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    Unità, indipendenza, libertà i cardini della «Giovine Italia»

    di MARIO LEOCATA

    I quattro cardini della "Giovine Italia" erano l'unità, l'indipendenza, la libertà, la repubblica: e sulle prime tre tesi l'intransigenza di Mazzini fu assoluta, inflessibile, mentre sul quarto termine, la repubblica, in alcuni momenti decisivi del Risorgimento la sua intransigenza si attenuò, tanto da permettergli di assecondare gli sforzi per l'unità e per l'indipendenza italiane compiuti dalla Monarchia sabauda. Mazzini fu, quindi, essenzialmente unitario e italiano, e subordinatamente repubblicano. Ciò dimostra, a sua gloria, che egli anteponeva la Patria al partito politico. Altrettanto mirabile, quanto la sua tenacia nella fede unitaria, fu la sua fermezza nella propaganda per l'indipendenza. Egli, fin dal primo giorno in cui iniziò la sua attività di agitatore e di esule, sostenne con incrollabile sicurezza la tesi che tale lotta non solo era necessaria, ma di esito sicuro. L'associazione fondata da Mazzini assunse subito uno sviluppo impressionante, con la formazione di nuclei in molte parti d'Italia, malgrado le difficoltà e i rischi che gli adepti dovevano affrontare. Tale sviluppo costituì la prova sia della rispondenza del programma mazziniano alle necessità del momento storico, sia del fascino veramente straordinario, e delle capacità altrettanto straordinarie di propaganda e di organizzazione, che Mazzini rivelò da subito; tanto che, sebbene giovanissimo, brillò subito in prima linea fra i più formidabili agitatori europei, suscitando preoccupazione e allarme in tutte le polizie, a cominciare da quella austriaca. Nelle file della Giovine Italia entrarono quasi tutti gli esponenti delle nuove generazioni patriottiche italiane. E in tutti, anche in coloro che poi si staccarono dal fondatore e presero altre vie, come Vincenzo Gioberti (1801-1852), l'impronta del pensiero mazziniano rimase indelebile. Mazzini partiva dal presupposto che l'Impero asburgico era destinato fatalmente a crollare sotto l'azione delle insurrezioni nazionali, perché la sua impostazione costituzionale era la negazione di quei movimenti d'indipendenza dei vari popoli sottomessi che, sempre secondo Mazzini, rappresentavano la nuova, incoercibile forza della vita e della storia, e dimostrava questo con un'acuta analisi delle condizioni dell'Impero austriaco, non turbato dal fatto che in quel momento l'Impero primeggiava in maniera formidabile come potenziale bellico e come potenziale politico sul continente. Mazzini metteva in evidenza che l'Impero era un mosaico di Nazioni, posto sotto il tallone di un'oppressione che si nutriva di una burocrazia militare, ecclesiastica e civile, composito da ben sette popoli: magiari, czechi, italiani, tedeschi, slavi del sud, romeni, polacchi; di questi soltanto i primi due erano inclusi nella loro totalità nell'Impero, mentre gli altri cinque erano frammenti di nazioni soggette in parte anche ad altri oppressori: i Principi dispotici d'Italia e di Germania, l'Impero russo, l'Impero turco. Era ormai maturato il tempo, secondo Mazzini, in cui il sentimento nazionale si presentava come una forza finalmente ridestatasi, che agiva non solo nel popolo italiano, ma anche in tutti gli altri popoli oppressi e smembrati. La propaganda per il diritto nazionale era quindi un'arma formidabile per colpire l'Austria e anche per provocare un grande incendio di trasformazioni e di rivoluzioni europee, destinato ad allargarsi anche in Germania, nell'Impero russo e nell'Impero turco, preparando la nuova carta dell'Europa sul crollo dei vecchi dispotismi. Così la "Giovine Italia" avrebbe preparato la "Giovine Europa". La profezia di Mazzini si è avverata in pieno alla fine della Prima Guerra Mondiale. Il fatto che Mazzini desse tanto rilievo all'iniziativa italiana in quest'opera di rinnovamento europeo, ebbe inoltre il risultato di togliere a tutti i reazionari e passatisti l'argomento dell'"italianità", di cui essi si erano fatti un'arma per vietare l'ingresso delle idee rivoluzionarie universalistiche in una loro Italia gretta e provinciale, gelosa custode di un suo glorioso passato e sorda, perciò, ai richiami esterni e stranieri (era il modo in cui si era giustificata la reazione del 1799, il sanfedismo e la caccia ai patrioti, in nome della sacra tradizione italica contro le novità d'oltralpe: ragionamenti attorno ai quali s'è già trattato in precedenza). In quei momenti Mazzini s'impadronì dell'idea Italia con tale prepotenza, che gli avversari, per evitare equivoci dei quali egli avrebbe potuto avvantaggiarsi, gliela abbandonarono del tutto, sì che agli occhi degli Italiani, e del mondo intero, Mazzini impersonò l'unico, instancabile e irriducibile banditore dei diritti dell'Italia. Egli pensava che il grande movimento rivoluzionario, destinato a portare una così radicale trasformazione nell'assetto dell'Europa, dovesse avere il suo inizio e il suo impulso dall'Italia, perché lui non si sentiva soltanto agitatore politico: il programma politico non era fine a se stesso, ma era espressione di una concezione religiosa, imperniata su tre concetti: l'esistenza di Dio, la legge del progresso, l'unità del genere umano. Per Mazzini, l'umanità, attraverso i secoli, tende a elevarsi verso Dio, verso uno stato di perfezione, in cui i vari popoli, del pari liberi e civili, formeranno una sola famiglia. Per arrivare a siffatta perfezione, la fondamentale condizione, essenziale, consisteva nel fatto che i popoli prima di tutto rompessero le loro catene e si ricostituissero nella loro unità nazionale, e cioè portassero a termine le rivoluzioni politiche. Quindi sarebbe stato possibile il raggiungimento dell'unità morale e religiosa, di cui Roma sarebbe stato il centro naturale, perché già per due volte Roma aveva avuto da Dio la missione di essere il centro di un grande movimento di unificazione: la prima volta ai tempi dei Cesari, quando aveva unificato il mondo gravitante attorno al bacino del Mediterraneo, con la conquista, con l'azione; la seconda volta al tempo della diffusione del Cristianesimo, quando aveva unificato il mondo con la fede, con il pensiero. Alle due Rome: la Roma dei Cesari, la Roma dei Papi, doveva succedere la terza Roma, la Roma del Popolo, destinata a unificare il mondo con l'impulso alle rivoluzioni liberali e con la nuova religione dell'unità, e quindi con il pensiero e con l'azione. Alla base di tutta la dottrina religiosa e politica mazziniana sta la forza del popolo, quindi, che deve essere risvegliata attraverso la propaganda. L'elevazione del popolo è la prima condizione per la rigenerazione della Patria: condizione, a sua volta, essenziale per l'avviamento verso il trionfo della religione dell'umanità. Quell'elevazione doveva essere non solo morale e intellettuale, ma anche sociale ed economica: perché il popolo aveva anche diritti materiali da far valere. Mazzini si prospettava e voleva risolta anche la questione sociale e sosteneva il diritto delle classi operaie a migliorare le loro condizioni materiali, ponendosi con ciò in netto contrasto con altri scrittori dell'epoca, quali Cesare Cantù (1804-1895) e Silvio Pellico (1789-1854), che predicavano alle classi operaie la rassegnazione e il quietismo. Però, proponendosi il problema sociale, sosteneva due tesi: che quel problema non poteva essere risolto se prima non fosse stato risolto il problema nazionale, se, cioè, non si fosse avuta la ricostituzione della Patria unita e indipendente; che la soluzione doveva essere raggiunta non attraverso forme di sovvertimenti violenti e di lotta di classe, bensì attraverso la collaborazione di classe. "La questione sociale", scrisse negli anni delle lotte nazionali, "è questione prematura. Sappiamo tutti che la rivoluzione, per opera della quale l'Italia sarà, deve compiersi a beneficio non di una classe, ma del popolo tutto quanto, e di quella parte del popolo segnatamente che ha più insoddisfatti i proprii bisogni: ma sappiamo pure che nulla può farsi per il popolo, se prima l'Italia non è". Quanto ai metodi attraverso i quali, una volta risolta l'unità nazionale, la questione sociale avrebbe dovuto essere risolta, Mazzini tornava a porsi nettamente contro gli agitatori socialisti, che sostenevano la irriducibile antitesi tra la borghesia capitalista e le classi operaie. Con questi (e, in particolare con il più famoso di essi, Filippo Buonarroti, 1761-1837) Mazzini era venuto a contatto nei primi tempi del suo esilio francese e aveva cercato di coordinare la sua azione con la loro, in vista di una futura rivoluzione, ma ben presto un conflitto insanabile li aveva divisi, in quanto per Mazzini gli interessi delle varie classi erano non antitesi, ma conciliabili e armonizzabili nell'interesse superiore della Patria. Egli voleva che l'operaio, elevato nella sua coscienza e nella sua formazione mentale, divenuto cittadino in una Patria libera, trovasse modo di elevarsi anche materialmente, con un lavoro che gli assicurasse una adeguata retribuzione. E questa elevazione egli la riteneva perfettamente attuabile attraverso forme di associazionismo e di collaborazionismo, che unissero capitale e lavoro, funzioni direttive e attività esecutive, tanto nel campo della produzione industriale che agricola. Queste concezioni economico-sociali, armonizzate nel quadro dei grandi interessi della Nazione e della Patria, portarono Mazzini, negli ultimi anni della sua vita, a sostenere una vigorosa campagna contro il movimento socialista, guidato da Karl Marx (1818-1883), e il suo concetto di lotta di classe. Altra caratteristica del sistema di pensiero mazziniano, fu che tale sistema ebbe come significato centrale e fondamentale il concetto del "dovere", destinato, per Mazzini, a sostituire il concetto, divenuto troppo materialistico, del "diritto", che aveva trionfato con la Rivoluzione francese. Tale concetto egli lo interpretò con estrema coerenza attraverso la propria vita: fulgido esempio di energie intellettuali, morali, fisiche, tutte consacrate a una missione, al compimento del dovere, con uno spirito di sacrificio, con un disinteresse e con un ardore di fede che restano un esempio imperituro e un monito, purtroppo sempre attuale, per gli Italiani. Mazzini cadde nell'errore di valutare in modo troppo superiore alla realtà le forze e il grado di maturità delle classi popolari. Il popolo, che egli giudicava la nuova forza animatrice della storia, ormai matura per l'azione, era in realtà costituito, in gran parte, da masse addormentate e inerti. Perciò i tentativi, alla cui organizzazione Mazzini si dedicò fin dai giorni della costituzione della Giovine Italia, e ai quali non rinunciò neppure al tramonto della sua vita, si risolsero quasi sempre in pesanti insuccessi. La serie dei fallimenti iniziò già con i primi due tentativi, del 1833 e del 1834. Nel 1833, dopo aver costituito nel Regno di Sardegna i primi gruppi della Giovine Italia, Mazzini tentò di impadronirsi del Piemonte, giovandosi soprattutto dei numerosi affiliati che facevano parte dell'esercito sabaudo, per iniziare la guerra contro l'Austria. La vasta congiura, scoperta dalla polizia, diede luogo a moltissimi arresti, seguiti da gravi condanne, fra le quali dodici esecuzioni capitali. Iacopo Ruffini (1805-1833), capo del gruppo di cospiratori di Genova, si uccise in carcere. In questa occasione Carlo Alberto (1798-1849) dimostrò una implacabile severità: infatti, non solo non concesse la grazia ai condannati a morte (comportandosi più duramente dell'Imperatore d'Austria o del Re delle Due Sicilie), ma volle dimostrare la sua "sovrana" soddisfazione proprio al governatore di Alessandria, generale Giuseppe Gabriele Maria di Genola, conte Galateri (1761-1844), che aveva istruito i processi con grande rigore, spingendo, tra l'altro, al suicidio Iacopo Ruffini, e che ebbe per ciò, dal re, un'altissima onorificenza, il collare della SS. Annunziata. Mazzini, intanto, superato lo sconforto del fallimento, l'anno seguente si trasferì da Marsiglia a Ginevra, dove organizzò un corpo di volontari che doveva invadere la Savoia, mentre movimenti insurrezionali sarebbero scoppiati a Genova e in Piemonte. La colonna destinata a invadere la Savoia comprendeva, nelle sue file, accanto a profughi italiani, individui di altri paesi d'Europa, fra cui molti Polacchi, ed era affidata al comando di Girolamo Ramorino (1792-1849), che aveva preso parte alle lotte in Polonia, nel 1831. A questo tentativo è legata la prima attività politica di un altro grandissimo artefice del nostro Risorgimento, Giuseppe Garibaldi (1807-1882), di due anni più giovane di Mazzini, la cui anima ardente e generosa era stata tutta presa dal soffio della propaganda mazziniana (all'Eroe dei Due Mondi sarà dedicato, più in là, un ampio ritratto, anche per celebrarne, doverosamente e affettuosamente, il duecentesimo della nascita). Per contribuire al successo del tentativo, il giovane Garibaldi non esitò ad arruolarsi nella marina da guerra sarda, nell'intento di farvi propaganda rivoluzionaria e di determinarvi una sommossa. Fin da quel primo gesto, Garibaldi rivelò la caratteristica dominante di tutta la sua straordinaria vita: la mirabile audacia e la prontezza nell'accompagnare al pensiero l'azione. Anche il tentativo del 1834 fu sventato (la colonna dei volontari penetrata in Savoia, fu rapidamente assalita e dispersa dalla polizia, mentre anche a Genova il moto insurrezionale falliva), con l'ovvio seguito di repressioni pesantissime. Garibaldi, per fortuna della Patria, riuscì a scampare in esilio, mentre una condanna a morte colpiva lui come colpiva Mazzini. L'eroico Nizzardo si avviò oltre Oceano, pronto a una vita rude e combattiva, che doveva presto metterne in risalto, insieme con la generosità dell'animo, le doti eccezionali di condottiero e di uomo d'azione. Fu, infatti, combattente valorosissimo nelle lotte che agitarono il Brasile, e poi nella guerra dell'Uruguay contro l'Argentina. 10 - continua

    lunedì 6 agosto 2007
    tratto da http://www.iltempo.it/approfondiment...=8&Editionid=3

  2. #162
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    10° appuntamento de L’Occidente nel labirinto a Forlì: lezione magistrale del Prof. Maurizio Viroli

    (Sesto Potere) - Forlì - 15 dicembre 2008 -Lunedì 15 dicembre a Forlì si terrà la Lezione magistrale “La libertà, Sancio! Libertà politica e virtù civile” tenuta dal Prof. Maurizio Viroli (Princeton University), nella Sala Zambelli della Camera di Commercio (P.zza Saffi), con inizio alle ore 21.00. E’ il decimo appuntamento de “L’occidente nel labirinto. Il don Chisciotte indispensabile”, il ciclo di incontri culturali ideato dal Circolo Acli “L. Valli” in collaborazione con Sadurano Salus, con il Comune di Forlì e la Provincia di Forlì-Cesena.

    Il titolo della conferenza è mutuato da una delle pagine più celebri del romanzo cervantino: “La libertà, Sancio, è uno dei più preziosi dono che i cieli abbiano fatto agli uomini; né i tesori che racchiude la terra ne quelli che ricopre il mare sono da paragonare a essa; per la libertà, come per l’onore, si può e si deve mettere a repentaglio la vita”.

    Ad una lettura frettolosa queste parole potrebbero essere intese unicamente in funzione del contesto immediato nel quale vengono pronunciate; ma se ci si addentra nella riflessione si scopre un senso molto più profondo. La libertà di cui parla Cervantes, che patì cinque anni di prigionia e successivamente varie detenzioni, non è semplicemente quella di un uomo che può vivere secondo quel che gli pare e piace. Cervantes sapeva per esperienza cos’è la libertà, e il suo don Chisciotte rappresenta fondamentalmente la lealtà verso un ideale che corrisponde infinitamente al cuore dell’uomo. È per questa fedeltà all’ideale del santo-cavaliere che egli è libero perfino se chiuso in una gabbia, come accade alla fine della sua seconda uscita. Nonostante abbia perso il senno infatti, don Chisciotte sa perfettamente qual è la sua missione nel mondo e ancor di più è cosciente del fatto che mai potrà portarla a compimento con le sue sole forze.

    Don Chisciotte è certo del suo ideale, per questo è libero. È libero di fare qualunque sacrificio fino al punto di non soppesare le conseguenze né l’utilità delle sue azioni; è libero di gridare ai quattro venti e a chiunque incontra qual è questo suo ideale; è libero dai suoi fallimenti, dallo scherno altrui, dall’essere preso per pazzo; e infine soprattutto è libero da se stesso, perché per rimanere fedele all’ideale vince se stesso, come spiega Sancio mentre, insieme al suo malconcio signore, ritornano al paese.

    Maurizio Viroli da molti anni svolge una appassionata e insieme lucida indagine sulla libertà civile. In molte sue opere – soprattutto in Repubblicanesimo (Laterza) – egli sostiene che esiste un'antica utopia della libertà nata nel nostro paese con Machiavelli e le libere repubbliche, capace di superare i limiti tanto del socialismo quanto del liberismo. Per avviare il repubblicanesimo non bastano però, sostiene Viroli, le leggi e la minaccia di sanzioni, occorre creare una coscienza civica diffusa. Occorre altresì un ripensamento del concetto do “dovere”. E proprio all’Italia dei doveri Viroli ha dedicato il suo ultimo, omonimo libro (editato da Rizzoli), scritto da un italiano «in esilio» che riscopre il proprio Paese ogni giorno più conformista e pavido, corroso dall' indifferenza e devastato da inettitudini, disinganni e odio tra fazioni. Insomma: una comunità di anime morte, nella quale si ignora perfino un quoziente minimo di senso civico e si tira avanti persuasi di avere solo diritti, con il risultato che i rapporti sociali degenerano «nel dominio dei prepotenti sui deboli, dei furbi sugli onesti, dei dissennati sui saggi». Un posto dove tale convinzione è così radicata «da far apparire bizzarra, addirittura ridicola l' idea che i diritti impongano di assolvere dei doveri». Se non si riscopre la dimensione del dovere – questa sarà la tesi dominante che Viroli argomenterà con passi tratti dalle opere dei padri della patria – neppure si potrà concepire quella della libertà.

    tratto da http://www.quotidianodelnord.it/inde...110&Rid=190605

 

 
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