GLI USA E GLI ALLEATI
UN ERRORE ATTACCARE DA SOLI L’IRAQ
17 agosto 2002
di Henry Kissinger
SI avvicina l’anniversario dell’attacco al World Trade Center e l’America si trova di fronte alla decisione di George W. Bush che più di ogni altra riporta a quell’evento.
Il presidente e il Segretario di Stato Colin Powell hanno più volte insistito sulla necessità di un cambiamento di regime in Iraq. A giugno, in un eloquente discorso a West Point, Bush ha sottolineato che le nuove armi di distruzione di massa non consentono più agli Stati Uniti il lusso di aspettare un attacco altrui: ora «bisogna esser pronti a un’azione preventiva, quando necessaria, per difendere la nostra libertà». Formalmente, l’amministrazione non ha ancora deciso il ricorso alla forza.
L’ambiguità spesso aiuta a creare coscienza dei problemi senza imporre decisioni pratiche: ma quando l’ambiguità coinvolge pianificazione militare, dibattito al Congresso e pressioni sugli alleati, vuol dire è arrivato il momento di definire una politica comprensibile per l’America e il resto del mondo. Il nuovo atteggiamento statunitense è rivoluzionario. L’intervento militare finalizzato a un cambiamento di regime sfida infatti il sistema internazionale stabilito dal Trattato di Westfalia nel 1648 che, dopo la carneficina delle guerre di religione, aveva stabilito il principio del non intervento negli affari interni degli Stati. E la nozione di «prevenzione giustificata» contraddice il diritto internazionale, che ammette l’uso della forza per autodifesa solo quando la minaccia è attuale, non potenziale.
Inoltre un intervento militare americano in Iraq sarebbe appoggiato con riluttanza dalla gran parte degli alleati europei. Per quel che riguarda le altre nazioni, la Russia metterebbe su un piatto i benefici della soddisfazione americana, e sull’altro la sua paura di venir messa ai margini. La Cina considererebbe l’azione preventiva alla luce sia della sua riluttanza a giustificare un intervento nel proprio paese, sia del suo desiderio di cooperare con gli Stati Uniti in un periodo di cambiamenti politici e di integrazione con l’economia mondiale grazie al Wto. La reazione più interessante e potenzialmente fatale è quella dell’India, che potrebbe essere tentata di applicare il nuovo principio della prevenzione nei confronti del Pakistan.
LO scenario è intricato, ma l’amministrazione statunitense deve stabilire una strategia che sia comprensibile per gli americani e politicamente chiara per il resto del mondo. Un conflitto di questa portata non può essere percepito come esclusiva espressione del potere esecutivo: bisogna ottenere l’appoggio dei cittadini e del Congresso alla linea politica scelta.
L’amministrazione non dovrebbe temere il dibattito nazionale, dato che l’argomento di eliminare la capacità di distruzione di massa dell’Iraq è molto forte. Il regime internazionale nato dal Trattato di Westfalia si basava sul concetto di uno stato-nazione impermeabile e di una tecnologia militare limitata che generalmente permetteva a ogni nazione di correre il rischio di aspettare una sfida chiara. La minaccia terroristica trascende lo stato-nazione: deriva in larga parte da gruppi trasnazionali che, se ottengono armi adeguate, possono infiggere danni catastrofici, quando non irreparabili.
Questa minaccia è accresciuta dal fatto che si tratta di armi costruite in diretta violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite da un autocrate con un record dimostrato di ostilità nei confronti dell’America e del sistema internazionale esistente. L’argomento è ancora più forte perché Saddam Hussein ha espulso gli ispettori delle Nazioni Unite arrivati in Iraq in seguito all’accordo della Guerra del Golfo e ha usato le armi sia contro la propria popolazione che contro gli avversari stranieri. Ecco perché è improbabile che contro la capacità irachena di cooperare con i gruppi terroristici funzionino le politiche servite come deterrente nei confronti dell’Unione Sovietica per cinquant’anni.
Le esplosioni suicide hanno dimostrato chiaramente che i calcoli dei combattenti della Jihad non sono quelli dei protagonisti della Guerra Fredda. E i terroristi non hanno una nazione da proteggere. Inoltre l’argomento che una guerra contro l’Iraq istigherebbe gli iracheni a usare le loro armi contro Israele e Arabia Saudita è un boomerang: se il problema esiste oggi, aspettare può solo aumentare le possibilità di ricatto. C’è un’altra ragione generalmente trascurata per mettere in chiaro le cose con l’Iraq. L’attacco al World Trade Center ha le sue radici nel mondo islamico, specialmente in quello arabo. Non sarebbe stato possibile senza la tacita cooperazione di società che, per usare le parole di George W. Bush, «si oppongono al terrore ma tollerano l’odio che produce il terrore».
Mentre la strategia americana a lungo termine deve essere quella di eliminare le cause di questi risentimenti, la politica immediata deve dimostrare che una sfida terroristica o un attacco sistematico all’ordine internazionale produce conseguenze catastrofiche per i terroristi e per i loro sostenitori taciti o espliciti. La campagna in Afghanistan è stata un primo passo importante. Ma se rimane la mossa principale nella lotta contro il terrorismo, corre il rischio di restare un’azione isolata, mentre tutto il resto della regione gradualmente scivola verso una sistemazione ante 11 settembre che incoraggia gli estremisti come dimostrazione dell’esitazione americana e demoralizza i moderati che vedono crescere il potere iracheno.
Il cambiamento del regime iracheno e, come minimo, lo sradicamento delle sue armi di distruzione di massa, avrebbe alcune positive conseguenze politiche: la popolazione araba potrebbe concludere che le conseguenze negative della Jihad superano i suoi benefici potenziali. Potrebbe incoraggiare un nuovo atteggiamento in Siria. Rafforzare le forze moderate in Arabia Saudita. Moltiplicare le pressioni per un’evoluzione democratica in Iran. Dimostrare all’Autorità Palestinese che l’America fa sul serio. E riequilibrare la politica del petrolio all’interno dell’Opec. Allo stesso tempo, l’intervento in Iraq deve essere concepito come una strategia globale, il cui successo finale dipende sia dalle mosse che lo precedono che da quelle che lo seguono.
La responsabilità particolare dell’America, nella sua qualità di nazione più potente del mondo, è lavorare per costruire un sistema internazionale che si regga su qualcosa di più del potere militare, vale a dire trasformare il potere in cooperazione. Qualsiasi altro atteggiamento isolerebbe gradualmente e alla fine indebolirebbe gli Stati Uniti. Anche quando, come nel caso dell’Iraq, l’America agisce da sola, è nel suo interesse nazionale abbinare all’attacco un programma di ricostruzione post bellica, dimostrando al resto del mondo che la prima guerra preventiva degli Usa è stata imposta dalla necessità e che l’America persegue l’interesse mondiale, non soltanto il suo. Per questa ragione l’obiettivo del cambiamento di regime deve essere subordinato alla necessità di eliminare le armi di distruzione di massa dall’Iraq, così come richiesto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.
E’ necessario proporre un sistema rigoroso di ispezione per ottenere un’adeguata trasparenza delle istituzioni irachene. Deve essere posto un limite di tempo all’azione diplomatica: l’intervento militare sarebbe così fatto in un contesto di ricerca di un accordo comune. A questo punto, gli alleati degli Stati Uniti saranno obbligati ad affrontare la scelta che fino ad oggi hanno eluso: quella tra la loro opposizione interna e l’allontanamento dagli Usa. Dissociarsi dalle azioni statunitensi non salverebbe gli alleati dalle conseguenze di un’abdicazione nei confronti del problema del terrorismo. Bisogna prestare poi un’attenzione speciale al quadro psicologico e politico del mondo arabo. Va chiaramente spiegato che le armi irachene di distruzione di massa impediscono la soluzione dei molti problemi dell’area - non in categorie occidentali di sicurezza ma in questioni rilevanti per la regione mediorientale.
Ecco perchè è così importante unire le pressioni militari a un programma di ricostruzione economica e sociale cui gli alleati e i regimi arabi moderati devono essere invitati a partecipare. Allo stesso tempo l’amministrazione deve rifiutare l’argomento secondo cui un intervento in Iraq va preceduto dalla soluzione della questione palestinese. Non è vero che la strada per Baghdad passa attraverso Gerusalemme. Molto più probabilmente, la strada per Gerusalemme passa attraverso Baghdad. Il presidente ha impegnato l’amministrazione in un programma di tre anni per la creazione di uno stato palestinese. Non ha lasciato alcun dubbio sulla sua determinazione di portare avanti il programma.
Ma questo programma non va usato per differire una decisione che non può aspettare. La complessità dello scenario internazionale deve influenzare l’azione militare. Se la guerra dovesse essere inevitabile, non sarà tempo per esperimenti: più a lungo durano le operazioni militari, maggiore è il rischio di reazioni nella regione, dissociazione degli alleati e isolamento dell’America. Con tutta probabilità l’Iraq è molto più debole che nella Guerra del Golfo del 1991. Ma la pianificazione deve essere fatta preparando forze assolutamente superiori e non aspettandosi un rapido crollo iracheno.
Non bisogna lasciar spazio a errori e sottovalutazioni, né basarsi su forze di opposizione locale che guadagnerebbero in seguito una posizione politica dominante, impedendo altre opzioni politiche. E’ necessaria una massiccia presenza americana nella zona per assicurare un ampio margine di vittoria e la distruzione completa delle armi. Alla fine, comunque, la questione Iraq verrà giudicata internazionalmente soprattutto a seconda di come si gestirà la fase postbellica: ci saranno molte più nazioni desiderose di partecipare alla fase di ricostruzione che a quella di guerra, non fosse altro che perché nessun paese vuole vedere una posizione esclusiva dell’America in una regione chiave per le risorse energetiche e la stabilità internazionale.
Questo potrebbe essere il modo per collegare l’azione bellica unilaterale degli Stati Uniti a un sistema internazionale. L’intervento militare richiederà agli Stati Uniti di pensare a come conservare l’unità e l’integrità territoriale di un paese essenziale per l’equilibrio del Golfo. E’ certamente appropriata la proposta di una soluzione federale per permettere alle etnie sciite, sunnite e curde di vivere insieme senza la prevaricazione di una di esse. Ma bisogna allo stesso tempo evitare che l’autonomia si trasformi in indipendenza, il che nel caso dei curdi potrebbe compromettere un aiuto militare turco. E il nuovo governo deve avere abbastanza forza per resistere alle pressioni dei superstiti dell’antico regime o dei paesi vicini determinati a destabilizzare il nuovo sistema.
L’intervento militare, dunque, deve essere tentato solo se gli Stati Uniti hanno davvero l’intenzione di sostenere un simile sforzo per tutto il tempo che risulterà necessario. Perchè, alla fine, il compito è quello di trasformare un intervento militare in un nuovo sistema internazionale. La minaccia delle armi di distruzione di massa, il rifiuto di un sistema di ispezione serio, l’ostilità di Saddam sono un imperativo per un’azione preventiva. Ma non è interesse dell’America stabilire la prevenzione come principio universale valido per qualsiasi nazione. E siamo solo agli inizi della minaccia di proliferazione globale di armi.
Qualsiasi sia il loro atteggiamento nei confronti della questione irachena, le nazioni del mondo non possono permettere che questo processo vada avanti senza controllo. Gli Stati Uniti contribuiranno meglio a creare un nuovo ordine internazionale se inviteranno il resto del mondo, e soprattutto le potenze nucleari, a cooperare nel creare un sistema che che tratti questa sfida all’umanità in modo più autenticamente internazionale.
Dalla Stampa.