. Il dato essenziale è che il linguaggio si limita ad informare: è questa la filosofia di Internet. Si perde il senso del linguaggio come comunicazione. Questa è la differenza fondamentale; ma anche in questo caso, non appartiene forse al nostro destino tutto ciò?Come sappiamo, tutto ciò non è altro che il punto terminale della completa desomatizzazione del logos, il punto terminale assolutamente necessario, destinato, di un processo che viene da lontano. Quando abbiamo cominciato a pensare che capivamo il pensiero di un'altra persona leggendola, senza mai averla vista, senza mai averne visto un gesto, senza mai aver sentito il tono della sua voce, da quel momento, inesorabilmente, siamo entrati nel processo che ci porta oggi ad Internet. È la totale desomatizzazione del logos: capiamo qualcosa leggendolo; il senso di una comunicazione sta tutto nell'informazione contenuta nero su bianco sulla pagina.Questo processo europeo-occidentale, in tutti i suoi snodi, contraddice radicalmente lo spirito delle altre civiltà, delle altre culture. La provocazione interessante del libro di Huntington - a proposito del quale condivido tutte le critiche che ho sentito in questa sede - riguarda in particolare l'Islam, che è la civiltà che nei suoi fondamenti contraddice l'impostazione del processo conoscitivo al quale ho fatto riferimento. Come si porrà, nei confronti dell'Islam, il processo di globalizzazione, che necessariamente è un processo di occidentalizzazione perché tutti i valori che lo supportano sono valori del mondo occidentale, ivi compresi i diritti umani?L'esempio dell'Arabia saudita è calzante da questo punto di vista, perché si tratta di un paese in cui esiste una separazione totalmente occidentale tra dimensione religiosa e dimensione tecnica. Non è assolutamente vero, in questo senso, che in Arabia vige una forma di potere tradizionale; anzi, ciò che permette l'odierna relazione strettissima con gli Stati Uniti è il fatto che in quel paese è stato assimilato uno dei fondamenti della civiltà europea occidentale, la separazione tra la dimensione religiosa e quella tecnica (non quella politica). La distinzione tra politica e tecnica, del resto, non ha più nessun senso, neanche nel mondo occidentale, perché la politica in tanto vale, ormai, in quanto è amministrazione di certe funzioni tecniche. Il fatto che in talune zone del mondo vigano ancora forme politiche non occidentali non va quindi più inteso come un elemento di contraddizione del modello generale, perché l'importante è che lì vi sia una tecnica occidentale e vengano pienamente rispettate le esigenze dello sviluppo tecnico. Certo, questa separazione appartiene alla mentalità occidentale ed è denunciata da tutta l'ortodossia islamica, non soltanto dai cosiddetti integralisti o fondamentalisti, il che getta le basi di una contraddizione che può essere foriera di forti conflitti. Ma è presto per dire se potrà essere superata oppure no.LUDOVICO INCISA DI CAMERANAPrima di tutto, mi sembra importante ritornare sull'affermazione fatta ieri da Santoro, secondo cui lo scontro di civiltà attualmente non è centrale nelle relazioni internazionali. Perché non è centrale? Per rispondere dobbiamo ritornare alla Guerra Fredda e chiederci: cos'è stata la Guerra Fredda? Di solito se ne parla, con espressione fuorviante, come di una guerra Est-Ovest, però quando parliamo della Prima e della Seconda guerra mondiale sappiamo di parlare di guerre civili europee. Perché non consideriamo la Guerra Fredda una guerra civile europea e quindi tra occidentali? Abbiamo molte più ragioni per considerarla guerra civile di quelle che avevamo per considerare guerre civili la Prima e la Seconda Guerra Mondiale perché, oltretutto, persino negli Stati Uniti c'era un partito filosovietico. Si trattava quindi di una guerra talmente estesa che penetrava nell'altro blocco.Che cos'è successo quand'è finita la Seconda Guerra Mondiale? C'è stata una conciliazione fra la Francia, l'Inghilterra e tutti i paesi che stavano da una parte e i paesi che stavano dall'altra parte. Dallo scenario attuale, del tutto diverso, emerge una contraddizione dei sostenitori dello scontro di civiltà alla Huntington: finché l'Unione Sovietica è esistita, c'è stata gente che la considerava apertamente addirittura un modello per l'Occidente, che parlava di "paradiso del socialismo", che lodava i bravi russi che facevano sacrifici per insegnare il socialismo agli altri occidentali. Molti di costoro ora sostengono invece che la Russia, che non segue più il modello marxista, si è posta al di fuori dalla civiltà occidentale perché segue la religione ortodossa, si rifà a tradizioni imperialistiche di che tipo ortodosso o bizantino. In realtà, la Russia rimane occidentale com'era prima, e questo è un argomento specioso che serve soltanto a permettere un determinato gioco diplomatico, perché certamente la civiltà russa ha molte connotazioni simili a quelle della civiltà occidentale; anche il suo senso espansivo verso l'Asia, corrisponde a quello che è stato il senso espansivo della parte occidentale dell'Europa verso le Americhe, verso gli oceani. La Russia, essendo un'entità terrestre si è spinta per vie terrestri. Il resto dell'occidente si è spinto per vie marittime, le vie oceaniche, ma è stata la stessa spinta, lo stesso dinamismo espansivo comune.In realtà, l'America sostiene in qualche maniera il fronte islamico, la civiltà islamica rispetto alla civiltà "scismatica russa" per una semplice ragione: per il petrolio. Questo tipo di fattori è più centrale, nelle relazioni internazionali, dello scontro di civiltà. Fa sopportare l'America dall'Arabia Saudita perché è vero che la seconda ha assimilato la tecnica dalla prima, ma è vero anche che in Arabia Saudita una signora non può andar vestita secondo canoni occidentali, e ai cristiani è proibito di accedere a luoghi santi come la Mecca,. Quella dell'Arabia Saudita è una civiltà che ha un grado di accettazione verso le civiltà diverse estremamente basso, e questo mi sembra un punto molto importante nelle relazioni internazionali.MASSIMO CACCIARIMa della civiltà americana l'Arabia Saudita, accettando la tecnica, ha già accettato l'essenziale. Che dagli Stati Uniti un cristiano non possa andare alla Mecca non gliene importa assolutamente niente.LUDOVICO INCISA DI CAMERANASì, appunto, perché conta più il petrolio del cristianesimo o della civiltà.MASSIMO CACCIARIHa accettato l'essenziale, ha accettato una certa logica economica, quindi… Gli Stati Uniti non sono l'Impero Romano; il paragone non regge, perché non è un impero che abbia alla sua base un'altra ideologia all'infuori di quella della tecnica. Il suo fine unico è, lo ribadisco dicendolo alla Bacone, l'augmentum scientiarum. Accettato quello, ne deriva tutto il resto e l'impero può funzionare.LUDOVICO INCISA DI CAMERANAQuesta è la prima annotazione che volevo fare. La second, che scaturisce dalla precedente, è che sarebbe un grosso affare fare la stessa cosa che è stata fatto dopo le due guerre mondiali, cioè fare il possibile per includere la Russia nel mondo occidentale così com'è, quanto più integra possibile. Tra 20 anni, d'altra parte, tutti capiranno la vastità del mercato russo, il cui potenziale futuro è equivalente a quello di dieci o quindici paesi di dimensioni, risorse e popolazione pari a quelle del Canada. Su questo punto, facendo una professione di fede, allargherei il raggio della famosa frase di Benedetto Croce e direi che non possiamo non dirci cristiani e occidentalisti. Ache se l'espressione americana dell'occidentalismo non ci può piacere, non possiamo non dirci occidentalisti. Quanto al tipo di civiltà che abbiamo, il problema della nostra civiltà occidentale è, sin dall'epoca di Ulisse, che una civiltà che scopre gli altri non è scoperta dagli altri. E questo spiega perché è l'unica civiltà che abbia una vocazione universale (cattiva o buona che sia, dettata da motivi che ci piacciono o che non ci piacciono), che la condanna a trionfare.Tutte le previsioni sul declino della civiltà occidentale che sono state fatte sono state smentite, come anche in questa sede è stato detto giustamente, perché la civiltà occidentale è condannata a trionfare, anche per la sua capacità di trasformare in folklore caratteristiche tipiche di altre civiltà e dunque di fare apparire queste ultime incongrue e non moderne. Io non vedo quali altre civiltà possano trionfare al di fuori della civiltà occidentale.Mi pare interessante aggiungere un ultimo appunto. Ho letto su "Foreign Affairs" le risposte di molti intellettuali del Terzo mondo al primo articolo di Huntington, quello che ha preceduto il libro. Il tenore di quasi tutti gli interventi era: ma no, perché parlare di scontro tra le civiltà, quando l'intelligencija dei paesi del Terzo mondo si è convertita alla logica occidentale, si è accomodata bene nel mondo occidentale, ne ha adottato le lingue e il modo di esprimersi? In realtà, insomma, l'intelligencija del Terzo mondo si è occidentalizzata; parla come gli occidentali e si comporta come gli occidentali. Nella globalizzazione, non è tanto il veicolo linguistico che conta, ma assieme alla lingua inglese è la civiltà occidentale che entra a far parte del modo di essere di queste persone che provengono da tutte le altre aree di civiltà. Quanto al pensiero unico, mi è venuta in mente una frase che mi sembra sia stata pronunciata da de Gaulle: è meno difficile governare il mondo che un paese con duecento marche di formaggi. Ecco, mi sembra difficile adattare il pensiero unico alle centinaia di formaggi che esistono; e questa frase mi ha fatto ricordare i vari Bovè che hanno rotto le uova nel paniere a Clinton a Seattle. Clinton voleva fare una bella celebrazione dell'era globale e sono arrivati questi tipi che in nome dei formaggi e di altre specificità locali hanno mandato all'aria il festival della globalizzazione che si stava celebrando.MARCO TARCHICercherò di ricollegare in qualche modo i diversi piani su cui si è svolta sinora questa discussione. Non sarà facile, perché i tre temi che sono stati individuati dal titolo della tavola rotonda hanno connessioni sostanziali dal punto di vista del ragionamento ma piuttosto esili dal punto di vista argomentativo, e per non perdersi bisogna per forza di cosa ritagliarsi nicchie specifiche di analisi, stabilire una sorta di divisione di lavoro. Io cercherò di farlo proponendo alcune riflessioni di taglio più specificamente politologico, pur tenendo conto dell'argomentazione di fondo che Cacciari ha avanzato, e cioè che il pensiero unico, tutto sommato, si può racchiuso nell'idea che la dimensione tecnica dev'essere posta al comando delle varie attività umane.Parto da un dato: pochi anni fa, negli Stati Uniti d'America, Benjamin Barber, un politologo di lungo corso che si era occupato in generale di tutt'altro tipo di temi - soprattutto di sistemi politici, totalitari e democratici -,pubblicò un volume, discusso pubblicamente meno di quanto meritasse, intitolato Jihad Versus McWorld, (è stato tradotto in italiano da Pratiche editrici con il titolo Guerra Santa contro McMondo), dando dignità scientifica a un'espressione in sé molto giornalistica e suggestiva, "McDonaldizzazione del mondo". La prima cosa che mi venne da chiedermi quando vidi il libro fu: come mai uno studioso serio come Barber dà credito ad una formula semplificante per cercare di argomentare attorno al problema del conflitto di civiltà? Le riflessioni suggeritemi da quel quesito hanno a che vedere con le questioni che oggi affrontiamo. È vero, infatti, che esistono grandi linee di cambiamento e di sviluppo del rapporto fra le civiltà e idee dominanti che si possono imporre, che stanno alla radice della fondazione di una civiltà, come sostiene Cacciari quando fa riferimento al logos e a tutto quello che ne deriva. Esiste però, ed esiste sempre di più nel mondo contemporaneo, una necessità di articolare la giustificazione di queste grandi scelte a livello di massa, di farla filtrare a livello diffuso, attraversando molti strati di opinione, fra cui quello del cosiddetto certo colto, per arrivare poi ai comportamenti dei più. Certo, i comportamenti di questa "gente comune" da sempre pesano sugli equilibri politici meno di quelli degli attori più provvisti di risorse di influenza, e quindi un teorico o uno studioso delle relazioni internazionali si può sentire autorizzato a considerarli non troppo importanti; ma nell'ottica del sociologo o del politologo che si occupa del contributo degli stimoli della cultura diffusa ai comportamenti collettivi possono pesare molto di più. Se ci poniamo in questa prospettiva, la comprensione di quel fenomeno che, usando un'espressione ultrasemplicistica, è stata chiamata McDonaldizzazione del mondo, si ricollega ad un'altra e ben più cruciale questione: come trova il proprio effettivo fondamento un rapporto egemonico tra culture in origine diverse?Certo, si può cercare di rispondere alla domanda adottando una prospettiva strategica a largo raggio, che guarda soprattutto alle finalità dei grandi attori del gioco politico internazionale. Si può, in altri termini, guardare all'egemonia culturale considerandola principalmente alla stregia di un obiettivo coltivato da una ben definita entità statale. (Anche in questo convegno, ad esempio, è stata chiamata in causa a più riprese, e a ragione, l'egemonia degli Stati Uniti sul contesto occidentale e, in prospettiva, sull'intero pianeta). Ma cosa deve accadere perché questo progetto egemonico riesca ad assicurarsi uno sviluppo su base diffusa? Deve esistere un apparato che esporti comportamenti imitativi? La mia risposta è netta: sì, occorre un apparato che in altri contesti culturali e in un'altra epoca si sarebbe detto "di riproduzione del dominio" a vari livelli. Questa constatazione suscita altri interrogativi. Dietro questo meccanismo di esportazione di comportamenti imitativi, attivato nella prospettiva di affermazione di una determinata egemonia culturale, c'è soltanto l'effetto ultimo, cioè la produzione di stimoli, oppure anche il tentativo di creare un certo livello di coscienza diffusa dell'utilità, della positività della riprodurre di un certo tipo di comportamenti? Si vuole, insomma, soltanto ottenere l'effetto-cane di Pavlov, facendo sì che suonando il campanello il cane pensi che il cibo è pronto e si faccia automaticamente aumentare la salivazione, oppure ci si vuol spingere oltre, facendo pensare che il cibo annunziato dal suono del campanello è buono, tanto buono da dover essere considerato migliore di ogni altro?Il problema di fondo sollevato dal fenomeno definito da Barber e altri McWorld - espressione che ovviamente richiama anche il lato tecnologico dell'egemonia culturale statunitense, con il richiamo al versante informatico del suffisso Mc: MacIntosh più McDonald's - è questo, e ci deve portare al di là dell'interessante, e da me condivisa, distinzione proposta da Cacciari tra i due significati e linguaggi, quello in buona parte perduto della comunicazione in senso proprio e quello oggi prevalente dell'informazione. Ci deve portare a riflettere sul peso che, sul piano della realizzabilità del progetto egemonico, ha la questione delle forme di riproduzione del linguaggio.Non è un caso che da un paio di decenni da questa parte si sia aperto in un campo che è molto vasto - internazionale, nazionale, sociologico, politologico, filosofico, eccetera - uno spazio di riflessione sulla comunicazione come strumento fondamentale di organizzazione degli aggregati sociali. È ben noto che esistono varie scuole di pensiero che tendono sempre più a ridurre i contenuti della politica, non già a pura amministrazione tecnica, come si è a lungo sostenuto, ma, appunto, a comunicazione. Secondo i sostenitori di questo punto di vista, chi detiene capacità di influenza per via comunicativa ha oggi a sua disposizione gli unici strumenti che ancora incarnano quel che resta di una funzione politica autonoma. Si può discutere ampiamente sulla validità di questo modo di vedere le cose - io non lo condivido, ma ne prendo atto -, però è un dato di fatto che sia il sistema comunicativo, come forma di rappresentazione dei rapporti collettivi, sia l'apparato che ne è espressione, sono un elemento fondamentale che definisce oggi rapporto fra potere e cultura. Era nel giusto, a mio avviso, Alessandro Colombo quando ha sostenuto che nel rapporto fra cultura e politica non c'è nessuna relazione di generazione reciproca diretta e immediata; cioè che né il potere egemone produce immediatamente cultura, né la cultura egemone procura immediatamente il potere). È vero però che esistono solide linee di intermediazione, solidi canali che fanno comunicare queste due entità, e sono quelli che oggi fanno capo al potere comunicativo.Da questo punto di vista, volendo prendere un esempio, capisco quel che intende sostenere Cacciari quando dice a Zolo: "Nel momento in cui io so che comprendo quello che tu dici pur non avendoti mai visto, non avendo calcolato il tuo tono, non avendo visto la tua gestualità, eccetera, io ti leggo". Pur condividendo questa affermazione, debbo tuttavia aggiungere che molte cose stanno cambiando o rischiano di cambiare nella società contemporanea - e anche Cacciari lo sa o lo dovrebbe sapere, avendolo sperimentato in qualche misura anche sulla sua pelle -, perché oggi la riproposizione di un determinato stile comunicativo dà al vivere associato un valore aggiuntivo. Vi è, cioè, oggi chi non potrebbe essere letto, perché non ha capacità di suggestionare un potenziale lettore, di interessarlo a quel che dice, ma se viene invece visto e percepito attraverso atteggiamenti, formule comunicative e non solo informative, può modificare il rapporto con l'ambiente umano che lo circonda.Detto questo, in sintesi, il punto su cui attiro l'attenzione è questo: qualunque progetto attuale di egemonia culturale ha un fondamento di tipo comunicativo. Io, che diversamente dall'ambasciatore Incisa di Camerana, non me la sento di dichiararmi occidentalista, mi pongo seriamente il problema del diritto all'esistenza delle culture che non intendono appiattirsi sul modello occidentale. E mi rendo conto che la prospettiva di un'assoluta egemonia di questo modello passa oggi soprattutto attraverso un esteso meccanismo di riproduzione culturale al cui interno anche il livello più basso ha una grande importanza e la suggestione imitativa, mirata alla manipolazione dell'immaginario collettivo, è legata fortemente all'irradiazione del messaggio per via comunicativa. Se non ci si rende conto di questo aspetto della realtà, l'atteggiamento culturale degli assertori del realismo - che è certamente una delle correnti intellettuali fondamentali e più interessanti per lo studio delle relazioni internazionali - diventa meno realistico e addirittura rischia di diventare irrealistico, di essere scavalcato dai fatti.GIUSEPPE DE VERGOTTINIL'ottica in cui mi pongo è quella di chi si occupa di profili giuridici, soprattutto di diritto costituzionale e indirettamente anche internazionale. La mia prospettiva di analisi dei problemi di cui stiamo trattando è quindi necessariamente un po' diversa da quelle degli interventi di chi mi ha preceduto. Partendo dal tema generale del convegno, la prima domanda che mi viene alla mente è: se c'è uno scontro di civiltà in atto, come deve essere gestito? A che fine? E a che punto d'arrivo può portare?La mia impressione è che uno scontro di questo tipo, un conflitto prevalentemente ideologico ma che si manifesta anche attraverso forme violente, oggi effettivamente esiste. Non mi sentirei di metterla in termini di vincitori e vinti finali, in questo momento; abbiamo sentito dire anche che ci sono situazioni di prevalenza o egemonia di un'unica potenza, gli Stati Uniti d'America, il che mi pare inconfutabile, però ho l'impressione che ci sia, allo stato latente, una situazione di effervescenza e di continuità dell'aspirazione ad assumere un ruolo dominante di altre potenze regionali (basta pensare alla Cina, basta pensare al ruolo di potenze nucleari che hanno raggiunto il Pakistan e l'India). La situazione conflittuale dunque rimane aperta e può generare il ricorso all'uso della violenza bellica. Ma detto questo, sullo sfondo, rimane il problema delle differenze di aree culturali.Indubbiamente il modello culturale occidentale appare oggi a molti dominante, e si ritiene che sia ormai esso a dettare le regole fondamentali della vita internazionale. Per indicare questo processo in atto si usano però due formule diverse: talvolta si parla di globalizzazione, in altri casi si parla di occidentalizzazione. Io non sono convinto che il contenuto di queste espressioni sia univoco, né che oggi si possa parlare di una vera e propria occidentalizzazione culturale assoluta del mondo, al di là delle apparenze. Così come credo che alla globalizzazione, cioè alla tendenziale omogeneizzazione degli altri spazi culturali da parte dei valori oggi egemoni nello spazio che è controllato dalle potenze dominanti (cioè gli Stati Uniti e, di riflesso, l'Unione Europea), non possa essere collegata una crisi definitiva degli Stati nazionali. Penso che, nonostante tutto, i concetti di Stato e di sovranità, con tutti gli attributi che si portano dietro, rimangano ancora validi e utilizzabili. La mia impressione è che una crisi dello Stato e della sovranità ci sia, ma che si tratti di una crisi contingente di certe particolari esperienze politiche statuali, più che di un fenomeno generale.All'interno, in vari paesi, lo Stato è in crisi per la prevalenza di certi gruppi di interessi, per il problema della criminalità, per il problema della autodeterminazione portata a forma di secessione. Ma questo non succede necessariamente dappertutto. È vero che, per quanto riguarda i rapporti internazionali, ci sono tutto una serie di situazioni che possono mettere in discussione il significato dello Stato: per esempio, la globalizzazione la vedo soprattutto imperante sotto il profilo dell'unificazione dei sistemi informativi e dei mercati finanziari, e ciò può deprimere o avvilire un certo numero di prerogative tradizionalmente legate al concetto di stato. Però ciò non significa che la globalizzazione porti necessariamente alla rinuncia alla sovranità. In altre parole, la globalizzazione non va equivocata; e uno degli equivoci ricorrenti nelle discussioni sull'argomento è legato al fatto che il concetto di globalizzazione viene fatto coincidere con una supposta universalizzazione di certe concezioni, in particolare quelle in materia di diritti dell'uomo.In questo ambito, chiaramente la globalizzazione non c'è. Huntington ricorda com'è nata la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo prodotta dalle Nazioni Unite e se è vero che essa doveva essere in origine un modello universalizzante, è difficile pensare che lo possa essere effettivamente, nel momento in cui risulta storicamente che a darle forma sono stati solo Stati che erano espressione della cultura occidentale. L'Unione Sovietica partecipò in modo adesivo unicamente perché in quella contingenza storica aveva interesse a mantenere il dialogo con le democrazie occidentali; gli stati africani e asiatici, in larga parte, erano ancora sulla via della decolonizzazione; alcuni stati islamici erano presenti, ma si sono astenuti o opposti. Se quindi vogliamo partire da quel documento per sostenere che i valori che vi sono espressi sono veramente condivisi a livello universale, ci limitiamo a considerlo sotto un aspetto meramente formalistico, perché in realtà non esistono elementi sufficienti per dire che esiste una condivisione di questo modello di concezione dei diritti umani a livello universale.La globalizzazione, dunque, oggi non è fondata sui valori. Certo, se pensiamo che il valore dell'unificazione tecnologica sia un valore dominante, possiamo anche sostenerlo, ma poi ci accorgeremo che la permanenza di un'altra serie di valori a livello regionale, che continuano ad essere sentiti come tali, potrebbe metterne in forse o contraddirne la preminenza.E la globalizzazione non è tale finché non coincide con l'unificazione effettiva di valori di fondo dei diversi contesti sociali e non porta ad un'organizzazione tendenzialmente omogenea o uniforme delle norme a livello globale. Che questa non è ancora la situazione in cui viviamo ce lo dimostra il problema della costituzione del Tribunale internazionale permanente: basta ricordare che gli Stati Uniti si sono rifiutati di ratificarla per constatare che dal punto di vista pratico l'attivazione effettiva degli strumenti che consentano di creare un potere universale superiore a quello delle Nazioni Unite, capace di imporsi anche alle grandi potenze - e che darebbe la prova dell'accettati universale di determinati valori - resterà impossibile finché ci sarà la possibilità del veto, o comunque di un potere frenante, delle grandi potenze. Ciò dimostra che l'eventuale superamento del concetto di sovranità, che si considera uno dei più evidenti effetti della globalizzazione, non avverrà se non nel momento in cui ci sarà una vera condivisione di valori a livello universale.Un altro problema collegato alla crisi dello Stato è quello delle frequenti rinunce alla sovranità. Di questo argomento si è parlato molto soprattutto in riferimento all'Unione Europea, ed è un discorso che oggi emerge anche in altre aree regionali, per esempio, nei paesi dell Mercosur; ma qui la limitazione della sovranità, se non è rinuncia in senso proprio - che comporta la sostituzione di una sovranità ad un'altra - non è, di per se stessa, eliminazione della sovranità. Mi limito a ricordare l'esistenza di una sentenza del 1923 della corte internazionale di giustizia, la sentenza del caso Wimbledon, in cui si legge che una delle manifestazioni della sovranità statale consiste nel fatto che uno Stato si possa autolimitare attraverso trattati. Quindi, fino a quando sul territorio - che rimane, piaccia o non piaccia, il riferimento del potere - continua ad esistere un potere istituzionale forte, la sovranità statale esiste; fino a quando esso non viene sostituita da un altro potere, il semplice fatto di autolimitarsi non significa scomparsa della sovranità.Si potrebbe ipotizzare che la sovranità statale venga superata dal ricorso alle forme di intervento collegate all'ingerenza umanitaria; ma in questi casi, a parte il fatto che sullo sfondo ci sono la dichiarazione delle Nazioni Unite e l'Atto finale di Helsinki, c'è un richiamo insistente al permanere della sovranità territoriale dei singoli Stati; esiste quindi una vistosa contraddizione tra un principio che in sede internazionale si è continuato anche in tempi recentissimi a ribadire, quello dell'autosufficienza dello Stato nell'ambito del suo territorio, che pone precisi limiti all'ingerenza altrui, e il principio, che si affaccia sempre più di frequente all'orizzonte, della giustificabilità degli interventi internazionali umanitari. Ma attenzione: al di là del rilievo che la questione ha assunto di recente con, la guerra di distruzione condotta contro la federazione jugoslava, dobbiamo avere ben presente che l'ingerenza umanitaria non è una scoperta di questi giorni, perché quando nel 1985 il trattato di Berlino previde ad esempio la limitazione della schiavitù, con il divieto del commercio di schiavi e con meccanismi sanzionatori da esercitare sugli Stati che non lo avessero rispettato, sebbene il termine non fosse usato, ci trovavamo già di fronte ad un caso di ingerenza nella sfera della sovranità altrui. E anche la convenzione dell'Aia del 1907 per la protezione dei civili fra Stati belligeranti e la convenzione per la protezione degli stranieri e delle minoranze sottoscritta dopo il primo conflitto mondiale contenevano clausole di questo genere. La Carta delle Nazioni Unite, la dichiarazione del 1949 e tutti gli strumenti diplomatici per la prevenzione dei diritti dell'uomo contengono già in germe questo tipo di atteggiamento, che trova definitiva sanzione con la dichiarazione di Helsinski. Il modo per arrivare a una forma di tutela quando non siano rispettati i diritti dell'uomo è quindi da tempo oggetto di discussione. E qui i casi sono due: o esiste una convenzione che gli Stati accettano, per cui c'è uno strumento di garanzia internazionale, c'è un tribunale internazionale che effettivamente può intervenire, oppure c'è qualcuno che dice: "Io mi faccio interprete della comunità internazionale, visto che storicamente le Nazioni Unite non sono in grado di intervenire". Questo è il vero dilemma: cioè, o esiste uno strumento giuridico - che, piaccia o non piaccia, è uno strumento di tipo convenzionale che deve essere accettato da tutte le parti in causa, oppure, se quest'accettazione non c'è, e soprattutto se chi è in grado di imporre la propria volontà all'insieme degli Stati o desiste o non partecipa, arriviamo a situazioni in cui un soggetto che ha la forza di intervenire si autoproclama interprete della comunità internazionale, infischiandosi delle norme internazionali. Che lo faccia a fine di bene è tutto da vedere; però il problema è che possiede la forza che gli permette di arrogarsi il ruolo di interprete del bene comune. E quindi ritorniamo al problema del tasso di organizzazione della comunità internazionale, al problema della legittimazione del potere internazionale, del chi legittima la decisione, perché alla fine, se non c'è un consenso generalizzato - e questo non ci può essere perché non esiste in ambito internazionale un potere organico come noi siamo abituati a pensarlo per gli Stati nazionali - alla fine si decentra inevitabilmente a chi ha il potere più forte la decisione sull'intervento nei confronti di altri soggetti: quindi chi può farlo si autogiustifica.Rimaniamo dunque, temo, in una situazione contraddittoria. Sui fini del mantenimento o dell'assicurazione della giustizia e della pace nelle varie nazioni, penso che nessuno dissenta. Sulle modalità per raggiungerli, o si arriva ad una forma di consenso generalizzata oppure si continuerà ad andare alla ricerca del decisore ultimo; e stabilire se il decisore ultimo poi faccia bene o faccia male, comporta un giudizio di tipo più etico che giuridico.ALESSANDRO COLOMBOVorrei porre una domanda a Cacciari riguardo alla diversità di prospettiva storica tra quanto ha detto sul rapporto fra tecnica e cultura e quanto ho detto io in sede di relazione. La mia prospettiva è quella di un politologo, che si occupa di questi temi prendendo in considerazione tempi storici definiti. Cacciari ha detto: esiste un rapporto essenziale tra tecnica e cultura. Su questo, non c'è dubbio. Ha detto poi, parlando di altre aree, che questo rapporto è oggi parte essenziale della cultura occidentale; anzi, è tutto quello che la cultura occidentale propone agli altri, è, parlando dell'Arabia Saudita, ha sostenuto che l'occidentalizzazione oggi consiste essenzialmente proprio nell'importazione della tecnica, della cultura che è inscritta nella tecnica, e soprattutto nell'importazione della separazione tra tecnica da un lato, potere politico e sapere religioso dall'altro.La domanda che vorrei porre è: ammesso che questo sia l'essenziale, abbiamo ancora spazio per parlare di tutto ciò che sta sotto l'essenziale, oppure no? In altre parole: sarà pur vero che questo è il dato essenziale dell'importazione della cultura occidentale in altre aree del mondo, ma è altrettanto vero che al di sotto di questa occidentalizzazione essenziale, esistono, nel rapporto tra l'Occidente e le altre civiltà, tensioni su tutto ciò che forse dal legittimo punto di vista di Cacciari non è essenziale, ma riguarda comunque temi non certo secondari come il diritto, le forme politiche, i regimi politici e - uso con un certo imbarazzo questa parola, abusata, ma che identifica un problema rilevante - i diritti umani. Forse, sul piano di ciò che Cacciari giudica essenziale, dieci, cinquanta o cento anni non hanno alcun significato, ma subito al di sotto dell'essenziale ne hanno molto, e tra l'altro in questi margini temporali si muovono le interpretazioni storiche e politologiche degli eveni umani.Fatta questa premessa, ritorno all'esempio che è stato fatto, perché se è vero che nell'Arabia Saudita - di cui non sono un esperto - c'è stata l'importazione della tecnica e, di conseguenza di quella separazione fra sfere della realtà di cui abbiamo parlato, non credo che ciò abbia significato soltanto da un lato l'importazione della tecnica e dall'altra il mantenimento del velo islamico. Ha significato anche un'altra cosa, che sul piano dell'essenziale può avere poco significato ma nella storia è significativo, e cioè che la tecnica in Arabia Saudita non ha funzionato, che le resistenze culturali hanno fatto sì che il sistema economico, politico e sociale del paese abbia vissuto e continui a vivere di rendite petrolifere, che al di fuori di esse, e malgrado esse, non sia stato in grado di produrre nulla e che l'equilibrio politico-sociale dell'Arabia Saudita, come in tutti i paesi del Golfo, sia stato salvato negli scorsi mesi dalla crescita repentina del prezzo del petrolio quando tutti gli osservatori li davano per moribondi, e per certi versi lo erano davvero.Voglio poi fare un rilievo in merito alla prevalenza della tecnica come nuovo valore fondante. Finché ragioniamo in termini di spazi separati, come mi pare abbiamo fatto fin adesso, se insomma distinguiamo lo spazio della cosiddetta cultura occidentale da quelli della cultura islamica e delle altre culture esistenti, il discorso appare sin troppo nitido e possiamo rappresentarci il mondo su una specie di tabellone, in cui le civiltà appaiono anche visivamente distinte. Ma se ci mettiamo sul piano della sovrapposizione delle culture - caso tipico, e dunque più facile da esaminare, quello dei valori che sono condivisi dalle nuove comunità di emigrati/immigrati, le cose cambiano.Prendiamo in considerazione l'aspetto sociale della questione, perché è un problema reale di cui oggi si discute molto. Nel momento in cui abbiamo, ad esempio, una comunità islamica collocata in una città o in una periferia italiana, composta di persone aggregate intorno a un certo numero di valori che si portano dietro per tradizione, di cui sono convinti e a cui non vogliono rinunciare, una volta abbandonata l'idea dell'assimilazione da parte di una comunità dominante - tra l'altro l'Italia, per una serie di ragioni storiche, ha un'identità o delle identità culturali più deboli di quelle presenti in altri spazi culturali, per cui la smania di assimilare non è attivabile - si pone un serio problema di convivenza tra aggregati sociali e culturali diversi. I nuovi venuti si aggregano e portano con sé i loro valori nel paese di accoglienza: è un dato di fatto. Alcuni di questi valori sono assolutamente divergenti rispetto ai valori cristiani - preferisco questo termine a quello di valori occidentali, molto più generico - che lì predominano: sono valori legati a una civiltà locale tradizionale (basta pensare al ruolo della donna e a molte altre risapute specificità). Da questo punto di vista, si crea una situazione conflittuale che si può risolvere unicamente in sede politica: se il legislatore è oculato, se gli amministratori locali soprattutto sanno svolgere il loro compito, una parte di queste differenze si può pacificamente appianare; un'altra parte, però, rimane e rimarrà. Come si può risolvere, a questo livello, il conflitto fra culture?Se dovessimo ragionare con la logica della nostra Corte Costituzionale, dovremmo dire che, piaccia o non piaccia, certi valori considerati predominanti del nostro ordinamento costituzionale sono irrinunciabili (cioè non sono modificabili in nessun modo e le comunità di immigrati dovrebbero adattarvisi, accettarli). Ma questa soluzione di principio si scontra di continuo con obiezioni ed eccezioni pratiche: si pensi al problema delle mutilazioni femminili, a quello dell'immigrato che va all'Usl e dice: "Voglio che la mia famiglia sia trattata in un modo conforme alle mie tradizioni, non accetto le vostre imposizioni", al rifiuto delle donne di religione islamica di farsi fotografare per i documenti personali a viso scoperto, eccetera. Quale esigenza prevale in questi casi? Quella astratta universalistica o quella concreta particolaristica? Se dovessimo ragionare come la Corte Costituzionale, la risposta sarebbe: "I comportamenti che derivano dalle tue tradizioni qui non sono ammessi: quindi o li tieni a casa tua di nascosto oppure te ne vai essenzialmente; ma qualunque soluzione tu scelga, non voglio saperlo". E così, il conflitto permarrebbe. Mi domando allora se, al di là della teorica superiorità del valore tecnologico sugli altri valori, non riemergano di continuo sul piano pratico molti vecchi valori locali, che in certi casi, grazie ai fenomeni migratori di massa, si espandono al di fuori dell'area di origine. E quali conseguenze questo processo abbia.MASSIMO CACCIARI Non intendevo negare che questo processo è contraddittorio, né sostenere che si concluderà necessariamente in modo trionfale. Non c'era nessun determinismo nel mio discorso; volevo sottolineare che siamo di fronte a una trasformazione epocale, situata all'interno di una forte continuità della tradizione del nostro linguaggio ma certamente epocale, perché quando i rapporti tra la sfera economico-tecnica e la sfera politico-culturale si rovesciano, lì c'è una trasformazione epocale. Laddove la nostra cultura, oggi, ritiene che il vero valore sia il progresso tecnico, questa convinzione si traduce nei fatti, nei nostri comportamenti quotidiani, nel modo in cui ci esprimiamo. È una trasformazione che, per quanto annunciata, prevedibile, immanente in certe nostre tradizioni, oggi si manifesta con una compiutezza e con una radicalità che fino a pochi decenni fa non sarebbero state immaginabili. Questo non significa che il processo si svolge senza contraddizioni; anzi, ne determinerà probabilmente di nuove, ne sta determinando di nuove; non c'è dubbio. Perché contraddice altre grandi tradizioni culturali e religiose, in particolare quella islamica. La contraddice nei fondamenti. Ci sono degli intellettuali, c'è un'intellighencija islamica (c'è in particolare in Marocco, nei paesi del Maghreb), che si è sforzata di pensare ad una modernizzazione specifica dei propri paesi, che non fosse occidentalizzazione. Il loro dilemma è da decenni questo: è possibile una modernizzazione che non sia occidentalizzazione? Perché se la modernizzazione diventa occidentalizzazione, noi siamo spacciati, assumiamo il ruolo degli intellettuali traditori. Il desiderio di sfuggire a questo destino ha determinato una grande rinascita culturale: in certe università marocchine, algerine, egiziane, si parlava molto tempo fa di un rinascimento averroista, di una ragione araba, di una tradizione rinnovata. Ma tutti questi tentativi, per quanto ne so, per quanto sono riuscito a seguirli, non hanno prodotto praticamente alcunché. Si è affermato invece, per reazione, quello che noi in Occidente chiamiamo "fondamentalismo", che poi è il rifiuto di quel tipico aspetto relativistico in cui si risolve paradossalmente il nostro universalismo quando affrontiamo i problemi culturali o religiosi: tutto è relativo, il fondo della verità non esiste da nessuna parte, c'è solo l'assenza di verità che è l'affermazione più prepotente di verità: una forma di teologia negativa assolutamente imperialistica.Questo contraddice alla radice l'Islam in tutte le sue definizioni. Questo modo in cui l'Occidente si presenta nei confronti dell'Islam contraddice tutti i suoi possibili linguaggi, perché è assolutamente inconcepibile, all'interno delle pur molteplici tradizioni islamiche, la possibilità di un universalismo relativistico. Ed è impossibile anche per gli intellettuali islamici modernizzanti e non occidentalizzanti, ed era piuttosto patetico il tentativo di fondare culturalmente questo tentativo su alcuni aspetti della filosofia e della scienza araba medioevale. Averroè, nei paesi islamici, è completamente ignorato; la tradizione filosofico-scientifica non esiste culturalmente.Da questo punto di vista, il discorso si potrebbe allargare e approfondire, ma non c'è dubbio che qui vi è una contraddizione; Cioè non vi è alcun dubbio che la tendenza di fondo, anche nei paesi che esprimono culture diverse da quella occidentale, sia quella del dominio della tecnica nel senso che ricordavo. Non è necessario che questo dominio si affermi come occidentalizzazione nel senso politico del termine, ma è necessario che si affermi come modernizzazione. Ma la modernizzazione può non essere occidentalizzazione? È questo il punto!Cioè, se io dovessi ricavare da tutti i libri che ho letto sull'argomento, che cosa intendono i diversi autori per questa necessaria modernizzazione, altrimenti sarà impossibile affrontare le sfide del prossimo secolo, del prossimo millennio, eccetera, io li trovo uno che è necessario che vi sia in tutti i paesi assenza di posizioni fondamentalistiche integralistiche, e infatti, e va a capire cosa sono (cioè, dov'è il limite, dov'è il confine).Quello che dice: "Io, il mio testo a cui io faccio costantemente riferimento è la verità", quello è un fondamentalista, un integralista?Quello contraddice un processo di possibile modernizzazione?Primo aspetto, e poi via.Fede nel progresso, perché questo è la base prima, perché se io non credo che la tecnica fondamentalmente sia lo strumento, tra virgolette (perché ormai non è più uno strumento), indispensabile per affrontare e risolvere i nostri problemi, io non posso modernizzare un accidente di niente perché la modernizzazione è essenzialmente sgomberare tutti gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo della tecnica che è una invenzione assolutamente occidentale, nel senso che ne vediamo questo, i cinesi con la polvere da sparo, la tecnica non è la polvere da sparo o questo o quello strumento (è una idea del mondo che è tipicamente occidentale).Poi trovo atteggiamenti pragmatico-razionalistici, c'è una razionalità allo scopo sennò come faccio a modernizzare? Quindi, quando negli autori ti dicono belli, tolleranti, eccetera, ti dicono: "No, per carità, la globalizzazione come occidentalizzazione? Ma scherziamo?.Noi di idee, cioè, certo, processi di modernizzazione, così tutti staranno meglio, così ci saranno più industrie in Arabia Saudita, finalmente non avranno solamente il petrolio, potranno fare anche delle caramelle, dei cioccolatini, magari li diamo un po' di nostre industrie spazzature che a noi ci danno fastidio e le trasferiamo là, neanche quello sono riusciti a fare nei paesi arabi in modo efficace.Allora, modernizzazione: ma la modernizzazione, ma come fa la modernizzazione a non essere occidentalizzazione? Ma il nome stesso: moderno!Ma i nomadi, da cui siamo parlati prima ancora dell'area tecnica, moderno viene da modus che vuol dire ora.Quindi, il valore della modernità significa il valore della attualità.Ciò che oggi facciamo, ciò che oggi costruiamo, cioè l'oggi ha in sé un valore (questo significa il nome moderno), che l'oggi ha in sé un valore che le tue capacità costruttive e analitiche, hanno oggi un valore.Ma questo contraddice nel nome stesso, ad esempio, l'Islam, nel nome stesso!Cioè, l'Islam non può essere moderno nel senso che noi intendiamo assegnando al termine moderno - come ormai da qualche secolo facciamo - un valore al nome stesso moderno.E quindi, come andrà a finire? Andrà a finire o con grandi conflitti o con il dominio della modernizzazione con occidentalizzazione. È pacifico che andrà a finire così! Bisognerà vedere se questo dominio si attua con sanguinosi conflitti o con una serie di microconflitti locali, con decine e centinaia di Kossovo, Afghanistan, Algeria, eccetera, eccetera. Questo bisognerà vedere. Oppure una rivoluzione culturale, ma neanche, una conversione delle nostre menti occidentali che pensi davvero alla pluralità, davvero come legge del mondo. Alla pluralità davvero, non alla pluralità come l'abbiamo pensata noi. Non alla pluralità che, appunto, è una serie di linguaggi sott'ordinati rispetto al logos dei desti che tollera il balbettio barbaro dell'infante.È questo! Allora, o c'è una conversione nostra, oppure ci sarà il disgregarsi, ad un certo momento, per contraddizioni interne, enormi di questo processo di globalizzazione, oppure ci sarà la sua affermazione, ma non contiamoci balle. La sua affermazione sarà modernizzazione con occidentalizzazione perché non si può fare alcuna differenza di principio tra i due temi.Però, c'è un modo, cioè volevo dire l'impero romano non è l'esempio giusto per tanti motivi, tra l'altro perché c'era l'imperatore, anche un sacerdote, quindi, c'era un po' di confusione tra le due dimensioni che…Però, nell'impero romano, c'erano i cristiani. Per qualche secolo, c'erano i cristiani (c'era l'impero romano) … Quando c'erano i cristiani a confronto dell'impero romano?Mica dicevano: "Viva il locale", mica si mettevano a fare questioncelle riscoprendo questo o quella dimensione locale che pure erano massacrati dai romani - era un certo pensiero unico pure quello (tollerante, accogliente). Anche lì, bastava l'accettazione di certi valori essenziali (dopodiché, tu potevi adorare Iside, quell'altro poteva) … larghissima autonomia. Tu dovevi accettare i valore della religio civilis romana (quelli dovevi accettare), esattamente come adesso devi accettare la religione americana, lum.La metafora è molto semplice: allora, i cristiani non si sono dispersi nell'inseguire queste contestazioni locali, che pure erano numerosissime, anzi se ne immediatamente differenziati da quella fondamentale, da cui il condimento vedrai…Sono stati più globalisti dei romani. Questa è stata la loro mossa vincente. Una globalizzazione che ha fatto totalmente delirare la globalizzazione romana.TARCHI Marco Non vorrei che, partiti da un realismo molto forte e che richiamava, come dire, dal mondo degli universali alla concreta esposizione dei rapporti di forza, eccetera, eccetera, finissimo per rappresentare gli orizzonti prossimi venturi della storia come tutti dominati dall'idea della storia, dalla filosofia della storia e dalla metafisica della storia e non dalla concretezza di tutto ciò che sta nelle pieghe della realtà.Sì, non voglio entrare in materia in cui sono, come dire, minimo nelle mie condizioni rispetto agli interlocutori, però, se entrano certi germi di disgregazione o di versa aggregazione, eccetera, nell'impero romano o si potrebbero fare altri esempi, questo non è soltanto, ovviamente, un conflitto di valori o di principi. È anche la possibilità di far entrare in contraddizioni fattuali dei meccanismi che poi le allargano, le portano su un altro piano.Ora, questo c'è anche nella realtà contemporanea. Cioè, la contemplazione del dominio della tecnica o la negazione astratta a dominio della tecnica, come dire, si possono equivalere su un piano incorporeo e poi nei fatti, può invece esserci un rapporto di netto dominio della prima visione rispetto all'altra. Tuttavia, ci sono gli interstizi e gli interstizi e sono le anomie, le sofferenze, le reazioni, le irriducibilità, eccetera, eccetera.Qualche anno fa, per esempio, molti dubitavano - si potrebbe dire hanno avuto torto - della inequivocabile vocazione al dominio dell'idea di progresso. Anni '80, nasce tutta una tendenza, non solo di pensiero, ma anche di movimento, alla scoperta dell'altra faccia del progresso, ecologismo, mettere il dito sulla piaga, ma forse conviene arrestare lo sviluppo, ripensarlo, eccetera, eccetera.Oggi, effettivamente, sembra che sia stato un microscopico episodio durato lo spazio di un mattino che poi in fondo, dopo, così, queste increspature delle onde, ha rivisto tornare la tranquillità. Però, esistono segnali ripetuti che ci dimostrano che ci possono essere delle controindicazioni in questo senso. Quindi, non sono solo tensioni esterne verso i mondi altri, ma anche elementi di creazione, diciamo, di fessure interno a questo apparentemente monolitico apparato, anche di controllo mentale sotto il quale viviamo nell'orbito occidentale. E da questo punto di vista, non voglio lanciare, diciamo, ingenue speranze.Dico che la cosa è forse più complicata ancora di come ci sembra, e d'altro canto - giustissimo tutto quello che è stato detto sul concetto di modernizzazione e sul suo declino con occidentalizzazione - però, un altro concetto ancora più ambiguo e che prima poi, non volendolo forse l'ho utilizzato (cioè, quello di sviluppo), si collega a maniera un po' di fede diversa all'occidentalizzazione.Si può dire la polvere da sparo non era la tecnica, perfetto (tuttavia, la civiltà sinica, come la definisce Huntington, o quella giapponese che non sa bene, secondo me, Huntington, come definire, o almeno non capisco come poi arrivi effettivamente a definirla, però la definisce come qualcosa a sé stante), hanno mostrato processi che noi, dal nostro punto di vista, potremmo definire di sviluppo che non sono interamente tributari del paradigma dei valori occidentali. Forse non sono nemmeno nell'esatto posto, quindi, è giusto non metterli sullo stesso piano dell'Islam, però sono qualcosa di diverso.Ciò pone - questa è una domanda su cui chiudo - questo tipo di alternative come, come dire, potenzialmente e altrettanto velenosamente esportabili come falsi universalismi o le pone, invece, come via di scoperta di una pluralità del mondo? Questo, secondo me, non lo sappiamo e dobbiamo tenerne conto.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Sabato 27 Luglio 2002




    Tarchi sulle civiltà



    LE CIVILTÀ E IL "PENSIERO UNICO"

    Marco Tarchi


    Discutere il rapporto esistente fra lo scenario dello "scontro di civiltà" tracciato da Samuel P. Huntington nel suo ormai celebre libro e la prospettiva della progressiva diffusione di un "pensiero unico" egemone su scala planetaria, agitata da un consistente numero di osservatori della realtà politico-culturale contemporanea, non è agevole. A prima vista, parrebbe esservi tra queste due ipotesi una reciproca esclusione: l’idea che la difesa o la volontà di affermazione dei principi culturali che sostanziano i diversi "grandi spazi" oggi esistenti nel mondo stia per aprire un’epoca di forte conflittualità, anche militare o comunque segnata da ricorrenti manifestazioni di violenza, lungo le "linee di faglia" che dividono l’una dall’altra le diverse aree di civiltà contrasta infatti radicalmente con la convinzione che una di queste aree – l’Occidente euroatlantico – stia imponendo la propria way of life a tutte le altre attraverso un processo di dominio che non punta in primo luogo sulla forza delle armi ma sulle capacità di manipolazione degli apparati comunicativi e sugli effetti di trascinamento del potere (e/o del successo) economico. Ma se guardiamo più a fondo ai riscontri che la realtà offre all’una e all’altra delle due tesi, il panorama non ci appare così nettamente delineato: l’accumulo di tensioni e discordie paventato dall’una si accompagna alla moltiplicazione di influssi omologanti denunciata dall’altra. E in più di un paese le due dinamiche si intrecciano e si sovrappongono: basti prendere ad esempio il contemporaneo manifestarsi, in seno all’area islamica, di tendenze secolarizzanti importante per imitazione dall’Occidente e reazioni religiose di segno fondamentalista, dichiaratamente antioccidentali. Non è dunque affatto scontato che questo duplice processo sia destinato, nel breve periodo, ad incanalarsi con una decisa svolta lungo un’unica direttrice; per questo, l’interpretazione predittiva proposta da Huntington e quella su cui insiste, ad esempio, un Serge Latouche devono essere continuamente poste a confronto, verificandone l’aderenza ai fatti.

    Per capire se e in quale misura queste due proposte di interpretazione delle odierne dinamiche di sviluppo del quadro internazionale si contrappongano radicalmente oppure si prestino a interpenetrazioni o mediazioni, occorrerebbe che entrambe si fondassero su concetti univoci e ben delineati; ma così certamente non è. Che lo status scientifico del concetto di "pensiero unico" sia quantomeno incerto, stanno a dimostrarlo l’uso prevalentemente polemico e giornalistico che se ne fa abitualmente e i frequenti equivoci sul significato che esso assume in contesti diversi: si ha l’impressione che il suo contenuto dipenda, di volta in volta, dalle intenzioni di chi lo utilizza; il che rende molto difficile farne oggetto di una riflessione che abbia una fondata pretese di scientificità. Ma anche il concetto di civiltà, così come si presenta nell’opera di Huntington, suscita perplessità e il suo significato non può certo darsi per scontato. Le civiltà descritte dal politologo statunitense sono dei macroaggregati il cui profilo è molto discutibile, fondato com’è talvolta su fattori di tipo etnico o su connotati linguistici e/o religiosi relativamente omogenei, talvolta sul perdurare nel tempo di entità statuali collocate all’interno di contesti culturali complessi, in altri casi ancora su criteri di prossimità geopolitica; sono cioè aggregazioni in parte basate su realtà di fatto, in parte costruite a partire da estrapolazioni logiche e scenari futuribili la cui coerenza interna rimane in larga misura da dimostrare. Se non se ne accetta in toto la definizione proposta da Huntington, la nozione di civiltà si presta a una pluralità di interpretazioni, la prima delle quali chiama in causa l’esistenza nel mondo di una pluralità di culture, attorno alle quali si sono venuti elaborando – e dissolvendo – un ampio numero di modelli di organizzazione della convivenza civile, spesso in diretta concorrenza l’uno con gli altri. Ed è proprio contro la prevalenza a livello planetario di uno ed uno solo di questi modelli, quello della cosiddetta "civiltà occidentale", che si appuntano gli strali dei critici del "pensiero unico", ostili all’idea che, sulla scia della superiorità sia strategico-militare che tecnologica dell’Occidente e della potenza che meglio lo rappresenta – gli Stati Uniti d’America – possa propagarsi un gergo ideologico-politico considerato valido per tutti i paesi del globo.

    Per capire quali riscontri tale timore possa avere nella realtà empirica, occorre accertare le diverse valenze dell’espressione "pensiero unico". L’impresa è ardua, dal momento che non esistono sinora né un accordo fra gli operatori dell’informazione né ricerche adeguate che decidano una volta per tutte a chi deve essere attribuita la coniazione della formula: in genere si sostiene che essa è nata in Francia, ma mentre molti la fanno risalire al gruppo redazionale di "Le Monde diplomatique" e al suo direttore Ignacio Ramonet (che certamente ha contribuito più d’ogni altro a renderla relativamente popolare), altri ne attribuiscono la paternità a Jean-François Kahn, direttore del periodico repubblicano-sovranista "Marianne", e di recente anche Alain de Benoist ne ha rivendicato la primogenitura al gruppo di intellettuali della cosiddetta Nouvelle droite raccolto attorno alle riviste "Éléments" e "Krisis". È evidente che nell’ottica di ciascuno di questi soggetti o dei molti altri che con l’andar del tempo se ne sono appropriati, l’espressione mostra accentuazioni e sottintesi diversi. Sulla base di una sintetica rassegna dell’uso che ne è stato fatto, si possono comunque identificare tre principali linee di interpretazione dei suoi contenuti. La prima, meno usata perché più esposta delle altre alle critiche del mainstream intellettuale del nostro tempo, assegna al pensiero unico un contenuto principalmente filosofico e lo identifica con la filosofia – o, come spesso si scrive, ideologia – dei diritti umani, cioè con un canone morale di applicazione universale fondato sull’idea che al centro dell’esperienza intersoggettiva, e dunque della vita associata, debba sempre collocarsi l’individuo e non l’una o l’altra delle entità collettive di cui egli fa parte (nazione, popolo, stato, comunità locale ecc.). La seconda, nella quale ci si imbatte più frequentemente, parla di pensiero unico intendendolo come l’insieme delle premesse culturali di un particolare modello di organizzazione socio-economica, quello oggi definito "liberista", legato all’idea di un capitalismo deregolamentato e tecnologicamente avanzato. In questo caso, chi fa uso del concetto di pensiero unico prende di mira prima di tutto la proposta di fare di quel modello l’unico necessario approdo dell’evoluzione di tutte le singole realtà sociali nazionali e la filosofia univoca dello sviluppo universale che la sottende: un’impostazione teorica secondo la quale soltanto l’applicazione dei principii liberisti potrebbe portare – più o meno – allo stesso stadio di sviluppo le varie aree del pianeta. La terza, infine, ha come obiettivo polemico immediato uno stile di vita: quello che è nel contempo causa ed effetto del processo di americanizzazione culturale di un numero sempre crescente di paesi o, per dirla più esattamente con Serge Latouche, di "occidentalizzazione del mondo": quello stile di vita materialistico, edonistico, utilitaristico ed acquisitivo che fa da sfondo alla civiltà dei consumi di marcusiana memoria e la cui adozione, ad avviso di sostenitori e propagandisti, dovrebbe consentire alle varie entità collettive sparse sulla faccia della Terra di dare il meglio di sé e trarne adeguato profitto.

    Se teniamo nel dovuto conto questa pluralità di significati del concetto di "pensiero unico", cercando di sfruttarne positivamente la polivalenza, possiamo affrontare la questione del suo rapporto con il problema dello "scontro delle civiltà" sotto due diversi angoli di visuale. In una prospettiva geopolitica, la nozione appare scarsamente utile per comprendere gli scenari dell’immediato futuro, perché gli studi condotti in questo campo ci disegnano un mondo in via di frammentazione più che di unificazione, anche se entrambe le spinte stanno oggi manifestandosi, come ha opportunamente ricordato Carlo Maria Santoro: un mondo che, dietro la retorica massmediale sulla globalizzazione in atto, appare semmai gerarchicamente ordinato, contraddistinto da intarsi culturali molto frequenti (si pensi all’influenza "occidentale" del comunismo in quella che Huntington chiama "civiltà sinica", messa in evidenza da Ludovico Incisa di Camerana) e dalla presenza di aree – buona parte dell’Asia, innanzitutto – in cui la filosofia universalistica dei diritti dell’uomo non è accettata proprio perché considerata veicolo di espropriazione delle specificità culturali autoctone. Il panorama tuttavia cambia se adottiamo l’approccio della sociologia della cultura. Da questo punto di vista, l’esistenza di una tendenza unificante e ricompositiva del mondo che i geopolitici ci assicurano frammentato è innegabile. E si tratta di una tendenza fortemente espansiva, favorita da buona parte del ceto intellettuale e dalla maggioranza degli attori del circuito informativo internazionale, che mira a proporre all’immaginario collettivo un unico modello "accettabile" e consigliabile di pensiero, di comportamento e spesso anche di organizzazione socio-economica, derubricando gli altri, in maniera esplicita o implicita, a forme più o meno gravemente imperfette o addirittura ad espressioni di barbarie (è il caso delle ricorrenti polemiche contro la possibile esplosione, per contaminazione, di una "infezione" islamica in Occidente). Su questo piano, non è lecito ai cultori onesti delle scienze sociali ignorare che il mondo tende ad evolvere verso la tentazione della ricomposizione, cioè del progressivo livellamento delle diversità giudicate "pericolose" all’interno di un quadro sempre più unitario. Nella mentalità collettiva non si è certamente ancora affermato – al di là della questione della sua effettiva fattibilità – il progetto di un governo mondiale; ma la suggestione di una sostanziale omogeneizzazione culturale, magari temperata dalla coesistenza fra il nucleo centrale fisso del modello e una serie di varianti periferiche locali adattabili ai vari contesti, riscuote crescenti consensi, anche al di fuori dello spazio di civiltà occidentale. Ed è dunque su questo terreno, piuttosto che su quello politico in senso più stretto, che la nozione di pensiero unico mostra effettive capacità di descrivere empiricamente la realtà, piuttosto che di stravolgerla polemicamente a fini prescrittivi e di parte.

    Come è possibile rendere conto di questa duplice dimensione, di apparenza e di sostanza, dei nuovi scenari mondiali, e come se ne possono affrontare le conseguenze? Un’ipotesi, che qui brevemente sperimenterò, consiste nel rappresentare alcuni aspetti cruciali di questa assai complessa questione attraverso il prisma analitico di un conflitto che oggi rende efficacemente conto tanto dei rischi di affermazione di un "pensiero unico" in materia di criteri di organizzazione della vita collettiva quanto del latente pericolo di esplosione di uno "scontro di civiltà" a livello di base, di massa, di vita quotidiana e non di vertici, di élites, di decisioni governative. Questo prisma è quello del contrasto tra monoculturalismo e multiculturalismo, intesi come soluzioni opposte al problema della difficoltà di coesistenza che si va manifestando con crescente intensità in seno alle società a composizione multietnica.

    Prima di inoltrarsi su questa strada, è opportuno sbarazzarsi di un equivoco molto diffuso, chiarendo che multietnicità e multiculturalismo non sono affatto concetti equivalenti. Sono correlati ma nettamente distinti. Le società multietniche sono, oggi, al di là delle aspirazioni e dei timori che suscitano nell’opinione pubblica dei paesi che ne sperimentano il consolidamento, un mero dato di fatto. Sono aggregati che si sono costituiti, o si stanno costituendo, a seguito della convivenza di un consistente numero di individui di matrici etniche diverse – parte dei quali immigrati in epoche diverse e spesso organizzati in gruppi affini – su uno stesso territorio, in genere governato da leggi a suo tempo stabilite dai rappresentanti di un demos etnicamente più omogeneo. Uno dei problemi fondamentali che queste società si trovano ad affrontare è l’adeguamento del sistema di norme e consuetudini che ne ha sin qui ordinato l’esistenza alla situazione creata dalla crescente eterogeneità della popolazione residente. Qui entrano in gioco monoculturalismo e multiculturalismo, che sono invece due opposti principii – e,subordinatamente, criteri – di organizzazione delle differenze culturali che caratterizzano, complicandone inevitabilmente il funzionamento, le società multietniche; o, se si preferisce, due idee alternative dell’ordinamento della vita collettiva nel mondo in cui viviamo e, ancor più, in quello che verrà.

    Il monoculturalismo – termine che non viene quasi mai utilizzato dai suoi sostenitori, per la risonanza assai poco "politicamente corretta", ed è sostituito da espressioni eufemistiche (in Francia si parla ad esempio, con una buona dose di ipocrisia, di model républicain) – prevede ed impone una forte integrazione nelle abitudini indigene degli allogeni che si trasferiscono in un determinato territorio. Il criterio di fondo che regola questa integrazione è l’assimilazione degli immigrati, cioè il progressivo abbandono delle caratteristiche che li differenziavano, al momento dell’ingresso, dal contesto culturale del paese in cui si sono trasferiti, fino ad arrivare ad una spoliazione dell’identità originaria che porti a differenziare i nuovi venuti dai residenti di più lunga data esclusivamente in base a discriminanti di ordine morfologico.

    Un’organizzazione multiculturale delle società multietniche, viceversa, punta su forme di integrazione basate sulla convivenza delle differenze. In questa prospettiva, che ha quale retroterra la valorizzazione del principio di mutuo riconoscimento dei gruppi etnici e l’esaltazione della dignità delle specificità che li distinguono, una volta stabilito ed imposto un livello minimo di accettazione di un nucleo normativo valido per tutti – a tutela dei diritti fondamentali sia della persona che della collettività – il mantenimento dei codici di riferimento alla propria matrice culturale originatia di singoli e gruppi è garantito o addirittura fomentato. Lo scopo che si vuole raggiungere è infatti la formazione di una società di comunità, considerata l’unica formula adeguata per governare il mondo composito causato dalle grandi migrazioni degli ultimi tre decenni del XX secolo e dai molti altri fenomeni connessi, in alternativa alla proposta di ridurlo ad un unico paradigma culturale, occidentalizzandolo, che è sostenuta dai monoculturalisti.

    Lo scontro tra i sostenitori di queste due opposte visioni è stato, ed è, molto duro. I monoculturalisti spesso accusano gli avversari di rifarsi al principio differenzialista che, sostengono, mira a cristallizzare le differenze etnoculturali attraverso la separazione dei processi di socializzazioni interni a ciascuna comunità e quindi a creare una sostanziale incomunicabilità fra i gruppi che coesistono in uno stesso Stato, una versione aggiornata e morbida dell’apartheid. I multiculturalisti replicano che la conservazione delle specifiche tradizioni dei singoli gruppi non solo non impedisce la comunicazione interculturale, ma semmai la stimola, obbligandoli all’accettazione (e quindi alla valorizzazione) della condizione di "alterità" degli interlocutori, e che il differenzialismo può essere agevolmente declinato in forma antirazzista proprio perché evita il forzato riconoscimento della superiorità della cultura dei paesi di accoglienza che è implicito nella richiesta/proposta di assimilazione. Ovviamente, né gli uni né gli altri ignorano o sottovalutano il potenziale di conflittualità che è sempre latente nell’incontro fra individui e popoli formatisi attorno a valori differenti, ed entrambi sanno che non è possibile governarne le periodiche esplosioni unicamente per via repressiva; ma i modi che propongono per ridurre o prevenire la lievitazione delle frizioni tipiche delle società etnicamente complesse sono inconciliabili. Chi denuncia il pericolo dell’avvento di un "pensiero unico" – specialmente nel campo multiculturalista, anche se non mancano eccezioni nel campo di quegli intellettuali souverainistes che, con una palese contraddizione, predicano l’omogeneizzazione culturale degli immigrati ma detestano le invasioni di campo dall’esterno – sottolinea il rischio che l’opera di semplificazione della complessità condotta con il fine dichiarato di comprimerne il potenziale di conflitto venga esercitata attraverso l’imposizione, affidata a strumenti suggestivi come i media più che alle strutture coercitive, di un unico paradigma di riferimento – politico, culturale, socioeconomico, con accentuazioni diverse dell’uno o dell’altro aspetto a seconda dei casi – che standardizza fin dove è possibile il mondo, modellandolo sullo stampo delle società occidentali, e quindi ne appiana le diversità.

    È attorno a questo intento che si scontrano con maggiore animosità le posizioni di chi, da un lato, vede nella diffusione di questo modello unificante universalistico un grave male, foriero di scompensi e ingiustizie, a partire da quelle derivanti da una squilibrata divisione del lavoro fra i paesi del Terzo Mondo sfruttati per la fornitura di materie prime e manodopera a basso costo, e di chi, dall’altro, la reputa invece un male minore o addirittura un bene, come i numerosi intellettuali liberali che lamentano la "troppo scarsa" globalizzazione e sostengono che, liberalizzando senza limiti gli scambi e i mercati e rendendo più penetrabili le frontiere agli investimenti di capitali multinazionali, le aree depresse del pianeta conoscerebbero una fioritura economica senza precedenti.

    Sfrondando la discussione delle forti componenti valutative che la condizionano – e al cui richiamo, tengo a dirlo onestamente, anch’io faccio fatica a sottrarmi –, le due linee che vi si evidenziano possono essere rappresentate come segue. Da una parte si pone chi dà un giudizio favorevole sull’occidentalizzazione del mondo perché pensa che essa sia il veicolo indispensabile per il suo progresso quantitativo e qualitativo e per lo sviluppo delle possibilità di relazioni pacifiche fra gli individui, resi via via sempre più simili e dunque facilitati nelle comunicazioni. Chi ragiona in questo mondo vede nella diversità implicita nel mondo un difetto, che va corretto arginando ogni tentazione di relativismo culturale ed affermando la bontà delle idee universaliste, non più solo sul piano religioso o filosofico, come avviene da secoli, ma anche in altri ambiti, a partire da quello dell’organizzazione socio-economica. Dalla parte opposta si colloca chi è contrario a questo progetto di occidentalizzazione universale, e utilizza volentieri l’espressione "pensiero unico" per criticarla, perché ritiene che essa snaturi la diversità costitutiva del mondo, in cui vede risiedere il fondamento della sua ricchezza e bellezza. I sostenitori di questo punto di vista reputano che questo processo di snaturamento vada combattuto su un piano di principio e sul terreno dei fatti, in quanto esso rende sì tendenzialmente tutti gli uomini "occidentali", ma li assegna a categorie diverse e squilibrate, discriminando fra occidentali "di primo livello" (gli indigeni dei paesi economicamente avanzati), occidentali "residuali" (gli immigrati residenti in Occidente) e occidentali "arretrati" o "immaturi" (gli abitanti dei paesi in via di sviluppo), dal momento che la cancellazione della distanza fra le caratteristiche dettate a ciascun uomo dalle proprie matrici culturali e quelle prescritte dal modello occidentale è un processo faticoso, sempre incompleto e gravido di strascichi negativi. A sostegno delle loro tesi, coloro che avversano l’occidentalizzazione in nome del diritto alla conservazione delle specificità culturali esibiscono i molti studi sociologici che attestano la facilità con cui dallo sradicamento si passa all’anomia, e da questa alla devianza e alla criminalità, e le recente indagini sul campo condotte in quei contesti urbani – come le banlieues di Parigi o di Lione – in cui si sono verificate rivolte a sfondo etnico i cui protagonisti non sono stati gli immigrati di prima generazione, ancora saldamente legati all’identità dei paesi di origine, ma i loro figli e nipoti, nati in terra straniera e cittadini dei paesi di accoglienza ma incapaci sia di trovare referenti nella cultura dei padri, sia di integrarsi pienamente in quella del contesto in cui sono cresciuti, subendo l’influenza incrociata delle famiglie e dell’ambiente esterno, scolastico, di lavoro e del tempo libero.

    Non essendo possibile soppesare schematicamente questi argomenti in concorrenza senza pagare un tributo alle proprie opinioni personali, io qui mi limiterò a formulare alcune osservazioni conclusive sulla questione, che lasciano volutamente aperti gli interrogativi di fondo che questa relazione ha affrontato ed anzi mirano a suggerirne altri all’attenzione degli studiosi.

    Il mio primo rilievo è, in realtà, una messa in guardia contro il cedimento a due visioni utopiche dei processi di trasformazioni che investono gli odierni scenari internazionali. È un’utopia quella che porta a credere nella possibilità di realizzare un mondo integralmente multietnico e multiculturale, un mondo-puzzle nel quale il confronto/scontro fra un massimo di diversità costituirebbe, a detta dei suoi profetti, una preziosa "risorsa". Ma è utopica – e per giunta catastrofica e foriera di conflitti intestini e guerre – anche la visione di coloro che pensano di poter cristallizzare sine die le attuali forme di coesistenza etnoculturale nel mondo o addirittura di ricostruire contesti etnicamente e culturalmente omogenei all’interno delle frontiere degli Stati nazionali. Il rischio della prima posizione è quello di stimolare una incosciente fuga in avanti in nome di un’ideologia cosmopolita che è solo il surrogato del grande credo internazionalista fallito con la bancarotta dei regimi del "socialismo reale". Il rischio della seconda è quello di alimentare la xenofobia, che è una forma disperata di non-accettazione di alcuni dati fondamentali dell’odierna realtà, una reazione umorale che non rimuove i problemi che denuncia ed ignora il fatto che alcuni aspetti del processo di globalizzazione in atto non sono revocabili né tantomeno reversibili.

    Un secondo rilievo riguarda la possibilità di descrivere la globalizzazione, in sé, come diffusione su scala planetaria di un "pensiero unico". Come ho già detto, sotto il profilo culturale l’emersione di forti tendenze omologanti è innegabile. La progressiva diffusione di strumenti tecnologici che permettono una comunicazione senza confini e istantanea porterà ad esempio ad intensificare le richieste di utilizzare una sola lingua veicolare per comunicare, e questa lingua sarà necessariamente quella tipicamente occidentale, l’inglese. A meno di catastrofi belliche che separino in maniera rigorosa i grandi spazi, la veicolarità della lingua parlata dagli abitanti della superpotenza mondiale molto probabilmente si imporrà. E con essa, per effetto di trascinamento, si espanderà l’influenza dei riferimenti di valore della cultura che l’ha ideata e la esprime. Non è detto che questa innovazione costituirà, come taluni paventano, l’avvio di un processo di omogeneizzazione culturale totale del mondo – anzi, è opportuno rifuggire da pronostici di questo genere, che caricaturalizzano la complessità dei processi che pretenderebbero di analizzare –, ma non si può neppure sottoscrivere l’atteggiamento riduttivo di chi pensa che, in fondo, il nostro pianeta ha attraversato nel corso dei millenni un’infinita sequela di invasioni, conquiste, colonizzazioni senza mai piegarsi al dominio di un’unica civiltà e dunque saprà trovare un assestamento anche questa volta, perché l’intensità tecnologica dei messaggi persuasivi con il cui ausilio oggi viene promossa la globalizzazione e l’entità delle migrazioni di massa da un contesto culturale all’altro sono di proporzioni tali da rendere di scarsa o nessuna utilità le analogie diacroniche. L’imposizione di codici intellettuali e psicologici unificanti – cioè il successo di un progetto di imperialismo culturale – è dunque senza dubbio uno dei possibili scenari dei processi di sviluppo di cui siamo testimoni.

    Un terzo ed ultimo rilievo riguarda la crucialità della scelta che spetta agli intellettuali, individualmente non meno che sotto forma di comunità scientifica internazionale, di fronte all’intensificarsi dei sintomi di una prossima evoluzione in senso monoculturale del pianeta. Si tratta di decidere se considerare la costitutiva diversità che caratterizza il mondo così come lo abbiamo conosciuto e come ci è stato consegnato dalle generazioni che si sono succedute nel tempo alla stregua di un semplice dato di fatto, modificabile secondo le opportunità e le convenienze, oppure assumerla come un valore. Cioè di scegliere fra la prospettiva di un universo declinato al singolare o al plurale (taluni direbbero: fra universo e pluriverso). Dalla risposta che le élites intellettuali daranno a questo quesito dipenderà, fra l’altro, l’avvenire del criterio democratico di organizzazione civile, che pure ha già subito nell’arco di duemilacinquecento anni sostanziali trasformazioni. Un’ulteriore crescita delle dimensioni dell’attuale e già molto ampio meccanismo migratorio segnerebbe infatti, come ha compreso per primo Giovanni Sartori, la potenziale fine del concetto di democrazia così come sino ad oggi lo abbiamo inteso. La possibilità che nel giro di qualche decennio all’interno di alcuni Stati democratici avvenga una radicale mutazione del demos che ha concorso alla formazione e all’applicazione delle regole del gioco politico – che, in altre parole, in seno alla popolazione si formi una maggioranza che pensa ed agisce ispirandosi a criteri culturali non omogenei a quelli dei cittadini originari – mette infatti in crisi lo stretto rapporto che da sempre ha legato la democrazia al pensiero liberale, legato a doppio filo alle radici culturali giudeo-cristiane ed occidentali. Non si tratta più di scenari fantapolitici. In più di un paese, i sommovimenti demografici e migratori hanno messo in discussione la capacità di autogoverno delle popolazioni autoctone rispetto agli allogeni: le turbolenze che hanno condotto alla lacerazione di Stati federali di facciata come la Jugoslavia e l’Urss (si pensi solo ai casi del Kosovo e della Cecenia) stanno a dimostrarlo, ed appaiono solo come le premesse di un fenomeno disgregativo di ben più ampia portata. Sui modi per affrontarlo o contenerlo non si è a tutt’oggi avviata una seria discussione; ma il problema incalza. Stiamo forse avviandoci verso democrazie "a geometria variabile" che contempleranno la possibilità di un autogoverno dei "corpi" etnoculturali interiori, una sorta di microfederalismo diffuso a livello substatuale ovunque non sia più possibile coordinare le esigenze espresse da settori della popolazione fondamentalmente eterogenei?

    Può darsi che questo sia l’orizzonte del nostro futuro. Come è possibile invece che il prevalere di modelli omologanti prevenga simili rischi di frammentazione del quadro politico degli Stati che oggi sperimentano la formazione di veri e propri mosaici etnici all’interno dei propri confini. Comunque vadano le cose, è importante capire che intorno alla scelta fra un’organizzazione singolare o plurale del mondo si gioca una partita le cui conseguenze vanno molto al di là delle polemiche di sapore propagandistico che si sono accese negli ultimi anni a proposito dell’uso della controversa espressione "pensiero unico". Dietro questa etichetta si lascia intravedere il profilo di drammi e tragedie di grande portata, che sarà impossibile evitare se non acquisteremo piena consapevolezza dei problemi che la globalizzazione e l’occidentalizzazione del mondo comportano.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Tarchi sulla globalizzazione



    Da che mondo è mondo, le lotte per il potere si sono combattute (anche) con le armi della dialettica, con le menzogne, con le parole scelte a bella posta per rincuorare gli alleati e spaventare gli avversari, seminare il dubbio in casa d’altri e pavimentare di certezze la propria causa. Chi abbia un briciolo di conoscenza delle norme non sempre scritte della politica non ha dunque, in linea di principio, nessun motivo per scandalizzarsi dei toni aspri, faziosi e spesso falsi che costeggiano, di questi tempi, il cosiddetto dibattito – che tale non è, non essendo alcuno degli intervenienti interessato ad ascoltare i presunti interlocutori – intorno alla globalizzazione. Eppure, anche per l’osservatore più realista è difficile abituarsi al crescente frastuono massmediale sul tema e all’inconsistenza di gran parte delle argomentazioni che ne emergono.
    I toni striduli e gli argomenti fuori misura contraddistinguono entrambi i fronti costituitisi attorno alla questione e pesano sia sulla possibilità di affrontarla con cognizione di causa sia – quel che più conta – di renderne consapevole la larga massa degli spettatori non partecipanti allo scontro.
    Sul movimento del no global, pesa una letale contraddizione: la pretesa di combattere sul terreno meramente economico un fenomeno che nel contempo viene auspicato e magnificato in tutti i suoi aspetti culturali. Chi non capisce che l’immigrazione di massa dai paesi poveri e la pretesa di costruire società multietniche basate sull’assimilazione degli ospiti alla cultura degli Stati ospitanti sono parte integrante – e oggi preponderante – del processo di occidentalizzazione del mondo, ha armi spuntate in partenza. L’intensificazione di una già esagerata industrializzazione, lo sfruttamento di una manodopera scarsamente sindacalizzata e disposta ad accontentarsi di condizioni di vita degradate, l’ulteriore esplosione del consumismo, l’omologazione delle abitudini e dei gusti, e l’aggravamento della catastrofe ecologica che consegue al coniugarsi di tutti questi fenomeni, hanno come motore il trasferimento di “braccia in eccedenza” da zone ad alta natalità e basso reddito. Il rischio del formarsi di un governo mondiale unico, sostenuto e condizionato dalle concentrazioni transnazionali di potere economico, in grado di esercitare selettivamente il ruolo di giudice di colpe e meriti dei singoli Stati e delle popolazioni che li abitano, servendo gli interessi politici, militari, economici, sociali e culturali dei più forti è alimentato da quell’isteria propagandistica sui diritti umani che, in seno alla sinistra più o meno radicale che alimenta o costeggia il “popolo di Seattle”, ha trovato i più fervidi sostenitori. Non ha avuto torto Ernesto Galli della Loggia nel fustigare di recente i tanti contestatori del mercato globale che hanno per stella polare, sia pure in versioni aggiornate e rimaneggiate, l’una o l’altra delle due concezioni del mondo che alla rimozione delle barriere nazionali e culturali si sono maggiormente adoperate, il marxismo e il cristianesimo. I ragazzi con lo zainetto che sono scesi a Genova, a Göteborg, nel Québec, a Seattle, a Davos per gridare la loro rabbia contro la sopraffazione dei potenti sui diseredati, con una mano sostengono la propria causa e con l’altra la indeboliscono: non capiscono che la pretesa di eguaglianza è incompatibile con la difesa delle specificità dei popoli e delle loro culture, né che il “mondo senza frontiere” che reclamano è proprio quello che serve alle multinazionali per spadroneggiare ad ogni latitudine.
    E non c’è solo questo difetto a lasciare scettici sulle capacità di effettiva incidenza delle mobilitazioni di massa suscitate da ogni incontro al vertice dei “Grandi” del pianeta. Cosa si può pensare di un movimento che sfoga sugli obiettivi simbolici della sua protesta gli istinti violenti di qualche frangia estremista ma non sa farli oggetto di un’azione di contenimento efficace? Sfondare le vetrine di un McDonald’s non è segno di impotenza quando non si dispone di una capacità di suggestione sufficiente quantomeno ad invertire – non si pretende certo di disseccarlo dall’oggi al domani – il flusso che porta milioni di coetanei ad invadere ogni giorno i negozi della catena alimentare americana ingurgitando un cibo che “fa tendenza”? Rischiare la vita in scontri con la polizia che difende gli appuntamenti internazionali di politici o banchieri per poi farsi ritrarre, feriti, con ai piedi un paio di Nike, come è accaduto in Svezia, non significa dare un’impressione di confusione mentale e di subordinazione psicologica all’avversario? I contestatori del nuovo ordine mondiale dovrebbero porsi, su questi e molti altri problemi – a partire dalla militarizzazione sceneggiata della propria presenza nei cortei, che di certo non è fatta per rassicurare e convincere gli osservatori indecisi – quesiti seri e risolverli in fretta, se non vogliono appassire nel folklore; ma, date le premesse su cui si è sviluppata la fioritura dei gruppi in cui sono riuniti, è improbabile che lo facciano. Con la conseguenza che un fallimento della loro azione verrà spacciato per una prova di invulnerabilità dell’avversario.
    Se questo è il non esaltante panorama del fronte antiglobalista, dalla parte opposta un osservatore dotato di senso critico trova ancora maggiori motivi per dispiacersi. Perché fra gli entusiasti della prospettiva di un governo mondiale dell’economia e della politica lo strumento di espressione più diffuso è l’ipocrisia, che della retorica è, da sempre, l’ingrediente più indigesto.
    Non ci si può non lamentare, da questo punto di vista, della sostanziale inesistenza di osservatori, centri di ricerca, sedi istituzionali di dibattito in cui gli argomenti a carico e a discarico della globalizzazione possano essere confrontati e soppesati. Per la vastità degli interessi che sono sul tappeto e per l’esigenza dei mezzi d’informazione di rappresentare i temi in discussione secondo lo schema fuorviante ma attraente che mira a porre sempre lo spettatore di fronte alla scelta di collocarsi “o di qua o di là”, gli spazi di riflessione neutri in questa materia non hanno diritto di cittadinanza. Esperti, commentatori, parlatori da talk show sono scelti in ordine all’attribuzione di posizioni precostituite e secondo dosaggi numerici che variano a seconda del colore politico – o, nei casi migliori, delle opinioni sul punto specifico – di testate e programmi.
    In questo modo, il problema della presentazione del fenomeno al pubblico, nei suoi termini più generali, si trasforma in un primo terreno di scontro fazioso. E sì che già di per sé la questione non sarebbe di quelle che si dipanano facilmente. Malgrado il profluvio di studi già editi, il significato da attribuire al termine attorno a cui ruotano le polemiche resta infatti ancora molto vago. Si deve intendere per globalizzazione un dato di fatto già acquisito oppure una tendenza suscettibile di diversi e non ancora chiari sviluppi? È un fenomeno di ordine prevalentemente economico o culturale? È lo scenario indispensabile allo svolgersi delle “leggi di mercato” preconizzate dai fondatori dell’economia liberale classica, oppure è solo il frutto di scelte arbitrarie di alcuni specifici soggetti provvisti di forti quote di potere, politico-militare o economico-finanziario, statale o transnazionale, a sostegno dei propri interessi? Insomma: si tratta di un concetto dai connotati descrittivi, che deve servire a comprendere e spiegare l’eliminazione progressiva degli ostacoli alla circolazione delle merci, dei flussi finanziari, degli esseri umani, delle forme di pensiero, dei modelli di comportamento e degli stili di vita oggi in atto, oppure di una nozione normativa e prescrittiva che, lodando e giustificando in modo incondizionato i processi ora accennati, pretende di indicare la direzione verso la quale l’umanità dovrebbe incamminarsi per raggiungere fulgidi traguardi?
    La differenza non è di poco conto, perché a seconda della prospettiva in cui si sceglie di esaminarla la globalizzazione si presta a considerazioni diverse. E poiché i maggiori canali informativi rinunciano ad una “noiosa” esposizione dei fatti affidata ad esperti di diversa formazione ma uniti da un approccio avalutativo, preferendo la “vivace” diatriba fra intellettuali schierati da una parte o dall’altra, gli argomenti esibiti danno piuttosto l’idea di assomigliare a clave.
    È innegabile che gli esponenti del movimento no global danno spesso la sensazione di disconoscere la complessità del problema e di procedere per slogans; ma il modo di procedere della parte avversaria è davvero più accurato? Ad onta dei mezzi certamente più adeguati messi in campo – scienziati, economisti, intellettuali generalisti, politici di prima fila, giornalisti di nome –, non si direbbe. Gli esponenti del fronte dell’accettazione indulgono alla tentazione di truccare le regole del gioco quando premettono al proprio discorso un fervorino sulla “inevitabilità” della globalizzazione; che può essere più buona per certi versi e meno per altri, ma c’è e non è eliminabile; e neppure, se non marginalmente (qui, a seconda dei casi, la perorazione può oscillare nei toni), correggibile. La versione estrema di questo discorso edificante giunge addirittura a presentarla come “una tappa della storia della specie, un passo inevitabile”, per cui “rifiutarla sarebbe folle, oltre che impossibile”[i].
    Curiosamente, si esprime qui in filigrana quella contraddizione che in precedenza abbiamo constatato nel campo avverso. Molti dei teorizzatori della bontà del pianeta senza spazi chiusi, limiti e frontiere appartengono ad un campo convenzionalmente definibile “di destra”, ma tutte le loro argomentazioni si richiamano a uno schema culturale tipicamente “di sinistra”: il culto del Progresso, filo conduttore di un inarrestabile Senso della storia. Convinta di celebrare il proprio trionfo, la destra globalista si smentisce, abiura radici e storia, dà torto alle cause combattute in passato; si spoglia dei panni conservatori e della prudenza del realismo, proiettandosi con foga incosciente nell’utopia e in quel “costruttivismo” che i liberali alla Hayek e alla Mises tanto detestavano. Ogni parola dei suoi portavoce si abbevera all’idea che la tecnologia e la scienza – manipolazioni genetiche in primo luogo – forgeranno un mondo migliore, più ricco e più giusto, finalmente libero dalla tirannide della natura (alla quale vengono attribuite le responsabilità di ingiustizie in realtà sin troppo umane e quasi sempre legate all’avidità istigata dalle filosofie individualiste). Così facendo, ancora una volta l’arrugginita paratia che divide la destra e la sinistra otto-novecentesche cede e si annulla non in una mistura indistinta, ma in una retorica che distingue comunque vinti e vincitori dei precedenti scontri epocali.
    Il peggio di sé, l’arcipelago globalista lo dà però quando è chiamato a reagire alle tesi che avversa. Se già gli accenti della sua apologetica tendono a oscillare fra il patetico e il ridicolo – il sottotitolo di un recente dossier del “Corriere della Sera” intitolato Il bello della globalizzazione recitava testualmente: “È una rivoluzione che crea anche perdenti. Ma che in tre decenni ha dimezzato la povertà nei Paesi emergenti. E che sta aprendo le porte della crescita a miliardi di persone. Fa paura, soprattutto all’Occidente ricco”. E poi si dice che i toni della propaganda in stile Komintern sono relitti di ere sepolte… –, quelli della critica scadono ulteriormente di livello. In compenso, ne cresce la varietà.
    C’è infatti la tecnica liberale classica, che scivola rapidamente nell’anatema, identificando nella Cosmopoli globalizzata il modello realizzato della “società aperta” e agitando sulle teste chi non l’apprezza lo spettro demonizzante della tentata ricostituzione delle “società chiuse” totalitarie (non senza citarne, in spirito di par condicio, le due versioni classiche: nazista e comunista sovietica. La Cina attende il suo turno, in attesa di vedere dove la condurranno le robuste iniezioni di economia capitalista). In questa lettura, la globalizzazione non è apprezzata in prima battuta per i supposti miracoli economici che attiverà, ma perché indebolirebbe i regimi autoritari (forse sarebbe il caso di aggiungere: quelli che non servono gli interessi del paese-perno del mondo globalizzato, gli Stati Uniti d’America) e porta libertà dove non c’era. In quest’ottica, l’aumento del PIL di un paese è considerato di per sé segno di “benessere” (associato alla libertà da un principio ideologico elevato a teorema scientifico) e dunque di miglioramento delle condizioni di vita dei suoi abitanti. Le preoccupazioni per l’ingiusta distribuzione della ricchezza, per la perdita di sovranità dei governi, per la disgregazione dei patrimoni culturali o per le catastrofi ecologiche indotte dal circuito “virtuoso” della produzione e dell’accumulo di ricchezza sono spazzate via con qualche cenno sprezzante alle ubbìe di chi ancora cocciutamente se la prende con la mercificazione dell’esistenza: roba da secondo millennio, gettata in quella pattumiera della Storia in cui Marx vedeva ormai sul punto di precipitare, un secolo e mezzo fa, lo Stato borghese e il modo di produzione capitalistico…
    Naturalmente, questo schema argomentativo fa a sua volta ricorso alla clausola del determinismo storicistico e progressista, secondo cui, giusto per prendere un esempio, “tornare indietro sarebbe dannoso soprattutto per i poveri del mondo. È la via del tribalismo, del nazionalismo, della miseria” […] Oggi che la tecnologia dei trasporti e delle comunicazioni rende arduo ogni tentativo di isolare un Paese, tornare indietro richiederebbe ancor più repressione e crudeltà che in passato”. L’opposizione all’ideologia globalista viene dunque equiparata a una regressione reazionaria, ad una volontà di isolamento, alla chiusura di ogni frontiera, caricaturalizzando le idee di chi dissente dal Verbo. L’idea che il mondo a venire possa essere ordinato, invece che attorno a un’unica polarità egemonizzata da un’unica superpotenza, per grandi spazi continentali comunicanti ma sovrani e autosufficienti, non viene neppure presa in considerazione. Gli anacronismi diventano strumenti dialettici di annientamento del dissenso: “Non si può ignorare che la questione sociale fu aggravata, non risolta, con la soppressione del mercato e la chiusura delle frontiere”. L’intenzione di imporre un’egemonia planetaria politicamente e geograficamente connotata viene coperta dal velo di un eufemismo polemico: “[non si può ignorare] che il terzomondismo inteso come ideologia alternativa abbia portato tirannia, disuguaglianza e povertà”[ii].
    Una seconda versione, più “socialdemocratica”, ammette che la globalizzazione non è tutta rose e fiori ma si sforza di minimizzarne le ricadute negative, raggiungendo vette ineguagliabili di quell’ipocrisia cui abbiamo fatto cenno. I versanti argomentativi prediletti in questo caso sono due.
    Uno, più schiettamente economico, punta sul fatto che la liberalizzazione totale dei mercati creerà ricchezza nei paesi oggi svantaggiati per una automatica applicazione delle leggi elementari della concorrenza: offrendo quei paesi manodopera a prezzi (molto) più bassi, la produzione vi si orienterà in proporzioni crescenti, delocalizzando stabilimenti e, in certi casi, uffici. Le multinazionali si trasformeranno dunque da sfruttatrici in benefattrici. Il difetto di una ricetta di questo genere è che passa sotto silenzio le controindicazioni del farmaco. Solo per citarne alcune: a) la regola che spinge i paesi in cui cresce la ricchezza ad innescare una crescita dei consumi e dunque dei salari, rendendo in breve tempo più conveniente ai detentori di capitali l’investimento in zone più depresse e di minori pretese ed innescando quindi trasferimenti dei cicli produttivi; b) la sproporzione della crescita indotta dagli investimenti, che, gonfiando i profitti delle imprese occidentali, aumenta, anziché ridurlo, il divario fra i paesi che dispongono dei capitali e quelli che forniscono la forza-lavoro; c) il dominio del capitale finanziario virtuale, trasferibile in tempo reale, su quello reale legato alla produzione, al territorio e a tempi più lenti, che può riaggiustare in un attimo i processi di redistribuzione planetaria della ricchezza attraverso manovre speculative, come è accaduto nel caso dei paesi del Sud-Est asiatico, che avevano alzato troppo le pretese; d) la necessità dei colossi economici occidentali di garantirsi pace sociale e condizioni politiche favorevoli nei paesi d’origine, mantenendo quantomeno invariato il divario di ricchezza e livelli di consumo nei confronti dei paesi deboli del Terzo Mondo, la cui povertà è l’unica garanzia di poter usufruire di duraturi serbatoi di manodopera a prezzi irrisori.
    La seconda via dialettica privilegiata da questi ambienti chiama in causa fattori più direttamente culturali. Appartengono a questo filone i discorsi più rozzi ed elementari – ma proprio per questo, ohinoi, efficaci a livello di massa – che pretendono di liquidare l’accusa di omologazione degli stili di vita ricordando che nei McDonald’s giapponesi le polpette di carne si mangiano con salsa sushi e nelle Filippine con un condimento molto più piccante, o che le soap operas che vanno per la maggiore in Europa non sono solo made in Usa ma anche messicane, australiane o persino di produzione autarchica, quasi che sia l’origine geografica e non la stereotipia dei modi di pensare o di comportarsi a definire il carattere seriale di queste espressioni della cultura. Ma anche argomentazioni più raffinate. Molte di esse mirano a spacciare per difesa delle diversità quei processi di omologazione che coinvolgono gli immigrati nelle società occidentali, diffondendo la convinzione che si può restare fedeli alle proprie radici pur coniugandole con gli usi delle società di accoglienza. In questo modo, il sistema di dominio legato all’espansione imperialistica dello stile di vita occidentale americanomorfo viene camuffato e edulcorato. Si citano ad esempio la “Nike-babbuccia, metà scarpa da tennis e metà ciabatta araba” che l’industria di articoli sportivi statunitense assurta al ruolo di icona cosmopolita ha immesso sul mercato “essendosi accorta che i giovani arabi tagliavano le scarpe da tennis nella parte del tallone per toglierle comodamente entrando in moschea”, oppure “una strana bambola Barbie bionda con gli occhi azzurri che però balla la danza del ventre al suono di una melodia di musica araba”. Queste banali ma efficacissime forme di sradicamento culturale vengono presentate, con uno stravolgimento radicale dei fatti, come fecondi esempi di contaminazione prodotti dalla libertà di circolazione, modelli di integrazione “societaria” da opporre all’oscurantista preservazione “comunitaria” dei caratteri formativi di una popolazione, finendo addirittura col sostenere che “il mercato e il consumo, con la loro indifferenza, sono più avanti nel produrre inclusione e accettazione delle diversità (sic!) di quanto lo siano le nostre società”[iii].
    Nessun traguardo sembra precluso a questa strategia di eufemizzazione dei guasti che l’applicazione di un’ideologia cosmopolita ai processi di transnazionalizzazione oggi in atto sta provocando. Siamo arrivati al punto che il presidente e amministratore delegato di McDonald’s può rivendicare senza vergogna alla sua compagnia quella democraticità che l’Unione europea faticosamente si sforza di acquisire e di cui i bersagli istituzionali del “popolo di Seattle” – G-8, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio, Banca mondiale – sono privi. I 175 milioni di persone che “hanno frequentato McDonald’s in tutto il mondo durante i quattro giorni di protesta a Seattle nel 1999 contro la Wto” possono essere invocati a testimoni di una “correttezza politica” che si illustra anche nei modi più impensabili. Queste megastrutture devastano il tessuto connettivo delle attività economiche locali? Ma quando mai! “Noi offriamo dovunque un’opportunità agli imprenditori di gestire un esercizio locale con personale locale rifornito con prodotti locali da un’infrastruttura locale”, assicura mr. Greenberg. Aggiungendo: “Che io sappia non esiste nessun’altra azienda di servizi che tocchi così tante persone in maniera così personale. Noi serviamo 45 milioni di persone al giorno in 28 mila ristoranti di 120 paesi […] McDonald’s è vista come una minaccia culturale. Siamo diventati il simbolo di tutto quello che non piace alla gente o che rappresenta una minaccia per la propria cultura. Siamo presenti in nazioni come il Giappone, il Canada e la Germania da quasi 30 anni. Non vedo vacillare queste culture a causa di McDonald’s. […] Il fatto è che noi vendiamo carne, patate, pane e latte, Coca-Cola e lattuga […] Quello che una persona decide di mangiare è una questione puramente personale […] Ma la gente che cosa fa? Non indica forse la propria preferenza frequentando i nostri ristoranti? E quei ristoranti […] non creano posti di lavoro per migliaia di ragazzi che […] hanno passato tempi duri cercando di entrare nel mondo del lavoro?”[iv].
    La strategia argomentativa, ammettiamolo, è perfetta (e, del resto, certamente curata da una delle migliori agenzie di marketing disponibili – e globali). Si potrebbe dire di meglio? Il Grande Fratello di Orwell avrebbe detto qualcosa di diverso? C’è tutto: la banalizzazione della democrazia per via gastronomica, la tutela del diritto inalienabile della persona a farsi condizionare dalle mode e dalla pubblicità, persino il principio di sussidiarietà: a noi le vetrine e i megaspazi, a voi locali la catena dell’indotto con i relativi proventi. E la manipolazione? Scomparsa. Finiti i tempi dei vecchi tiranni totalitari, che avevano bisogno di reprimere e mobilitare con parate e palchi. Gli stessi risultati si possono ottenere con gli spot e con il denaro che li finanzia: l’illusione di libertà che rende i sudditi ancor più obbedienti, inutilmente perseguita in 1984, è finalmente realtà. E chi si oppone alla deriva ha due possibilità: rinchiudersi nella solitaria devianza, finché ne ha gli strumenti, o protestare ad alta voce. In questo caso c’è, per lui, l’accusa di voler coartare il diritto delle maggioranze, di inseguire i sogni anacronistici del protezionismo, di non prestarsi a cooperare per dar vita ad un mondo più ricco. E la condanna senza appello come “perdente della modernizzazione”, passatista, retrogrado.
    Forma contemporanea di omologazione a un progetto totalizzante, la propaganda globalista decreta per i miscredenti lo stesso ostracismo che i totalitarismi del XX secolo riservavano ai nemici, condannandoli come gente finita ai margini della Storia. L’accusa di guardare al passato e non sapersi aprire alle novità serve contemporaneamente a tessere quell’apologia del presente su cui l’ideologia liberale fonda le proprie pretese di superiorità e a far ritenere irrevocabili le scelte fatte, senza alcun controllo, dalle élites economiche. Ne abbiamo un esempio sotto gli occhi con la triste farsa dell’impiego in agricoltura degli organismi geneticamente modificati, la cui messa al bando, decisa almeno pro tempore dall’Unione europea, viene irrisa dalle società produttrici e dai loro consulenti perché, data l’estensione delle coltivazioni transgeniche nordamericane e asiatiche, l’eliminazione degli Ogm, quand’anche se ne accertasse la nocività, richiederebbe troppo tempo e troppo denaro.
    La logica ipocrita del fatto compiuto, che permette a un funzionario delle multinazionali prestato alla politica come Renato Ruggiero di tuonare contro chi vorrebbe “invertire il corso degli eventi”, svuota di senso il concetto di democrazia e mostra sempre di più l’asservimento della politica ai grandi interessi economici. Da questo punto di vista, anche un movimento dai contorni incerti e contraddittori come quello che ha manifestato i suoi umori a Genova può rappresentare un sintomo positivo di riappropriazione della vita pubblica da parte di chi ne dovrebbe essere il soggetto attivo. Catalizzando le inquietudini di una frangia generazionale che non si accontenta – almeno per ora – delle prospettive esistenziali garantite dalle sempre maggiori dosi di panem et circenses promesse dai profeti della politica-azienda, per ricreare voglia di partecipare, discutere, controllare. In un’epoca di delega delle opinioni personali al telecomando e di riduzione dello spazio della politica ai luoghi scenici della rappresentazione comunicativa, è almeno un punto da cui ripartire.
    Marco Tarchi


    --------------------------------------------------------------------------------

    [i] Così Aldo Schiavone, intervistato da Edoardo Segantini, in “Tramonto dell’Occidente? Io vedo un’alba”, in “Corriere Economia”, 16.7.2001, pag. 2. Non a caso ospitato dal quotidiano che più coerentemente esprime oggi la strategia egemonica liberale in campo intellettuale, l’articolo è un piccolo capolavoro del suo genere: a recitare le lodi del presunto nuovo anello evolutivo dell’umanità è infatti uno studioso che si è occupato dell’ascesa e successiva caduta dell’Impero romano, e le sue affermazioni acquistano un’autorevolezza quasi profetica. In questa chiave di presunta – e falsa – oggettività vengono presentate argomentazioni tanto “forti” quanto strettamente personali. Tanto per citarne alcune: “Per millenni abbiamo considerato la Natura un’entità inviolabile, che, in cambio, come in un patto, ci proteggeva. Il fatto che oggi si stia sempre più modificando la Natura (in senso positivo, scientifico) viene percepito come la perdita della regola, la rottura del patto, con un senso di angoscia e di catastrofe imminente. Ma io credo che dovremmo mettere radicalmente in discussione questa idea dell’inviolabilità, soprattutto noi intellettuali”. E ancora: “ha ragione il ministro Ruggiero quando dice che dove non passano le merci passano gli eserciti”; “il mondo di oggi è più omologato. Ma io non credo che questo sia un fatto negativo di per sé”.

    [ii] Le frasi sono tratte dall’articolo di Tommaso Padoa-Schioppa Globalizzazione? Purtroppo è poca, pubblicato nel “Corriere della Sera” del 19.7.2001, pag. 1, con l’interessante occhiello “Una democrazia mondiale da inventare”. Non sfuggirà che l’autore è uno dei più noti esponenti dell’eurocrazia politico-finanziaria, che in quanto a legittimazione democratica non sembra avere troppi motivi di vanto.

    [iii] Così il sociologo Aldo Bonomi, Ma il mercato ama l’immigrato, in “Corriere Economia”, 12.2.2001, pag. 1.

    [iv] Jack Greenberg, Io, l’“imputato” McDonald’s e i miei 45 milioni di clienti, in “Corriere della Sera”, 27.6.2001, pagg. 1-2.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    La libertà dei Popoli è nell'autonomia



    L’INTERVISTA / Parla Alain de Benoist, intellettuale “scomodo”
    della Nuova destra francese
    La libertà dei popoli è nell’autonomia
    La Ue è iper-centralista. Parigi o Roma, oggi si chiamano Bruxelles
    di Alessandro Ortenzi

    Alain de Benoist, è uno stimato intellettuale transalpino, direttore di numerose pubblicazioni culturali e capofila della cosiddetta “Nuova Destra”, movimento identitario e tradizionalista che, già alla fine degli anni 70, prese le distanze dalla destra nostalgica e reazionaria d’Oltralpe.
    Al recente Congresso Federale della Lega Nord i dirigenti del Movimento, e soprattutto il Segretario Federale Bossi, hanno espresso forti critiche al modello europeo che sta prendendo forma. Qual è la sua opinione sullo stato attuale del processo?
    «Una concezione europea è assolutamente necessaria, a patto che non sia statalista però. Attualmente l’Europa è prigioniera di una contraddizione: ovunque si proclama di voler superare gli Stati, ma poiché le classi politiche sono ultra-stataliste sia a Bruxelles sia nei singoli Stati, si finisce per privare l’Unione Europea dei mezzi politici necessari a superare gli Stati stessi».
    Ma dotando l’Ue di questi mezzi non si rischia di consegnarsi nelle mani di una casta di burocrati nemici della libertà dei singoli popoli e delle identità?
    «A questo rischio si può ovviare scegliendo il modello più appropriato. Esso deve essere rigorosamente federalista, e inoltre deve partire dalle autonomie. Attualmente, invece, l’Ue propone soltanto di esportare il giacobinismo su scala europea. Vogliono solo sostituire Bruxelles a Roma e Parigi. Noi non abbiamo nulla da guadagnare nel cambiare dei burocrati giacobini romani o parigini con altri di Bruxelles, o nel trasferirli dalle vecchie capitali a Bruxelles. Attualmente, siamo giunti al paradosso che l’Europa è presente dove dovrebbe essere assente, cioè nella vita dei popoli che hanno bisogno di autonomia, ed è invece assente dove dovrebbe essere presente, cioè sulla scena internazionale come soggetto politico forte e indipendente».
    La ricetta giusta potrebbe essere sintetizzata nella formula Europa dei popoli contro Europa delle banche?
    «Certamente, ma occorre essere più precisi. Europa dei popoli, cioè Europa della sovranità popolare dal basso, su questo non ho dubbi. Tuttavia, Europa delle banche non significa molto. Le banche sono solo uno strumento. Lo strumento che diventa egemone quando prevalgono la logica del mercato e, ancor più, la logica del mercato finanziario: il peggio è ciò che c’è dietro le banche. Cioè una visione del mondo dove tutto ha un prezzo ma niente ha più valore; una logica che oggi inaridisce ogni ideale e in più dirige quasi ogni movimento sociale».
    Bisogna dar forza ai valori creati dai popoli contro quelli dei disanimati mercati finanziari, dunque. Ma come dovrebbero organizzarsi i popoli d’Europa?
    «Lo ripeto, l’organizzazione deve partire dalla base e deve essere impostata su 4 pilastri: Identità, Volontarietà, Autonomia e Partecipazione. L’Autorità, infine, deve fluire dalla base verso l’alto. Per difendersi i popoli d’Europa devono proprio ripartire dalla base, dalla democrazia diretta. In fondo, anche gli Stati nazionali sono burocrazie come quella di Bruxelles: per questo nessuno Stato contrasta veramente Bruxelles. È quindi necessario estendere la partecipazione e interessare la gente alla vita politica ovunque sia possibile».
    La partecipazione tipica della cultura liberale, quindi?
    «No, questa non deve essere la visione liberale: questa prevede infatti solo l’incoraggiamento privato di ognuno, che si interessa così della politica solo a titolo personale. Al contrario, è necessario sviluppare la dimensione pubblica del Sociale. Ma soprattutto lo Stato non deve essere il monopolizzatore della vita sociale. Solo così essa potrà essere davvero autentica, specchio fedele della vita di un popolo, ed efficace strumento di sovranità».
    I burocrati di Bruxelles e le forze politiche e culturali che li sostengono amano definire le forze autonomiste, tra le quali la Lega Nord, con termini come “populista“, se non razzista o peggio. Cosa ne pensa?
    «I movimenti autonomisti sono un fenomeno complesso e nuovo. Assistiamo a un rinnovamento della vita associativa e questo è un bene. Però il termine populista è semplicistico, e non serve a definire un mondo molto diversificato. Alcuni movimenti “populisti “sono ultra-liberali, altri sono federalisti. Alcuni sono addirittura di stampo giacobino, come quello di Le Pen in Francia, che non è nemmeno autonomista. Populista insomma non vuol dire molto: è un termine che indica uno stile, non una dottrina. Che, inoltre, non è quella indipendentista. Personalmente, sono autonomista e non indipendentista. Specialmente oggi quando nemmeno gli Stati sono più indipendenti. Per questo auspico un modello confederale».
    In un momento nel quale l’Occidente si autoproclama in un conflitto di civiltà, con gli Stati Uniti alla testa, si potrebbe pensare di importare quel modello federale in Europa. Qual è la sua opinione?
    «Gli Stati Uniti adottarono un modello federale, ma lo hanno tradito. In particolare, lo hanno tradito durante il cosiddetto “New Deal” di Roosevelt, negli anni ’30. Questo fenomeno, tra l’altro, ebbe caratteri di grande similitudine col Fascismo che trionfava in Europa. Inoltre, bisogna tener presente un aspetto biblico e calvinista, tutto sommato inadatto all’Europa. A parte tutto questo, delle vere autonomie ci furono effettivamente, anche se già con la “guerra di secessione” si cominciò a negarle. Personalmente, non credo nell’antiamericanismo maniacale. Penso che vi sia tuttora maggior libertà di espressione in America che in Europa; e quel che resta del sistema federale non è malvagio. Il problema è che gli Stati Uniti sono l’unica potenza esistente e purtroppo hanno unificato il mondo secondo la logica del mercato, cosa che nuoce a tutti. Sono necessarie altre potenze che li contrastino».
    Quale modello federale si può allora suggerire?
    «Forse, miglior fonte di ispirazione può essere il modello federale tedesco, con i reali poteri assegnati ai diversi Länder, realmente autonomi rispetto al centro. La crisi economica della Germania, i problemi non completamente risolti della riunificazione e i debiti che vengono ancora oggi fatti pagare per la storia recente, non devono far dimenticare che la Germania è la colonna vertebrale dell’Europa; e ai tedeschi spetta il compito di spingere l’Europa all’indipendenza, lungo un asse che per ragioni di semplicità geometrica definirei Parigi- Berlino- Mosca, attorno al quale ruotino le libertà individuali di tutti i popoli europei. Libertà dai giacobini all’interno, e dagli Stati Uniti all’esterno».
    Occidente e islam: è veramente uno scontro di civiltà?
    «Non credo che sia il modo migliore di porre i termini. Né occidente, né islam sono concetti omogenei, poiché sono attraversati da grandi contraddizioni. Così come Europa e Stati Uniti hanno interessi divergenti e rappresentano modelli diversi, così il miliardo e duecento milioni di mussulmani non sono unitari, non hanno un centro come punto di riferimento, le correnti culturali sono diverse e lo sono anche le interpretazioni del Corano. Anche se bin Laden si auto proclama voce dell’islam, le truppe afghane che lo combattono sono mussulmane. L’Iran sciita è da sempre nemico dei talebani. Chi conferisce a bin Laden un ruolo che non ha, cerca uno scontro che non ci sarebbe. Gli Stati Uniti indicano in bin Laden la voce dell’Islam, i mussulmani no».
    Mentre assistiamo ad una massiccia immigrazione islamica in Europa, come ci si può tutelare?
    «L’immigrazione è un problema diverso da quello della guerra in corso. L’unico modo praticabile ed efficace per gestirla è una politica di cooperazione con i paesi di origine. Purtroppo l’immigrazione è ineluttabile. Tuttavia è necessario ridimensionarla e restringerla comunque, e questo lo si può fare solo cooperando attivamente con i paesi di origine».
    Questo per chi non è ancora venuto, ma con chi è già in Europa quali soluzioni adottare?
    «L’unico modo di affrontare l’immigrazione islamica è quello di non praticare alcuna assimilazione. E’ necessario che vivano in comunità loro, omogenee al loro interno. Io penso che non vi sia un pericolo islamico; o meglio che non sia quello principale. L’identità europea è molto più minacciata dalla logica del capitalismo che dall’Islam. Infatti le multinazionali americane controllano le politiche economiche, i paesi islamici no. Io vedo ogni giorno film americani, libri, giornali, musica, vestiti, modi di dire e di pensare. Non vedo nessun film islamico, nessuno stile di vita islamico presente 24 ore al giorno in televisione. L’uno è un pericolo possibile, l’altro è in atto. I mercati finanziari incidono sulla nostra vita ogni giorno di più in tutto il mondo. E non sono islamici».

    MOVIMENTO GIOVANI PADANI
    Via Carlo Bellerio, 41
    20161 MILANO
    Tel: 02/66211414 - Fax: 02/66211298
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