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    Predefinito ASPETTANDO LA SECONDA ONDATA...

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    Aspettando la seconda ondata della crisi finanziaria

    di Domenico Moro

    Il signor Thomas Mirow deve essere un menagramo di professione o quantomeno un inguaribile pessimista. Secondo Berlusconi, “uomo del fare” e inguaribile ottimista, la crisi si sarebbe ormai “sfogata”, come una febbre seguita ad un fastidioso raffreddore, mentre la borsa di Wall Street, dopo i crolli del 6,3% e del 5,5% del Pil rispettivamente nel quarto trimestre 2008 e nel primo trimestre 2009, accoglie con giubilo il terzo calo consecutivo, nel secondo trimestre 2009, che è “solo” dell’1,5%, tanto da parlare di una prossima uscita dalla crisi.

    Il signor Mirow, che non è uno qualsiasi ma è il presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, ha invece avvertito venerdì scorso i paesi dell’Europa dell’Est che è possibile l’arrivo di una seconda ondata della crisi finanziaria. Mirow ha messo, con la sua dichiarazione, il dito sulla piaga purulenta che continua a infettare l’economia europea e mondiale.

    Infatti, i paesi dell’Europa orientale, già scossi duramente dalla prima ondata della crisi (tanto da aver già ottenuto dal Fondo Monetario internazionale prestiti consistenti per evitare la bancarotta), stanno facendo fronte ad una vorticosa crescita dei fallimenti societari e dei crediti insolventi, che potrebbero destabilizzare il loro traballante sistema bancario. I crediti insolventi sono raddoppiati nell’ultimo anno in Turchia, Romania, Ucraina e Albania. In Romania, in particolare, le banche non riescono più a percepire interessi dall’8% dei prestiti accordati.

    In Turchia i crediti insolventi sono il 5%, mentre i fallimenti delle carte di credito stanno crescendo con un ritmo percentuale a doppia cifra. Sono proprio le carte di credito, oggi, ad essere uno dei maggiori fattori di criticità dell’economia internazionale. La politica del credito facile, a sostegno dei consumi (e dei profitti) declinanti per il calo decennale dei salari reali, è stata praticata non solo accordando mutui senza garanzie ma anche elargendo generosamente carte di credito, in specie del tipo “revolving” (che rateizzano la spesa a fronte di alti tassi d’interesse).

    Così, negli Usa, alla crisi dei mutui si è accompagnata quella delle carte di credito. Banche come Citigroup e Bank of America e società specializzate in carte di credito come American Express hanno già perso miliardi di dollari. Ora si paventa, come fa il Financial Times di lunedì, il trasferimento della crisi delle carte di credito dagli Usa all’Europa. Con la differenza che, mentre negli Usa il debito al consumo è di 1.914 miliardi di dollari, in Europa raggiunge i 2.467 miliardi, dei quali il 7% di potrebbe andare perduto.

    La maggior parte di queste perdite sarebbe concentrata nel Regno Unito, il paese che ha seguito maggiormente le orme degli Usa nella finanziarizzazione dell’economia e nell’indebitamento, e dove le insolvenze sono arrivate a 29.774 nel primo trimestre del 2009. Le perdite, inoltre, saranno sostenute interamente dai Lloyds (le assicurazioni britanniche), dal momento che le banche non sono riuscite a includere le carte di credito tra i 260 miliardi di sterline di titoli tossici assicurati col governo britannico.

    La cosa più strabiliante e paradossale, ma solo in apparenza, è che né gli Usa né il Regno Unito sembrano aver tratto alcuna lezione dalla crisi dei subprime, legata agli effetti nefasti della mancanza di regolamentazione. Infatti, i due paesi stanno facendo pressioni affinché hedge fund e private equity non vengano sottoposti a regolamentazioni troppo strette da parte della Ue, che, sostengono, danneggerebbero il settore finanziario e chiuderebbero i fondi Usa agli investitori europei. A queste pressioni si oppongono Francia e Germania, che vorrebbero introdurre, come previsto dalla proposta contenuta nella “Direttiva sui fondi di investimento alternativi”, limiti all’indebitamento dei fondi, l’obbligo di tenere capitale sufficiente a coprire perdite e smobilizzi, e la divulgazione degli investimenti nel portafoglio dei private equity.

    Come dicevamo, la mossa degli anglosassoni è solo apparentemente paradossale. Chi pensava che l’avvento di Obama e la pubblica gogna di qualche amministratore delegato di banca disonesto avrebbe cambiato d’un colpo i meccanismi di un sistema ormai consolidato (e conveniente per l’aristocrazia finanziaria e industriale) ha peccato d’ingenuità. La verità è che le misure anticrisi dell’amministrazione Obama (infarcita di quegli economisti clintoniani che diedero avvio al presente sistema) si basano sull’immissione di una enorme liquidità e denaro a basso costo. Niente di nuovo, rispetto all’ultimo quindicennio. O, per dire meglio, sono nuove le dimensioni ancora più spropositate della spesa statale Usa.

    Secondo la dichiarazione shock dell’ispettore generale del governo statunitense, ammonterebbe a 27.700 miliardi di dollari la spesa totale per rimettere in funzione il sistema finanziario. È solo grazie a questa immane liquidità che le banche e le multinazionali nordamericane sono tornate in utile. Per questo gli Usa (e il Regno Unito) hanno bisogno di mantenere in funzione il sistema e rastrellare liquidità dovunque, così come hanno bisogno che la Cina continui a comprare titoli del tesoro Usa e a finanziare indirettamente il loro debito commerciale e statale.

    Altro discorso è quello della Germania e della Francia (e aggiungerei dell’Italia), che non sono debitori (non hanno debito del commercio estero) e scontano, viceversa, una forte esposizione delle loro banche verso i paesi dell’Europa orientale (non solo finanziariamente ma anche industrialmente molto integrata con quella occidentale) e verso le maggiori aree mondiali in via di sviluppo. È loro interesse proteggere il proprio sistema bancario dai contraccolpi della finanza Usa, che già gli ha trasmesso l’infezione dei subprime, e da quelli della traballante Europa orientale.

    Intanto, la disoccupazione cresce in Europa (in Spagna il record del 18%) e in Giappone (6 milioni di lavoratori dichiarati in esubero), con un impatto negativo sulla domanda di merci facilmente immaginabile nel prossimo periodo.

    Difficile dire se è alle porte una seconda ondata della crisi finanziaria. Certo è che i fattori di criticità che hanno portato alla crisi non sono stati risolti, anzi in molti casi si sono aggravati, mentre si continua imperterriti a perseguire nella stessa direzione: mancanza di regolamentazione nella circolazione dei capitali e interventi statali massicci ma del tutto subalterni alle banche e alle grandi imprese.

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    Predefinito Rif: ASPETTANDO LA SECONDA ONDATA...

    Crisi globale . Scoppia guerra commerciale tra USA e Cina sui tubi d'acciaio


    E' guerra commerciale fra Washington e Pechino e la cosa potrebbe incidere sui rapporti tra i due Paesi. Il dipartimento del Commercio americano ha annunciato ieri di aver imposto dazi preliminari compresi tra il 10,90 e il 30,69 per cento su importazioni di tubi d'acciaio cinesi per complessivi 2,6 miliardi di dollari. La mossa era stata caldeggiata dai produttori e dai sindacati americani del settore secondo cui le importazioni di acciaio cinesi a prezzi bassissimi hanno portato alla perdita di migliaia di lavoro negli Stati Uniti. Furiosa la reazione cinese giunta questa mattina. «La Cina è molto preoccupata per questa vicenda - ha dichiarato un portavoce del governo cinese - e ci opponiamo con vigore a misure protezioniste del genere».
    Il portavoce del governo cinese non ha voluto fare commenti sulla possibilità che Pechino risponda per le rime alla mossa americana, ma ha spiegato che sono possibili nuove comunicazioni ufficiali nel corso della giornata. Dal 2006 al 2008, le importazioni di tubi d'acciaio cinesi utilizzati soprattutto per gli oleodotti, sono aumentate del 203% in termini di volumi arrivando alla somma annua di vendite per 2,6 miliardi di dollari. I produttori americani guidati da Us Steel e Maverick Tube e affiancati dal principale sindacato del settore, la United Steelworkers union, chiedevano da tempo alla Casa Bianca di intervenire per difendere posti di lavoro e quote di mercato ritenendo che gli esportatori cinesi siano ingiustamente aiutati dalle sovvenzioni governative. Proprio queste ultime sono alla base dei diversi dazi imposti dal dipartimento del Commercio americano agli importatori cinesi. Aziende come la Zhejiang Jianli Enterprise, considerata la più sovvenzionata fra imprese cinesi del settore, è stata colpita con dazi pari al 30,69 del valore delle merci importate mentre Tianjin Pipe Group dovrà pagare il 10,90%. La decisione del dipartimento del Commercio è tuttavia solo preliminare e deve essere confermata entro il 23 di novembre. Inoltre perché le misure diventino effettive, occorre un pronunciamento entro gennaio anche da parte della International Trade Commission. Il dipartimento del Commercio peraltro sta valutando un'altra accusa avanzata da aziende e sindacati americani, cioé che i produttori cinesi si siano resi colpevoli di "dumping" (quindi di vendere sul mercato americano i propri tubi di acciaio a prezzi eccessivamente bassi per sbaragliare ingiustamente la concorrenza locale). Se l'accusa di dimostrasse corretta, gli Stati Uniti potrebbero decidere per dazi punitivi compresi tra il 36,94% e il 99,14% del valore delle importazioni in aggiunta ai dazi già annunciati mercoledì. La decisione del dipartimento del Commercio viene inoltre a pochi giorni dalla scadenza del 17 settembre entro cui il presidente Barack Obama deve decidere se intervenire per ridurre le importazioni di pneumatici dalla Cina, che in questo caso avrebbero comportato la perdita di 5mila posti di lavoro negli Stati Uniti. I sindacati non sono contrari in questo a una soluzione di compromesso con la Cina ma chiedono che si arrivi a un accordo debole per evitare di alzare il livello di tensioni con la Cina. «È chiaro che se non troviamo un rimedio efficace a questo problema - ha detto Leo Gerard, presidente della Steelworkers Union - allora finiremo con il perdere altri posti di lavoro». (fonte: Il Sole 24 Ore)

 

 

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