capitolo sei : LE COSIDDETTE INDAGINI
Fbi e Cia negano con forza fin dal principio di aver avuto il minimo sentore di quel che si preparava l'11 settembre. Nessun informatore aveva detto niente, nessun indizio, nessun sospetto. Le due più celebri e costose agenzie americane brancolavano nel buio. E' quindi una bella impresa per il Federal Bureau of Investigation, partito da quell'asserito zero assoluto, appurare in pochi giorni: l'identità di tutti e sedici i terroristi dirottatori, il loro passato, i loro spostamenti in USA, le scuole di volo presso cui s'erano addestrati. Foto segnaletiche, biografie, resoconti tempestivi vengono forniti generosamente ai media. I problemi cominciano quando i giornalisti si precipitano a vedere le scuole di volo, in Florida, dove secondo la polizia i terroristi sarebbero diventati provetti piloti. Il padrone della Huffman Aviation di Venice (Florida) mostra volentieri i suoi piccoli aerei-scuola nell'hangar. Ma alla domanda: l'addestramento che date qui è utile per pilotare grossi aerei commerciali? Risponde gioviale: ma no, si tratta di "sistemi completamente differenti".
Gli addestratori se li ricordano, quegli arabi. Mohamed Atta e Marwanal AI-Shehhi, che l'FBI indica come i piloti che hanno dirottato il Volo 11? "Né l'uno né l'altro sono stati capaci di superare la prova di primo livello" (Washington Post, 19 settembre). E Nawaq Alhazmi e Kahil Al-Midhar, gli accertati dirottatori del Volo 175? "Il loro inglese era pessimo, e le loro conoscenze meccaniche anche peggio ... per me, a malapena potevano guidare un'auto", rispondono gli istruttori del Sorbis Flyng Club: "Sull'aereo, erano Stanlio e Ollio" (Washington Post, 24 settembre).
L'addestratore Marcel Bemard, istruttore del Bowies Maryland Airport, si ricorda bene anche di Hani Hanjour, quello che secondo l'FBI pilotò l'aereo sul Pentagono compiendo la straodinaria acrobazia. "L'abbiamo fatto volare sul Cessna 172, io al suo fianco", racconta il maestro di volo: "tre volte. Lui aveva intenzione di affittare un aereo qui. Ma dopo tre volte, non me la sono sentita difarlo volare da solo". "E sì che dal suo libretto risultava che aveva 600 ore di volo. C'era da stupirsi, con quella esperienza, che non sapesse pilotare meglio" (The Prince George Journal, Maryland, 18 settembre).
Ad un'attività gli aspiranti piloti suicidi sembrano essersi applicati con tenacia: nel lasciarsi dietro tracce vistose, nel dare nell'occhio, nel farsi ricordare. Tutti i giornali hanno raccontato come questi musulmani integralisti, e imminenti martiri di Allah, abbiano trascorso la loro ultima notte a bere alcolici in un locale di spogliarelli, insomma a commettere un doppio sacrilegio.
"Hanno speso 200-300 dollari a testa in ballerine e drink", racconta il padrone dello strip-bar a decine di giornalisti. "Parlavano di come è orrenda l'America, dicevano: aspettate domani, l'America sarà nel sangue". Come non bastasse, "hanno pagato con le carte di credito" le consumazioni. Il padrone del locale ha infatti consegnato prontamente all'FBI "le ricevute delle carte di credito, fotocopie delle patenti di guida, un biglietto da visita" (i morituri hanno distribuito persino biglietti da visita) "e, stupefacente, una copia del Corano che uno degli uomini aveva lasciato nel bar". Chi vuole avere un resoconto completo dell'ultima notte dei suicidi, lo cerchi nel sito whatreallyhappened.com.
L'Associated Press (13 settembre) è invece la fonte di quel che Mohamed Atta e i suoi tre complici nel dirottamento del Volo 11 hanno fatto il mattino dell'11 settembre. Arrivano all'aeroporto Logan di Boston a bordo di un'auto noleggiata (perché non un taxi? Il viaggio, dopotutto, era di sola andata); nel parcheggio, hanno un piccolo incidente con un'altra auto; litigano, gridano. Cosi, dopo la tragedia, un testimone si ricorderà di quel litigio di quattro uomini dalla faccia da arabi, e prontamente condurrà gli agenti all'auto che hanno lasciato nel parcheggio dell'aeroporto. I terroristi hanno lasciato in macchina un Corano (in una valigetta) e "manuali di volo in arabo" (un rapido ripasso, prima dell'impresa; e su un'edizione rara, visto che i manuali di volo sono di solito in inglese), nonché un manoscritto in arabo vergato, secondo gli inquirenti, da Atta. Un grafomane, perché l'FBI trova un secondo manoscritto di Atta nella stessa auto, dentro una valigia. Copia dello stesso manoscritto, che evidentemente uno dei dirottatori s'era portato dietro, è stata trovata - così assicura l'FBI - anche fra i detriti del Volo 93. Un ritrovamento miracoloso, visto che i cronisti accorsi sul luogo dell'impatto nella campagne della Pennsylvania attestano che i pezzi più grossi dell'aereo sfasciato, pezzi metallici, "erano grandi come una guida telefonica". Questi documenti indistruttibili, che insieme configurano un testamento spirituale, sono così strani, che il Washington Post del 28 settembre affida la loro interpretazione al migliore dei suoi giornalisti investigativi, Bob Woodward (l'uomo che incastrò Nixon, l'eroe dello scandalo Watergate).
Bob riferisce i pareri di diversi docenti di cultura islamica. "A parte la sezione dove si parla di salire sull'aereo, il resto è quello che si può trovare in certi manuali di devozione medievali", assicura John Voll,della Georgetown University. Per Richard Martin, docente di studi islamici alla Emory University, il testo "si riferisce alla purificazione che il martirio porta". Tuttavia, gli arabisti non possono fare a meno di segnalare alcune "incongruenze". Per esempio, l'incipit del testamento di Atta, che recita: "In nome di Dio, di me stesso e della mia famiglia", è una formula inaudita nell'Islam, per non dire sacrilega (i musulmani pregano "in nome di Dio clemente e misericordioso", non nel proprio nome; ancor meno nel nome dei parenti: e l'invocazione a Dio è invariabilmente seguita dal nome del profeta, Maometto).
Inoltre, l'invito di Atta ai suoi complici di essere "ottimisti", nonché l'uso di altre espressioni moderne ("cento per cento" e così via) non è, annota Woodward, qualcosa che "si trova nei vecchi libri di preghiere". Così, è incongrua la richiesta di perdono a Dio, da parte di un martire di Allah. "La traduzione fornita dall'FBI [che non ha diffuso l'originale arabo] suggerisce una visione quasi cristiana nei dirottatori: chiedono perdono dei peccati, dicono che la paura della morte è naturale, che il credente è sempre tormentato da dubbi - - - ", si meraviglia su The Independent (29 settembre) Robert Fisk, giornalista esperto del Medio Oriente. Secondo Fisk, gli autori dei manoscritti "sembrano sorprendentemente a digiuno della loro religione". Gli investigatori si trovano in mano una strana scelta di reperti: la reiterata confessione scritta di Atta, ma non - poniamo - le scatole nere degli aerei. Ogni aereo ne ha due: il registratore dei dati di volo (FDR), e il registratore di voci nella cabina di pilotaggio (CVR). Sono apparecchi progettati per "sopravvivere" agli incidenti più disastrosi. Né le scatole nere degli aerei lanciati sulle torri, né di quello lanciato sul Pentagono sono stati trovati. Si sono rintracciate solo le scatole nere del volo caduto in Pennsylvania: ma, secondo gli inquirenti, una è "inutilizzabile", e l'altra "blank" (non ha registrato nulla). Insomma: otto scatole nere, e nessuna intatta e utile alle indagini.
Una sfortuna, e un caso eccezionalmente raro negli annali degli incidenti aerei.
In compenso, il 16 settembre, la CNN annuncia: "A New York, a diversi isolati di stanza dalle rovine del World Trade Center, è stato scoperto il passaporto che le autorità dicono appartenuto ad uno dei dirottatori. Lo ha reso noto il commissario di polizia Bernard Kerik. LFBI ha perciò ampliato l'area di ricerca ben oltre l'immediato luogo dell'impatto".
Le scatole nere di metallo non si sono salvate. Ma un passaporto, che un dirottatore portava con sé (a,quale scopo? Era un volo interno), gli è schizzato di tasca negli attimi roventi in cui il Boeing s'infilava nella torre tutto distruggendo, ha superato la prova del fuoco - una temperatura di almeno mille gradi, come ci è stato spiegato - e la caduta da mezzo chilometro fra tonnellate di macerie che hanno ridotto ogni altra cosa a un tritume irriconoscibile; ed è planato, intatto, "a diversi isolati di distanza". Le scatole nere, così necessarie per capire che cosa sia veramente successo a bordo negli ultimi minuti, sono scomparse o rotte; documenti di carta, utili solo a ben identificare i terroristi, sono miracolosamente intatti.
Ma poi l'FBI ha davvero identificato i terroristi? Dei sedici nomi subito diramati dopo la tragedia, due sono poi risultati di persone che vivono ancora da qualche parte in Medio Oriente, e uno di un defunto due anni prima.
In realtà, l'identità dei colpevoli non sembra affatto così sicura. Almeno sette passeggeri hanno telefonato dai quattro aerei dirottati: in nessuna di quelle chiamate disperate si accenna alla faccia araba o mediorientale dei dirottatori. Eppure tra coloro che hanno telefonato negli ultimi minuti di vita c'era Barbara Olsen, nota giornalista nonché moglie del "Solicitor Generar' (avvocato dello Stato) degli Usa: è credibile che abbia trascurato quel particolare?
Può essere credibile, si capisce: l'angoscia, il terrore. Del resto, i terroristi possono essersi mossi sotto falsa identità. I passaporti, le patenti di guida e i biglietti da visita che si sono lasciati dietro, vistosa traccia, possono essere tutti falsi. Anzi, è quasi certo. Ne esiste un indizio indiretto ma pesante. Apprendiamo da Go Memphis del 14 febbraio 2002 (è un giornale locale) che in quella città è stato aperto un processo contro Katherine Smith, anni 49, esaminatrice di una scuola guida, accusata di aver fornito "patenti di guida del Tennessee usando false informazioni a uomini di origine medio-orientale abitanti a New York". Purtroppo, il processo non ha avuto luogo: la signora Smith è morta domenica, il giorno prima della sua convocazione in tribunale per l'audizione.
La sua Acura Legend del '92 è stata vista, alle ore 12.45, deviare mentre percorreva a bassa velocità (20 miglia all'ora) la strada federale 72 e finire contro un palo della luce. Sei testimoni asseriscono al processo che "l'intemo dell'auto era in fiamme quando urtò contro il palo". La poliziotto Suzanne Nash dell'FBI, interrogata dal giudice Brennan, testimonia: "Il serbatoio dell'auto pieno di benzina era intatto". il fuoco s'era sviluppato solo dentro l'abitacolo: "E' stata trovata benzina sui vestiti di Katherine Smith".
L'agente Nash è recisa: "No, non è stato un incidente. E' stato un incendio doloso (arson)". "C'era una sostanza accelerante all'interno dell'auto", (un accelerante del fuoco, par di capire).
Insomma, Katherine Smith è stata deliberatamente resa "blank" un giorno prima che parlasse al suo processo sui documenti falsi. Il giornale di Memphis cita un avvocato, Karen Cicala: "Karen Smith evidentemente viveva una doppia vita, forse di più". Frase sibillina. Karen Smith forniva documenti falsi; non per fare soldi, visto che guidava un'auto vecchia di dieci anni. Forse, per compiere un dovere patriottico.
Fossimo in Italia, si parlerebbe di "servizi deviati" e delle loro opere tenebrose. In America, dopo l'11 settembre, simili dubbi non sono concessi dal corale, duro conformismo patriottico. La grande stampa si attiene alla versione ufficiale, riporta i dati sulle indagini in corso (sempre meno col passare del tempo) dalle fonti autorizzate. Le smagliature, se ci sono, sono occasionali.
Così il 15 settembre Newsweek, uno dei settimanali più ufficiosi degli Usa, accenna di sfuggita al fatto che cinque dei sospetti terroristi "got some training at American military bases". Dunque non hanno ricevuto l'addestramento solo nelle scuole per dilettanti della Florida, ma in basi militari americane? Ma è solo un blip. Una debole traccia sul radar. Subito scomparsa.