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    Predefinito ANTEPRIMA DAL LIBRO "LA SPORCA GUERRA DEL PETROLIERE BUSH" di Mauro Bottarelli

    ANTEPRIMA DAL LIBRO "LA SPORCA GUERRA DEL PETROLIERE BUSH" di Mauro Bottarelli (ed. Malatempora )

    Rivelazioni forti e durissime sulle Twin Towers, sulle vere ragioni della guerra continua e sulla militarizzazione degli USA. Il libro, di prossima uscita, e' sconvolgente anche per chi gia' qualcosa sa e non ha creduto alla retorica patriottico-militarista del petroliere Bush.





    "Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario."
    George Orwell

    PETROLIO, GASDOTTI E DOLLARI: ALTRO CHE SCONTRO DELLE CIVILTA'
    di Mauro Bottarelli



    "Al centro della partita ci sono due lunghi serpenti d’acciaio. Per adesso
    ancora solo sulla carta, ma dovrebbero tagliare in due l’Afghanistan. In
    uno, viaggeranno ogni giorno un milione di barili di greggio proveniente dai
    giacimenti dell’ex Urss, nel secondo correrà il gas che sgorga dai
    giacimenti di Dauletabad in Turkmenistan. Due arterie strategiche per
    rendere accessibile alle grandi compagnie petrolifere americane le immense
    riserve di idrocarburi dell’Asia centrale. Per dare solo un’idea della
    proporzione della posta in gioco, basta ricordare che la stima delle riserve
    del Caspio è di circa 263mila miliardi di piedi cubici di gas naturale e di
    60 miliardi di barili di petrolio, pari al 65% delle riserve mondiali. Un
    tesoro immenso che ha un solo handicap: la distanza dai mercati. La
    soluzione? Ecco cosa propone John J. Maresca, vicepresidente delle relazioni
    internazionali di Unocal Corporation, una delle principali compagnie
    mondiali nel campo delle risorse energetiche e dei progetti. La Unocal farà
    parte del consorzio Cent-Gas, fino alla fine del 1998, quando sarà
    costretta, dalle pressioni dell'opinione pubblica americana, ad uscire
    ufficialmente dalla struttura che mediava con il regime dei Talebani, salvo
    poi a mostrare un forte interesse a rientrare a pieno titolo nel progetto
    nel marzo del 2000, pochi mesi prima delle elezioni nelle quali era favorito
    il candidato repubblicano. Al progetto la Unocal aveva lavorato sin dal
    1994. Lo riferisce Ahmed Rachid, in uno studio pubblicato nel marzo scorso
    dalla Yale University. "C’erano altre compagnie in campo - scrive Rachid -
    come l'argentina Bridas. Ma Washington e Riad si sono impegnate per
    convincere tutti i diretti interessati ad escludere Bridas. All’epoca Unocal
    aveva aperto i suoi uffici di rappresentanza nelle zone controllate dai
    Talebani". John J. Maresca si presenta il12 febbraio 1998 davanti al
    sottocomitato del Congresso degli Stati Uniti pere l’Asia e il Pacifico per
    parlare proprio dei progetti della Unocal e delle altre compagnie
    petrolifere sugli idrocarburi dell’Asia centrale. Il problema come abbiamo
    detto è il trasporto. Maresca spiega nella sua audizione - che RaiNews24 è
    stata in grado di documentare - lo stato dell’arte e i progetti. Al memento
    gli unici sbocchi possibili sono il Mar Nero e il Mediterraneo, con delle
    linee di oleodotti che attraversano le ex repubbliche sovietiche e la
    Turchia. Se tutti questi progetti fossero però realizzati - spiega il
    vicepresidente della Unocal - non potrebbero garantire tutta la
    distribuzione e soprattutto puntano verso mercati che non potrebbero
    assorbire questa produzione. Sentiamolo.
    "Noi dell’Unocal - afferma Maresca - riteniamo che il fattore centrale nella
    progettazione di questi oleodotti dovrebbe essere la posizione dei futuri
    mercati energetici che verosimilmente assorbiranno questa nuova produzione.
    L’Europa occidentale, l’Europa centrale e orientale e gli stati ora
    indipendenti dell'ex Unione sovietica sono tutti mercati a crescita lenta,
    in cui la domanda crescerà solo dallo 0,5% all’1,2% all’anno nel periodo
    1995-2010. L’Asia è tutto un altro discorso - sostiene Maresca - Il suo
    bisogno di consumo energetico crescerà rapidamente. Prima della recente
    turbolenza nelle economie dell'Asia orientale, noi dell’Unocal avevamo
    previsto che la domanda di petrolio in questa regione si sarebbe quasi
    raddoppiata entro il 2010. Sebbene l’aumento a breve termine della domanda
    probabilmente non rispetterà queste previsioni, noi riteniamo valide le
    nostre stime a lungo termine. Devo osservare che è nell'interesse di tutti
    che vi siano forniture adeguate per le crescenti richieste energetiche dell’
    Asia. Se i bisogni energetici dell'Asia non saranno soddisfatti, essi
    opereranno una pressione su tutti i mercati mondiali, facendo salire i
    prezzi dappertutto. La questione chiave è dunque come le risorse energetiche
    dell'Asia centrale possano essere rese disponibili per i vicini mercati
    asiatici. Ci sono due soluzioni possibili, con parecchie varianti.
    Un'opzione è dirigersi a est attraversando la Cina, ma questo
    significherebbe costruire un oleodotto di oltre 3.000 chilometri solo per
    raggiungere la Cina centrale. Inoltre, servirebbe una bretella di 2.000
    chilometri per raggiungere i principali centri abitati lungo la costa. La
    questione dunque è quanto costerà trasportare il greggio attraverso questo
    oleodotto, e quale sarebbe il netback che andrebbe ai produttori. (...)
    La seconda opzione è costruire un oleodotto diretto a sud, che vada
    dall'Asia centrale all'Oceano Indiano. Un itinerario ovvio verso sud
    attraverserebbe l’Iran, ma questo è precluso alle compagnie americane a
    causa delle sanzioni. L’unico altro itinerario possibile è attraverso
    l'Afghanistan - dice il ancora vicepresidente di Unocal - e ha naturalmente
    anch’esso i suoi rischi. Il Paese è coinvolto in aspri scontri da quasi due
    decenni, ed è ancora diviso dalla guerra civile. Fin dall'inizio abbiamo
    messo in chiaro che la costruzione dell'oleodotto attraverso l'Afghanistan
    che abbiamo proposto non potrà cominciare finché non si sarà insediato un
    governo riconosciuto che goda della fiducia dei governi, dei finanziatori e
    della nostra compagnia.
    Abbiamo lavorato in stretta collaborazione con l'Università del Nebraska a
    Omaha allo sviluppo di un programma di formazione per l'Afghanistan che sarà
    aperto a uomini e donne, e che opererà in entrambe le parti del paese, il
    nord e il sud. La Unocal ha in mente un oleodotto che diventerebbe parte di
    un sistema regionale che raccoglierà il petrolio dagli oleodotti esistenti
    in Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakhstan e Russia. L'oleodotto lungo 1.040
    miglia si estenderebbe a sud attraverso l'Afghanistan fino a un terminal per
    l’export che verrebbe costruito sulla costa del Pakistan. Questo oleodotto
    dal diametro di 42 pollici (poco più di un metro, ndt) avrà una capacità di
    trasporto di un milione di barili di greggio al giorno. Il costo stimato del
    progetto, che è simile per ampiezza all'oleodotto trans-Alaska, è di circa
    2,5 miliardi di dollari". Poi Maresca spiega quali sono in dettaglio i
    progetti sull’Afghanistan."Lo scorso ottobre è stato creato il Central Asia
    Gas Pipeline Consortium, chiamato CentGas, e in cui la Unocal ha una
    cointeressenza, per sviluppare un gasdotto che collegherà il grande
    giacimento di gas di Dauletabad in Turkmenistan con i mercati in Pakistan e
    forse in India. Il prospettato gasdotto lungo 790 miglia aprirà nuovi
    mercati per questo gas, viaggiando dal Turkmenistan attraverso l'Afghanistan
    fino a Multan in Pakistan. Il prolungamento proposto porterebbe il gas fino
    a New Delhi, dove si collegherebbe a un gasdotto esistente. Per quanto
    riguarda il proposto oleodotto in Asia centrale, CentGas non può cominciare
    la costruzione finché non si sarà insediato un governo afghano riconosciuto
    internazionalmente".
    E avanza le richieste delle Compagnie all’Amministrazione e al Congresso.
    "Noi chiediamo all’Amministrazione e al Congresso di sostenere con forza il
    processo di pace in Afghanistan condotto dagli Stati Uniti. Il governo Usa
    dovrebbe usare la sua influenza per contribuire a trovare delle soluzioni
    per tutti i conflitti nella regione. L’assistenza Usa nello sviluppare
    queste nuove economie sarà cruciale per il successo degli affari".
    Le parole di Maresca trovano orecchie attente nei circoli della politica
    americana e soprattutto nella nuova Amministrazione guidata da Bush, dove
    non mancano gli uomini e le donne che con il petrolio hanno una certa
    dimestichezza a cominciare proprio dal Presidente e dal vicepresidente
    Cheney, presidente e azionista quest’ultimo della Oil Supply Company. Ma non
    solo il ruolo di Consigliere per la Sicurezza nazionale è ricoperto da
    Condoleeza Rice, un’affascinante signora che prima di entrare nello staff
    presidenziale era stata dirigente della Chevron sin dal 1991. Inutile dire
    che la Chevron è una delle grandi compagnie petrolifere interessate allo
    sfruttamento dei giacimenti del Caspio. Solo per citare i soggetti di
    maggiore rilievo. "Nel 1995 - spiega lo scrittore pakistano Ahmed Rashid
    nel suo recente libro “Talebani, Islam Petrolio e il grande scontro in Asia
    centrale” - dopo che i Talebani hanno conquistato Herat e cacciato dalle
    scuole migliaia di ragazze, non c’è stata una sola parola di critica da
    parte degli Stati Uniti. In realtà gli Usa, insieme all’ISI, consideravano
    la caduta di Herat un aiuto ad Unocal e un ulteriore stretta al cappio
    intorno all’Iran".
    I dirigenti Talebani dopo la presa del potere vengono accolti con favore
    negli Usa e loro rappresentanti - racconta John Pilger - volano in Texas
    dall’allora governatore Bush, dove incontrano i dirigenti dell’Unocal che
    fanno loro un’offerta precisa riguardo all’oleodotto: una fetta dei profitti
    pari al 15%. Ma ci sono alcune condizioni da rispettare.
    Il racconto di quella mediazione lo si trova in un libro (Ben Laden, la
    vérité interdite) uscito pochi giorni fa in Francia. Gli autori sono Jean
    Charles Brisard e Guillaume Dasquieré. Brisard è l’autore, per conto del DST
    francese del dossier sulle strutture economiche di Osama bin Laden, che il
    presidente Chirac ha consegnato a Bush nella sua visita dopo gli attentati
    alle Torri. Dasquieré dirige il prestigioso bollettino Intelligence online.
    Insomma due esperti autorevoli. A reggere le fila dei contatti è Laila
    Helms, la nipote dell’ex direttore della Cia ed ex ambasciatore Usa in Iran,
    Richard Helms. Laila, è una brillante quarantenne, che da sempre ha
    mantenuto contatti privilegiati con gli Afghani. Ma soprattutto ha ottimi
    rapporti negli ambienti dei servizi segreti e del Dipartimento di Stato.
    Negli ultimi sei anni - spiegano Brisard e Dasquieré nel loro libro - si è
    dedicata alla supervisione di alcune azioni di influenza a nome dei Talebani
    soprattutto preso le Nazioni Unite: La sua azione non si attenua neppure
    dopo il 1996, quando il Mullah Omar diventa ufficialmente meno frequentabile
    agli occhi degli americani e neppure quando i capi talebani accolgono bin
    Laden che sarà poi ritenuto responsabile degli attentati contro le
    ambasciate americane. Arriva persino a realizzare un documentario sulle
    donne afghane, talmente filo talebano da esser rifiutato da tutte le reti
    televisive americane.
    Per Laila le cose si mettono bene con il ritorno dei Repubblicani al potere
    che rimette molti suoi amici funzionari nei posti chiave della Cia e del
    Dipartimento di Stato. I risultati non si fanno attendere. Tra il 18 e il 23
    marzo di quest’anno Laila organizza un viaggio negli Stati Uniti per Sayed
    Rahmatullah Hascimi. Ha solo 24 anni, ma è già l’ambasciatore itinerante dei
    Talebani e consigliere personale del Mullah Omar. Non si tratta ovviamente
    di un giro turistico o culturale. Si parla di petrolio e di oleodotti. Gli
    interlocutori sono alti funzionari della Cia e del Dipartimento di Stato.
    Laila riesce ad ottenere per il consiglire del Mullah un’intervista
    televisiva alla ABC e alla Radio pubblica. Il tutto con la benedizione dei
    circoli politici vicini all’Amministrazione, che punta ad un miglioramento
    dell’immagine dei Talebani, in relazione al negoziato per “normalizzare” l’
    Afghanistan.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    "Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario."
    George Orwell

    PETROLIO, GASDOTTI E DOLLARI: ALTRO CHE SCONTRO DELLE CIVILTA'
    di Mauro Bottarelli


    2a parte

    A dare nuovo impulso al negoziato è lo stesso Presidente Bush che promuove la nascita del cosiddetto gruppo dei 6+2 (i Paesi confinati con l’Afghanistan più Usa e Russia). Ma non solo. Brisard e Dasquieré raccontano che John O’Neill, il vicedirettore dell’FBI si era dimesso improvvisamente. Dietro l’abbandono di O’Neill, spiegano i due analisti francesi, c’era un duro scontro tra il Bureau e il Dipartimento di Stato. L’amministrazione avrebbe infatti stoppato le indagini, condotte proprio da O’Neill sul terrorismo fondamentalista ed in particolare sugli attentati contro le ambasciate Usa a Nairobi e Dar El Salaam e contro la nave Cole. Questo per favorire un accordo con i Talebani. Uno stop che portò - secondo il racconto fatto ai due analisti francesi che dedicano il loro libro alla sua memoria - alle dimissioni dal Bureau. O’Neill accetterà l’incarico di capo delle sicurezza del WTC e morirà insieme ad altre 5000 persone nell’attacco terroristico dell’11 settembre scorso. A coordinare il gruppo dei 6+2 è chiamato Francesc Verdell, rappresentante di Kofi Annan, che incontra a Roma anche l’ex re Zahir Sha, per verificare un suo possibile coinvolgimento in un governo di coalizione. Il “gruppo” si riunisce più volte, senza grandi risultati. La proposta che arriva ai Talebani (siamo assai prima dell’11 settembre) è la seguente: mollare bin Laden, creazione di un governo di coalizione che comprenda i Talibani (la stessa proposta avanzata in piena guerra dagli Usa) in cambio di aiuti economici e riconoscimento internazionale. Quel riconoscimento internazionale e quella stabilità chiesta da più di due anni dalle compagnie interessate alla costruzione degli oleodotti. Gli americani - raccontano Brisard e Dasquieré - non esitano ad usare anche le maniere forti. A raccontare come è l’ex ministro degli esteri del Pakistan il signor Naif Naik che, in un’intervista televisiva trasmessa in Francia, racconta che nel corso della riunione del “Gruppo” a Berlino, tra il 17 e il 20 luglio, l’ambasciatore statunitense Thomas Simons avrebbe detto, riferendosi all’Afghanistan, che dopo la costituzione del "governo allargato ci saranno aiuti internazionali - poi potrebbe arrivare l’oleodotto". L’ambasciatore, racconta l’ex ministro, spiega quale potrebbe esser l’alternativa: se i Talebani non si comportano come si deve, e il Pakistan fallisse nel suo intento di farli comportare come si deve, Washington potrebbe ricorre ad un’altra opzione: quella militare. Brisard e Dasquieré riferiscono una battuta assai esplicita. "Ad un certo punto i rappresentati americani dissero ai Talebani: o accettate la nostra offerta di un tappeto d’oro, o sarete sepolti da un tappeto di bombe". L’ultimo incontro tra emissari Usa e Talebani avviene lo scorso 2 agosto, 39 giorni prima dell’attacco alle Torri. È Cristina Rocca, direttrice degli affari asiatici del Dipartimento di Stato a incontrare a Islamabad l’ambasciatore Talebano in Pakistan. Kabul respinge definitivamente la proposta americana. La parola, come sappiamo, passa alle armi.

    Tra la Cecenia e l’Afghanistan scorre un oceano nero. Sotterraneo. Fatto di 200 miliardi di barili di petrolio. Un fiume d'oro senza il quale non è possibile immaginare lo sviluppo mondiale nei prossimi 25 anni.

    Il braccio orientale di questo oceano può arrivare sui mercati con gasdotti che partono dall'Uzbekistan, attraversano l'Afghanistan, per sfociare a Karachi, sulla costa del Pakistan. Questo è il percorso più breve tra le steppe dell'ex Urss e l'oceano Indiano. Il Tagikistan non ha sue risorse petrolifere, ma ha specialisti usciti dalle università di Mosca che seguono da vicino quello che succede al di là del confine. "Tutti i protagonisti della crisi afghana hanno a che fare con il mondo del petrolio - spiega un alto funzionario del ministero tagiko per lo sviluppo economico, che vuole mantenere l'anonimato - Prendiamo Osama bin Laden: senza i petrodollari suo padre non sarebbe diventato miliardario e senza i petrodollari il Califfo non avrebbe potuto gettare le basi del suo regno. Per non parlare poi di George Bush, del vicepresidente Dick Cheney e di altri quattro o cinque alti esponenti dell'amministrazione americana: sono tutti oilmen che sanno perfettamente cosa c’è sotto il suolo dell’Asia centrale. E anche Vladimir Putin si muove a suo agio nel mondo del petrolio. Apparentemente il presidente russo non ha una storia personale legata al petrolio, dato che viene dai servizi segreti. Ma solo apparentemente. La riscossa russa - spiega la fonte - dopo il crack del 1998, è avvenuta proprio grazie al petrolio. La candidatura di Putin nell'autunno 1999 è stata sostenuta proprio dagli oligarchi del petrolio. Il primo dei grandi oligarchi a manifestare entusiastico appoggio a Putin fu Rem Viakhirev - prosegue il funzionario - l’ex padrone di Gazprom, il colosso mondiale del gas. E il giovane Roman Abramovich, di professione esploratore di giacimenti, ha comprato con i soldi del petrolio siberiano un paio di televisioni e le ha messe a disposizione del Cremlino". Il grande accordo russo-americano-asiatico sull’Afghanistan, secondo lui, ha come base proprio l’oro nero. "L'allargamento della Nato e la creazione di oleodotti e gasdotti per sottrarre il Caucaso e l'Asia centrale a Mosca sono progetti degli anni Novanta. Figli dell'amministrazione Clinton. Bush e Putin stanno trovando intese che rovesciano completamente l’impostazione precedente", aggiunge l'esperto. Iter e Lukoil sono due colossi russi del petrolio, Lukoil ha comprato alcuni segmenti della distribuzione di carburanti negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei. "Nei giorni scorsi, dopo gli attentati dell’11 settembre, i dirigenti di Iter e Lukoil sono andati a Tashkent dove hanno raggiunto accordi preliminari per la vendita a terzi di gas e petrolio di Uzbekistan e Turkmenistan che dovrebbe essere convogliato attraverso condotte in Afghanistan", aggiunge. Il Turkmenistan - confinante con l’Afghanistan - detiene il quarto posto mondiale nelle riserve di gas naturale con 3 miliardi di metri cubi. Il Kazakhstan è secondo, per riserve di petrolio, solo ai paesi del Golfo. Il presidente Nursultan Nazarbayev, in eccellenti rapporti con Vladimir Putin, ha dato la più ampia disponibilità di aiuto agli Stati Uniti nella lotta al terrorismo internazionale.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    "La verità, vi giuro, su questa guerra inesistente"

    Gli uomini chiave del governo Usa e dei media hanno usato il bombardamento del World Trade Center e del Pentagono per creare uno stato internazionale di paura. Questo ha portato i più vicini alleati di Washington (in particolare Germania, Gran Bretagna e Italia) ad accordare carta bianca per quanto riguarda la loro partecipazione alle rappresaglie Usa. Ed è servito ad oscurare la domanda più importante: Washington nasconde altre intenzioni, una strategia che va oltre lo sganciare bombe? E se esiste, cos’è, e che conseguenze ha per il mondo? Ecco alcuni titoli di prima pagina a sette colonne dei principali giornali statunitensi: “Terza Guerra Mondiale” (New York Times, 13/9); “Diamo una chance alla guerra” (Philadelphia Inquirer, 13/9); “È il momento di usare l’opzione nucleare” (Washington Times, 14/9). Inizialmente, una serie di Stati è stato minacciato in quanto “sostenitori del terrorismo”, che non sono “con noi”, perciò sono “contro di noi”: Cuba, Iran, Iraq, Libia, Corea del Nord, Sudan e Siria. Pur diversi per molti aspetti, essi hanno in comune tre cose: hanno affrontato decenni di ostilità degli Stati Uniti, i loro governi sono laici e non hanno connessioni con Osama bin Laden. In “Diamo una chance alla guerra” (dal Philadelphia Inquirer), David Perlmutter ha avvertito che se questi Paesi non ubbidiranno agli ordini di Washington essi dovranno "prepararsi alla distruzione sistematica di tutte le centrali energetiche, tutte le raffinerie, tutti gli oleodotti, tutte le installazioni militari, tutti gli uffici governativi in tutta la nazione... il collasso totale della loro economia per una generazione".

    I Paesi che collaborarono alla creazione del regime talebano, addestrando e finanziando le forze di Osama bin Laden, e che non hanno mai smesso di versare fondi ai Talebani - cioé il Pakistan, i fedeli alleati degli Usa Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, e gli Stati Uniti stessi - non sono stati messi nella lista dei “nemici”. Al contrario, sono tutti alleati nella Nuova Guerra Mondiale contro il terrorismo. E già il 12 settembre scorso, tanto per alzare il tiro, il Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld ha detto: "Gli Stati Uniti si impegneranno in uno sforzo multilaterale per colpire le organizzazioni terroristiche nei 60 Paesi che le sostengono. Non abbiamo altra scelta".

    La minaccia di bombardare un terzo delle nazioni del mondo ha spaventato molta gente. E questa, secondo noi, ne era l’intenzione. Per due motivi. Primo, se Washington limiterà i suoi attacchi, aggredendo principalmente l'Afghanistan, il mondo tirerà un sospiro di sollievo. E Washington ha attaccato fortemente l’Afghanistan - per primo. Altre violazioni di sovranità, oltre all’uso forzato del Pakistan come base per gli attacchi, seguiranno a sostegno dell’iniziativa principale. Potrebbe svilupparsi ad esempio altro terrorismo di Stato, come un aumento dei bombardamenti non provocati sull’Iraq (come diversivo). Ma al centro dell’attenzione nell’immediato, c’è ancora solo l’Afghanistan. Secondo, questa tattica del terrore serve a distrarre dalla strategia principale di Washington, molto più pericolosa della minaccia di bombardare numerosi Paesi. Washington vuole impossessarsi dell'Afghanistan al fine di accelerare il completamento della frammentazione delle repubbliche ex sovietiche, così come ha distrutto la ex Jugoslavia.

    E questo è il più grave dei rischi che corre l’umanità. Ma cosa vuole Washington dal misero Afghanistan? Per rispondere a questa domanda bisogna prendere la carta geografica dell’Europa e dell’Asia. Considerate l’enorme estensione dell’ex Unione Sovietica, in particolare della Russia. La Russia non è solo molto estesa, possiede ricchezze incalcolabili (la maggior parte non ancora sfruttate), ma è l’unica potenza nucleare mondiale oltre agli Usa. A dispetto di ciò che crede l'opinione pubblica, la potenza militare russa non è stata distrutta del tutto; anzi, è decisamente più forte, in relazione agli Usa, che durante il primo periodo della Guerra Fredda. Se gli Stati Uniti riusciranno a frantumare la Russia e le altre repubbliche ex sovietiche in entità deboli e controllate dalla Nato, Washington avrà le mani libere per sfruttare le immense ricchezze di quelle terre dove e come vorrà, senza temere reazioni. E a dispetto delle chiacchiere che parlano di una collaborazione tra Russia e Stati Uniti, e nonostante i gravi danni provocati in Russia dal Fondo Monetario Internazionale, queste rimangono le intenzioni della politica Usa. L’Afghanistan ha una posizione strategica, non solo perché confina con Iran, India, e persino (con una piccola striscia) con la Cina, ma, molto più importante, condivide confini e religione con le repubbliche centro asiatiche dell’ex Unione Sovietica: Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan. Le prime due confinano a loro volta con il Kazakhstan, che confina direttamente con la Russia. L'Asia centrale è strategica non solo per i vasti giacimenti petroliferi, ma soprattutto per la sua posizione. Se Washington dovesse arrivare a controllare queste repubbliche, a quel punto avrebbe basi militari nelle aree seguenti: il Baltico, i Balcani, la Turchia, e le repubbliche in questione. E questo sarebbe un cappio attorno al collo della Russia. Si aggiunga che Washington già controlla le repubbliche dell’Azerbaijan e della Georgia, al sud, ed è facile capire come gli Usa sarebbero nella posizione ideale per lanciare istigazioni alla “ribellione” in tutta la Russia.

    La Nato, la cui attuale dottrina permette di intervenire nei Paesi confinanti con gli stati membri, potrebbe poi iniziare “guerre a bassa intensità” che prevedano l’uso di armi nucleari tattiche (come ufficialmente dichiarato nella dottrina ufficiale), in “risposta” alle innumerevoli “violazioni dei diritti umani”. E c’è qualcosa di ironico nel fatto che Washington pretenda di ritornare in Afghanistan per combattere il terrorismo islamico, dal momento che per distruggere i sovietici gli Usa stessi crearono i quadri del terrorismo islamico negli anni Ottanta. Non si trattò, come molti credono, di una sorta di aiuto ai ribelli che contrastavano l’espansionismo sovietico. Al contrario, l’intervento sovietico in Afghanistan fu concepito come un'azione difensiva per mantenere, e non alterare, l’equilibrio globale delle forze. Accadde infatti che gli Stati Uniti misero in atto azioni segrete al fine di “incoraggiare” l’intervento dei russi, allo scopo di trasformare la società tribale rurale afghana in una forza militare che contribuisse a dissanguare l'Unione Sovietica. Tutto questo è stato ammesso dallo stesso Zbigniew Brzezinski, a capo della Sicurezza Nazionale statunitense a quel tempo.

    Prendiamo in considerazione i seguenti brani tratti da articoli giornalistici. Il primo, dal “N.Y. Times”: "La resistenza afghana fu sostenuta dai servizi di intelligence degli Stati Uniti ed Arabia Saudita attraverso la fornitura di circa 6 miliardi di dollari di armamenti. E la zona bombardata la settimana scorsa (l’articolo fu pubblicato dopo l’attacco missilistico dell’agosto 1998), un complesso di sei accampamenti attorno a Khost, dove l’esule saudita Osama Bin Laden ha finanziato una sorta di “università del terrorismo”, è ben conosciuta alla Cia (secondo le parole di un ufficiale esperto dei servizi di intelligence). ... alcuni degli stessi combattenti che lottarono contro i sovietici con l'aiuto della Cia, stanno ora combattendo sotto la bandiera di Mr. Bin Laden...". (“NY Times”, 24 agosto 1998, pagine A1 & A7 ).

    E questo articolo dal londinese “Independent”: "La guerra civile afghana è in corso, e l'America è presente fin dall'inizio - o prima dell'inizio, se dobbiamo credere alle parole di Brzezinski" (Zbigniew, ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale ed ora stratega di politica internazionale). "Non abbiamo spinto i russi ad intervenire", ha affermato in una intervista del 1998, "ma abbiamo consapevolmente aumentato le probabilità che lo facessero. Questa operazione segreta fu un’idea eccellente. Portò i russi nella trappola afghana. Vorreste che lo negassi?" (affermò Brzezinski).

    Gli effetti a lungo termine dell’intervento americano secondo la prospettiva da guerra fredda di Brzezinski, misero, 10 anni dopo, l'Unione Sovietica in ginocchio. Ma ci furono anche altri effetti. Per sostenere la guerra, la Cia, d’accordo con l’Arabia Saudita e l’intelligence militare pakistana ISI (Direttorio Integrato d’Intelligence), versò milioni e milioni di dollari ai Mujahedeen. Fu il più sicuro dei modi di condurre una guerra: gli Usa (e l'Arabia Saudita) fornirono i fondi, e gli Stati Uniti anche un limitato addestramento. Fornirono inoltre i missili antiaerei Stinger, che in definitiva furono quelli che cambiarono il corso della guerra. "L’Isi pakistano fece dell’altro: addestramento, equipaggiamento, indottrinamento e consulenza. E fecero il loro lavoro con ostentazione: il leader militare di allora, il generale Zia ul Haq, egli stesso di tendenza fondamentalista, si gettò nell’impresa con incrollabile passione". (“The Independent”, 17 settembre 2001)

    Per arrivare a tempi a noi vicini, va notato che gli Stati Uniti hanno aiutato i Talebani anche recentemente, a dispetto delle dichiarazioni di condanna per la violazione dei diritti umani: "L’amministrazione Bush non si è lasciata intimidire. La settimana scorsa ha versato altri 43 milioni di dollari in assistenza all’Afghanistan, arrivando così ad un aiuto complessivo per quest’anno di 124 milioni [di dollari] e ponendo così gli Stati uniti come primo paese donatore umanitario". (“The Washington Post”, 25 maggio 2001). Perché gli Usa e i loro alleati hanno continuato - fino ad oggi - a finanziare i Talebani? E perché, ciò nonostante, adesso attaccano la loro mostruosa creatura? È ormai assodato che Washington ordinò all'Arabia Saudita e al Pakistan di finanziare i Talebani affinché essi facessero un lavoro: consolidare il controllo sull’Afghanistan e da qui destabilizzare le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale sui loro confini.
    Ma i talebani hanno fallito. Non hanno smembrato l'alleanza dei paesi controllati dalla Russia. Invece di sovvertire l'Asia centrale, hanno iniziato a distruggere le statue di Buddha e a terrorizzare coloro che non seguivano l’interpretazione super repressiva dell'Islam che ha il regime. Contemporaneamente, la Russia si è mossa nella direzione “sbagliata”, dal punto di vista di Washington. La pedina completamente controllabile Eltsin è stato sostituito con il presidente Putin, che in parte resiste ai voleri degli Usa, per esempio contrastando il piano della Cia per impossessarsi della Cecenia attraverso l’uso di terroristi islamici legati all’Afghanistan. E ancora, Cina e Russia hanno siglato un patto di difesa reciproca. E a dispetto delle enormi pressioni Usa/Europa, Putin ha rifiutato di isolare il presidente bielorusso Lukashenko che, come l'incarcerato ma non spezzato presidente jugoslavo Milosevic, sostiene la necessità di opporsi alla Nato.

    È questa sfavorevole sequenza di avvenimenti che ha convinto Washington ad affidarsi alla sua tattica preferita: spingersi, nell'azione politica, fin sull'orlo della guerra. Un primo segno di questa tendenza è comparso all’inizio di settembre 2001, appena prima delle elezioni presidenziali nella repubblica ex sovietica della Bielorussia. La Bielorussia è situata nella regione baltica, vicino alla Lituania ed alla Polonia. Washington e l'Unione Europea detestano Lukashenko perché ha rifiutato di sottomettere il suo piccolo paese ai voleri del Fondo Monetario Internazionale, e di smantellare tutte le garanzie sociali dell'era sovietica. Inoltre prese posizione in difesa della Jugoslavia. E desidera persino l'unione di Bielorussia, Ucraina e Russia. Questo desiderio di rimettere assieme ex repubbliche sovietiche, lo mette nel mirino della politica di Washington, che mira invece a frantumare ulteriormente questi Paesi. Per mesi, Washington e gli europei si sono occupati delle elezioni bielorusse. Washington ha ammesso di aver costituito circa 300 “Organizzazioni non governative”. Questo in un Paese che conta meno di 10 milioni di anime. Inoltre, appena prima delle elezioni, l'ambasciatore degli Stati Uniti Michael Kozak ha scritto ad un giornale britannico: "Obiettivo e metodologia degli Stati Uniti sono gli stessi in Bielorussia come in Nicaragua, dove gli Stati Uniti hanno sostenuto i Contras contro il governo di sinistra dei sandinisti in una guerra che ha provocato almeno 30.000 vittime". (“The Times”, 3 Settembre 2001.)

    Ora Washington ha cinicamente ha usato la strage del World Trade Center per dirigere le strutture della Nato, invocando l’articolo 5 del Trattato, secondo il quale tutti i membri dell'Alleanza devono rispondere ad un attacco rivolto ad uno di essi. Questo allo scopo di: a) mettere insieme una “forza per la pace” per l’Afghanistan; b) lanciare attacchi aerei e, possibilmente, terrestri; c) eliminare l’ostinata ed incompetente leadership dei Talebani; d) assumere il controllo diretto nella creazione di una occupazione militare della Nato, un vero e proprio protettorato. Alcuni sostengono che la Nato sarebbe folle se tentasse di pacificare l'Afghanistan. Sostengono che gli inglesi fallirono nell’800 ed i russi negli anni ’80. Ma Washington non ha bisogno né intende pacificare l’Afghanistan. Ha bisogno d’una presenza militare sufficiente per organizzare e dirigere le forze indigene al fine di penetrare le repubbliche dell'Asia centrale ed istigare conflitti. Piuttosto che provare a sconfiggere i talebani realmente (i raid e qualche morto tra i civili non significano vittoria né tanto meno la pantomima organizzata e concordata con Kabul della caduta di Mazar-i-Sharif), Washington gli farà un’offerta che non potranno rifiutare: lavorare per gli Stati Uniti; saranno argomenti convincenti l’abbondanza di soldi e di armi, e le mani libere per dirigere il traffico di droga, così come hanno consentito all’Uck di fare una fortuna con la droga nei Balcani. L’altolà di Colin Powell alla richiesta dell’Alleanza del Nord, utili idioti e carne da macello del Dipartimento di Stato Usa, di affondare subito il colpo contro Kabul fa capire la realtà dei fatti: ok bimbi, cercate di capire che questo è un gioco e non rompeteci le uova nel paniere. Oppure, in caso di arroccamento nell’ortodossia, potranno scegliere di opporsi agli Stati Uniti e morire davvero. (E la realtà di questi ultimi tempi ha confermato l’ortodossa stupidità dei talebani). In questo modo, Washington spera di bissare ciò che ha fatto in Kosovo, dove la Nato ha preso i gangster trafficanti di droga e i secessionisti anti-serbi, e ne ha fatto l'organizzazione terrorista “Esercito per la liberazione del Kosovo”, Uck. In questo caso invece la materia prima sono i Talebani. Riorganizzati e posti sotto stretto controllo, rinasceranno come “Combattenti della Libertà”, e saranno diretti contro le Repubbliche dell’Asia centrale.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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